Salvo Lombardo | Chiasma
EXCELSIOR
Ideazione, coreografia, regia Salvo Lombardo
Performance Jaskaran Anand, Cesare Benedetti, Lily Brieu, Lucia Cammalleri, Leonardo Diana, Fabritia D’Intino, Daria Greco
e con i partecipanti al workshop Around Excelsior
Collaborazione coreografica Daria Greco; Musiche Fabrizio Alviti; Disegno luci e video Daniele Spanò e Luca Brinchi; Contributi filmici Isabella Gaffè; Video Homo Homini Lupus Filippo Berta; Cultural advisor Viviana Gravano; Costumi Chiara Defant; Foto Carolina Farina; Ottimizzazione tecnica Loris Giancola, Luca Giovagnoli, Gabriele Termine; Logistica e organizzazione Sabrina Chiarelli; Produzione esecutiva Chiasma con il sostegno di MiBAC – Ministero Beni e Attività Culturali; Co-produzione Théâtre National de Chaillot, Parigi; Festival Oriente Occidente, Rovereto; Festival Fabbrica Europa, Firenze; Romaeuropa Festival, Roma; Versiliadanza, Firenze; Sostegno Teatro della Toscana / Pontedera Teatro, ACS Abruzzo; Creazione realizzata nell’ambito del progetto Residenze coreografiche Lavanderia a Vapore 3.0 / Piemonte dal Vivo; Durata 60 minuti; Debutto 1 settembre 2018 – Festival Oriente Occidente, Rovereto
“Per sapere occorre immaginare.”
(Didi-Huberman, 2005: 15)
GG: Quando ho visto Excelsior per la prima volta, sul palcoscenico del Festival Oriente Occidente di Rovereto, dopo averne tanto parlato fra noi (fra me, te e Viviana Gravano, che ha seguito tutto il processo di ricerca e di creazione artistica) ho pensato immediatamente che questo spettacolo risponde a una domanda che viene dal futuro, direbbe Derrida (2005). È innanzitutto l’interrogazione di un archivio, che ne contiene dentro molti altri. Non è solo una interrogazione dell’archivio della danza classica, del suo discorso, delle sue iconografie e della sua grammatica, attraverso una delle sue produzioni maggiormente “esemplari”, il Gran Ballo Excelsior[1] del 1881, ma è più in generale una interrogazione del vasto archivio della nostra cultura d’appartenenza, qualunque cosa questa espressione abbia significato e continui a significare oggi. Un archivio fatto di immagini e immaginari tra culture istituzionali e popolari, danza, rappresentazioni museali o della storia dell’arte, cinema, pubblicità, prodotti di consumo, immagini di guerra, videoclip musicali. È a partire da questo archivio assai poco ordinato che abbiamo più o meno coscientemente provato a definire la nostra identità di “italiani”, negoziando fra narrazioni egemoniche e popolari o subalterne, da un punto di vista che inizialmente doveva dare sostanza all’idea di nazione, e che tuttavia è sempre stato legato a una rete di appartenenze più estesa, globalizzata, complessa e diasporica, nella quale oggi si riaccendono focolai ostinati e spesso violenti di razzismi e micronazionalismi[2]. È proprio l’aspetto immaginativo di questo archivio che tu srotoli in Excelsior, nelle tante direzioni e forme che nel tempo (in questi quasi 160 anni) ha prodotto, e (ri)produce ancora. In un certo senso, Excelsior è il doppio e il capovolgimento di quell’archivio, il suo rovesciamento (come l’immagine nello specchio), come un enorme “cassetto svuotatasche” della memoria e dell’identità, ma contemporaneamente è il riuso di quell’archivio come strumento, dispositivo, gesto desiderante. Appadurai parla in questi termini dell’archivio: “the archive, as an institution, is surely a site of memory. But as a tool, it is an instrument for the refinement of desire”[3]. In questo senso, la temporalità che Excelsior mette in scena e della quale si nutre, eccede quella dell’archivio inteso in senso cronologico come luogo depositario di un passato. Excelsior è un andirivieni fra reminiscenze e anacronismi, una matassa intricata di passato e futuro (il futuro della memoria), è il momento in cui queste temporalità collassano nel contemporaneo, sul palcoscenico, tra gesti iconici, immagini, segni, citazioni e ri-mediazioni:
“Ogni esperienza visuale interessante è il risultato di un montaggio di temporalità plurali ed eterogenee che si compongono sempre di un elemento che ha a che fare con il passato, un elemento memoriale; di un momento presente, e per questo assolutamente imprevedibile; e infine di ciò che Deleuze chiamava l’avvenimento, un elemento che invece ha a che fare con il desiderio e la sorpresa del futuro. (…) Credo che la questione della memoria non possa assolutamente essere separata dalla questione del desiderio. (…) Un’idea di storia fondata unicamente sulla cronologia è totalmente insufficiente. Non si può guardare un’immagine solo dal punto di vista della storia cronologica” (Didi-Huberman, 2009).
Del resto, qualunque archivio non è mai soltanto un sito di memoria, ma il tentativo di costruire un regime di memorabilità, di aspirare cioè alla costruzione di immaginari nei quali una collettività possa identificarsi di lì in poi, in futuro. La questione è il soggetto che ha il potere e l’autorità di definire cosa entra e cosa resta escluso. Un archivio in questo senso non è mai innocente, o neutrale. È un dispositivo di costruzione di memorie, ma anche di dimenticanze e di assoggettamenti.
“La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione.”
(Eco, 2017: 34)
SL: Tutti i miei lavori, almeno dal 2014 a oggi, ruotano intorno al concetto di archivio, generando una pratica compositiva che mi piace definire come “derivativa”. L’istituzione archivio, così come siamo soliti pensarla in termini culturali, oltre che funzionali, è evidentemente molto complessa, e comporta una serie di considerazioni in cui amo inciampare. Dal mio punto di vista gli archivi, incrociando la pratica “performativa”, si prestano ad una dialettica dei corpi porosa e intersoggettiva, sottraendosi ad ogni tentativo di conservazione e di “museificazione” del dato. Interrogare gli archivi, per me, coincide con il loro ribaltamento, come tu sottolinei, sfuggendo ad ogni desiderio di catalogazione oggettivante nei confronti dei dati a cui di volta in volta attingo.
Il corpo con le sue pieghe morfologiche, attitudinali ed emozionali è il dispositivo primario di raccolta del dato gestuale. Gli archivi che questa modalità a sua volta genera, sono permeabili e circostanziali.
In questi anni, assieme al mio gruppo di lavoro, abbiamo osservato, incorporato, collezionato e trascritto posture, gesti, frasi e comportamenti dedotti dai più svariati contesti: dal movimento dei passanti in spazi pubblici alla cultura del clubbing, dalla pratica di sport popolari a giochi di società che prevedono il coinvolgimento del corpo (come nel caso della performance Twister che ho creato per la compagnia lituana Aura Dance Theatre[4]).
Partendo da questo interesse ho sempre puntato finora all’emersione di micro-narrazioni dei corpi esposti sul precipizio della nozione di “Storia” e dei suoi monolitici processi selettivi e cronologici.
Date queste premesse era inevitabile confrontarsi, oggi, anche con un altro tipo di traccia, lavorando a partire da una matrice fortemente storicizzata sia in termini estetici che di narrazioni, come il Gran Ballo Excelsior, seppure rifiutando un’aderenza con esso e disattivando ogni eventuale forma di continuità tematica.
Da qui la necessità di definire il nostro Excelsior come un tentativo di ri-mediazione (Bolter-Grusin, 1999) culturale della sua matrice classica, scevro da ogni afflato filologico e spoglio di dissertazioni novecentesche sui codici impliciti alla danza e sul suo lessico a volte autoreferenziale, come spesso lo sono anche i suoi strumenti di analisi. Quindi, sulla base di queste intenzioni ci siamo interrogati a lungo con Viviana Gravano, consulente culturale dell’intero progetto, su quali fossero prima di tutto le parole chiave che potessero circoscrivere e orientare l’ambito della nostra ricerca. Abbiamo cercato di rivitalizzare delle definizioni o di agire prima uno stretching concettuale che ci permettesse di esprimere con chiarezza epistemica quali fossero le nostre intenzioni.
Questo nostro “Excelsior” non è dunque un re-enactment; è piuttosto un dispositivo scenico di ri-emergenze[5] che messo in relazione con la sua matrice “utopica” procede in maniera “distopica” e non ordinata, come tu sottolinei. Pur riferendosi ad un oggetto del passato, non si compiace di quel sentimento di «retromania»[6] che dilaga, oggi, tra le nostalgie di vecchi esercizi di potere e di “nuovi” ritorni all’ordine. Per riprendere il tuo discorso, sì, abbiamo “frequentato” il Gran Ballo Excelsior come “un sito di memoria”, lo abbiamo stressato sottoponendolo al test di questo presente così tumultuoso da un punto di vista sociale, politico ed estetico. La memoria (storica e culturale di quell’oggetto) ha agito al semplice livello di evocazione di qualcosa che è assente (o invisibile, se vogliamo), proprio nell’ “adesso” della sua rivificazione. Pertanto sarebbe stato sterile concentrarsi su una semplicistica riattualizzazione “inventiva” della sua partitura coreografica o delle narrazioni primigenie dell’opera. L’analisi del Gran Ballo Excelsior ci ha invogliato ad andare oltre l’eventuale esercizio di stile e a ragionare sul deposito di senso presente in tutti i livelli di scrittura e di composizione scenica dell’opera. La priorità è stata quella di capire quanto ogni suo aspetto costitutivo sottendesse una serie di temi e di possibili derive culturali ancora attive oggi, in una società che ricalca pericolosamente, sotto mutate forme, gli stessi discorsi e immaginari stereotipici e razzializzati.
“Tra bufalo e locomotiva
la differenza salta agli occhi
la locomotiva ha la strada segnata
il bufalo può scartare di lato
e cadere”
(Francesco De Gregori, Bufalo Bill, 1976)
GG: Le radici del tuo lavoro sul Gran Ballo Excelsior interrogano dunque in primis la matrice nazionalistica e coloniale della nostra identità culturale, nelle sue contemporanee ri-presentazioni. Certamente il successo del Gran Ballo (replicato di recente nel 2015 in occasione dell’Esposizione Universale di Milano) è il sintomo della necessità politica di riprodurre, aggiornandole, certe visioni istituzionali di una italianità omogenea, posizionata dal lato delle grandi civiltà progredite, che con gli strumenti della Scienza, della Cultura, della Moralità rischiareranno l’oscurità prevalente in molte aree del mondo, come scrive Luigi Manzotti nel libretto originale del Gran Ballo:
“è la titanica lotta sostenuta dal Progresso contro il Regresso ch’io presento a questo intelligente pubblico: è la grandezza della Civiltà che vince, abbatte, distrugge, per il bene dei popoli, l’antico potere dell’oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia. Partendo dall’epoca dell’Inquisizione di Spagna arrivò al traforo del Cenisio, mostrando le scoperte portentose, le opere gigantesche del nostro secolo.”
Battelli a vapore, piroscafi, l’invenzione dell’elettricità, il telegrafo, il canale di Suez, il traforo del Cenisio, vengono raffigurati nei quadri del Gran Ballo attraverso metafore, scene, coreografie monumentali, basate sulle classiche dicotomie positiviste luce/oscurità, progresso/regresso, civiltà/barbarie. L’ideologia del progresso predominante nel tardo ottocento, quando il Gran Ballo venne rappresentato per la prima volta, era la stessa narrazione che era possibile incontrare nei teatri e nei musei, dove i cittadini delle neonate nazioni europee iniziano a conoscere la genealogia immaginata della propria cultura, ancorandola alla classicità e alla bianchezza, nei giardini antropo-zoologici e botanici, segno della penetrazione delle potenze europee in molte aree esotiche del mondo e del loro più o meno simbolico possesso, nelle esposizioni universali, che esemplificano meglio di qualunque altro dispositivo questo meticoloso e complesso “exhibitionary order” (Mitchell, 2002), che costantemente intreccia i due piani narrativi del progresso e del colonialismo. Le colonie non sono state solamente un “altrove” esotico, o la risorsa cruciale per la nostra industrializzazione, o un’occasione di prestigio e potere politico, un bottino da spartirsi e contendersi con le altre potenze europee. Sono state anche il bacino immaginativo per le nostre fantasie di superiorità, il soggetto subalterno ridotto a oggetto, che ci ha permesso di definirci come soggetti egemonici, un confine indispensabile alla delimitazione e costruzione della nostra identità in forma nazionale, in un momento in cui era estremamente difficile riempire questo concetto di valori e immaginari che accomunassero comunità fortemente eterogenee per cultura, lingua e tradizioni. Il Gran Ballo Excelsior in questo senso è stato, nelle parole di Viviana Gravano:
“il paradigma perfetto di un nazionalismo senza nazione, che ha bisogno di inventare un passato “classico”, che si manifesta perfettamente nelle monumentali scenografie fatte di spazi, pitture e sculture, e fatte dalle architetture di corpi che i figuranti spesso pressoché immobili disegnano. Non sono solo le citazioni riprese dal mondo romano, ma anche dal Rinascimento, dal Barocco, persino contaminate da citazioni “esotiste”, perché quello che viene mostrato è quell’eclettismo che in Italia useranno i Coppedé, ma che nella stessa Milano, proprio al momento del debutto di Excelsior, si ritrova nella Esposizione Industriale Nazionale, nei diversi padiglioni che utilizzano stilemi praticamente identici”[7].
Queste narrazioni hanno continuato ad essere produttive per più di un secolo, traducendosi in rappresentazioni istituzionali e popolari intrise di immaginari stereotipici su di noi e sugli altri, e a tratti in un senso comune ammantato di una violenta inferiorizzazione dell’altro (oggi evidente ad esempio rispetto agli “immigrati”). Di tutto questo il tuo Excelsior restituisce un quadro mosso, spietato, ironico, in certi momenti disperato, scomposto, estremamente lucido. Dove sono finiti questi immaginari? In quali impensati luoghi degli affetti riemergono, frammentati, esaltati o rifiutati? Il tuo Excelsior rovescia su se stesse certe immagini, non solo nella scena coreografica, nei piccoli segni disseminati nelle scenografie e nei costumi, ma anche attraverso i video presenti nello spettacolo (a restituire la transmedialità del consumo contemporaneo globalizzato): il montaggio iniziale di Isabella Gaffè, la citazione finale del video di Filippo Berta e i contributi visivi di Daniele Spanò, in dialogo durante tutto lo spettacolo con l’impianto scenografico progettato dallo stesso Spanò insieme a Luca Brinchi, ulteriore ri-mediazione della metafora originale della luce, tradotta nei led e nell’architettura di schermi, che disegnano lo spazio della scena disegnando prospettive e punti di fuga. La tua regia dissemina la scena di piccoli detonatori, che agiscono solo se e quando vengono colti da uno sguardo, ma possono anche passare inosservati o essere reinterpretati in modi differenti, a seconda del punto di vista di chi guarda. Questo, senza sottrarti dalla responsabilità del tuo ruolo autoriale, restituisce una grande autonomia agli spettatori, che hanno la possibilità di rendersi consapevoli della propria azione interpretativa, di quanto il proprio bagaglio culturale o esperienziale orienti la lettura.
“A furia di tenerci insieme per salvare quel che siamo,
ci mancan, padre, gli altri, gli altri, quello che noi non siamo;
ci manca, anche se avessimo soltanto noi ragione,
l’umiltà di non vincere che fa eguali le persone.”
(Roberto Vecchioni, Shalom, 2002)
SL: Il tentativo di improntare una traduzione[8] del Gran Ballo Excelsior ha significato trivellare un grosso giacimento di informazioni e prodotti culturali. Il Gran Ballo Excelsior è rappresentativo di una postura del pensiero che abbiamo disarticolato dettagliando quell’immaginario etnocentrico che come una sorgente sotterranea, ha alimentato il “nostro” concetto di identità nazionale dalla fine del XIX e che questo presente ripropone, mutatis mutandis, attraverso i suoi linguaggi, le sue raffigurazioni e i suoi media. Il Ballo Excelsior è il paradigma di una scultura concettuale del corpo che oggi non si riferisce più solo alla danza o non riferisce solo informazioni proprie della danza, ma informa in generale quelle rappresentazioni che hanno acquisito un valore politico eclatante nella nostra attualità. La definizione di una tradizione “universalmente” riconoscibile, la genealogia di una italianità inesistente, le sottolineature del passato classico a cui fa riferimento Viviana Gravano nell’articolo che hai citato, non sono solo le possibili letture che possiamo fare, oggi, del Gran Ballo attraverso la lente della storia. Rispecchiano piuttosto l’intento programmatico di quell’opera. In questo senso il Ballo Excelsior fu un’opera “manifesto” e venne accolta con entusiasmo dal pubblico dell’epoca che si sentiva così invogliato al “rispetto di una tradizione culturale autoctona” (Pappacena, 1998: 7). Questo discorso, che nel Gran Ballo Excelsior sembra essere sotteso (seppure centrale) si manifesta con iconica plasticità nel successivo balletto Amor, sempre di Manzotti, in cui al mito nazionalpolare del progresso e dell’universalismo segue la chiara esaltazione della romanità (Amor è palindromo di quella Roma ambiziosamente capitale del nuovo Regno d’Italia). Esaltazione che dopo qualche decennio verrà cavalcata con roboante retorica dal Fascismo senza troppi scarti di pensiero. Quelli del Ballo Excelsior furono anni cruciali per l’affermazione del concetto di identità nazionale, di un paese, l’Italia, che inseguiva l’immagine di una grande potenza agli occhi di un intero mondo. Quindi da una parte c’era l’Italia dei sentimenti patriottici e che cavalcava l’onda di un pensiero “squisitamente” europeo votato alle politiche imperialistiche e coloniali, alla definitiva affermazione di una società fortemente industrializzata, allo sviluppo di una borghesia finanziaria come volano e collante di quel modello sociale; dall’altra parte della medaglia, di questo prototipo di modernità, c’era l’effettiva configurazione di un paese che procedeva a rilento rispetto a quegli obiettivi politici. Risuonava quanto mai aderente il celebre motto di Ferdinando Martini “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Ma “in questa Italia quasi non itafona è possibile immaginare quanto poco diffusa fosse l’idea di appartenenza a una ‘nazione’” (Grillo 1998: 9). L’epico auspicio di Alessandro Manzoni di una nazione la cui gente fosse: “una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor” (Manzoni 1987: 106) era ancora per molti versi da compiersi. Servivano delle narrazioni che supportassero questa invenzione di identità e niente avrebbe potuto funzionare meglio dell’affermazione di un pensiero etnocentrico teso ad addomesticare o a negare – definendolo – l“Altro”. Così, in una Milano romantica ma ancora fortemente intrisa delle istanze positiviste prescritte dall’Illuminismo, pure nel solco della tradizione del “ballo grande”, Manzotti decide coscientemente di mettere in scena figure allegoriche, “personaggi” che fossero l’incarnazione di idee (o ideali, se vogliamo) puramente astratti. Nel Gran Ballo Excelsior, dal momento in cui la Luce si libera dalle catene dell’Oscurantismo e si unisce alla Civiltà per celebrare “il trionfo di un’era novella” si inaugura una stagione ideologicamente posizionata nell’inscenare discorsi “il cui argomento era la lotta tra due principi sociali” (Pesci, 1886: 140). Quelle stesse innovazioni scientifiche e tecnologiche, celebrate con magniloquenza nei vari quadri scenici del balletto, non si sarebbero rivelate utili solo alla circolazione delle merci, ma anche alla diffusione, dunque, di “opinioni” che potessero farsi condivise e che costruissero, alle porte del XX secolo, un’ “opinione pubblica”. L’abilità di Manzotti fu quella, tra le altre, di creare “un tessuto in cui poterono riconoscersi i nuovi italiani con le loro aspirazioni, le loro idealità, compresa quella di espansione coloniale” (Celi, 1998: 23).
Credo che il nostro Excelsior reinterroghi questa specifica eredità culturale prevalentemente dal punto di vista della rappresentazione dei corpi e degli immaginari che si sono stratificati sull’onda di quell’ “esotismo” e “orientalismo” languido le cui espressioni ancora oggi influenzano la nostra cultura in molti dei suoi prodotti estetici e che riflettono di conseguenza un pensiero politico che alimenta processi di inferiorizzazione dei corpi considerati “Altri”.
Abbiamo passato in rassegna moltissime fonti iconografiche della contemporaneità, attingendo prevalentemente ai nuovi media, agli archivi web, alle piattaforme open source e ai social, cercando di capire quali di queste “spontanee” inscrizioni e immagini riproponessero modelli di appropriazione culturale. Questo, come scrivevo prima quando parlavo degli archivi, mi ha permesso di approfondire la mia ricerca sulla ri-semantizzazione di objets trouvés di tipo gestuale, coreografico, sonoro e visuale. Da qui il tentativo di creare in Excelsior delle immagini “dialettiche”, in senso benjaminiano, che nella diacronicità tra la loro matrice ormai storica e il nostro presente mettessero lo spettatore, come dici tu, nella condizione di ricercare quello che Roland Barthes ne La camera chiara chiamava “punctum” (Barthes, 2003), ovvero quell’elemento, quel dettaglio, anche piccolo, che partendo dalla scena che sto osservando mi trafigge perché – probabilmente – mi ri-guarda.
Salvo Lombardo | Chiasma, EXCELSIOR.
photo credit: Carolina Farina.
“L’esploratore, pur volendo chiedere diverse cose, si limitò a domandare:
«Conosce la sua condanna?» «No», disse l’ufficiale (…).
«Inutile comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo».”
(Franz Kafka, Nella colonia penale, 1919)
GG: Poco fa scrivevi che in qualche modo il corpo è un dispositivo archiviale. In effetti quello che sappiamo o che ricordiamo, lo sappiamo e lo ricordiamo attraverso il nostro corpo (Connerton, 1999). Questo è vero sia per i nostri corpi individuali, che come ci insegna Marcel Mauss (1965) sono più culturali che mai, sia per il “corpo sociale”. Mi riferisco alle “tecniche del corpo”: le pratiche che introiettiamo da quando veniamo al mondo, attraverso le quali pensiamo e agiamo il nostro corpo in modo accettabile all’interno del nostro spazio sociale, e che rendono il nostro corpo molto più “culturale” che “naturale”. O meglio, che lo rendono “adeguato”, corrispondente alla norma prevalente, cioè “normale”, rispetto a quello di “Altri”, che vengono ritenuti “diversi”. In questo senso il potere dispiega il suo esercizio e il suo discorso in primis attraverso la disciplina della corporeità, educata a riprodurre rappresentazioni e intere coreografie gestuali normative. Questo è vero anche per la memoria (individuale e collettiva), che non è solo una pratica culturale tesa a costruire strategie di narrazione di eventi passati: essa è contemporaneamente la ricerca del modo in cui questa narrazione può essere continuamente tra-dotta, cioè trasportata oltre, nel futuro, attraverso i corpi che la incarnano. Così un certo sapere egemonico viene ri-prodotto attraverso una serie di rituali (atteggiamenti, gesti, abitudini che sono anche delle “predisposizioni affettive”), e attraverso la performatività dei corpi che li mettono in scena. Insomma, il potere sa molto del nostro corpo. Lo usa per riprodurre se stesso. Tutta l’ideologia coloniale alla quale facevi riferimento (sempre presente in filigrana nell’esaltazione del “progresso scientifico” e della “civiltà”) con la sua sceneggiatura di etnocentrismo e inferiorizzazione, si fonda su un sapere incorporato. Un sapere coloniale che è penetrato nelle nostre bocche, nei nostri apparati digerenti, nelle nostre voci e nelle nostre orecchie, sulla nostra pelle: cibi, spezie, canzoni, parole, modi di dire, rappresentazioni che sono stati veicolo di stereotipi di ogni genere su di noi e sugli “altri”. Dei fiumi carsici che scorrono invisibili dentro di noi, portatori di un sapere che ci attraversa e ci definisce, spesso a nostra insaputa. Il tuo Excelsior è anche il rovesciamento di questo archivio nella sua dimensione incarnata, che poi vuol dire anche portare alla luce la dimensione del potere in relazione al mondo della danza, linguaggio incarnato per eccellenza. Lo spettacolo inizia con una danzatrice che fischietta la melodia del Gran Ballo, e a lei si uniscono poi gli altri danzatori, riproducendo alcuni passi coreografici del Gran Ballo solo attraverso i movimenti delle mani. Questi corpi riproducono il canone con uno scarto ironico e politico, perché di certo il corpo è sempre un corpo “scritto”, disciplinato, costruito dalla cultura d’appartenenza e dal suo discorso egemonico; tuttavia il corpo è sempre anche “naturalmente” sovversivo: “si rifiuta di conformarsi a epistemologie che trafficano tra opposizioni e dualismi, tra materialismi riduzionisti e radicali” (Scheper-Hughes, 2000: 285). E allora quel canone, quell’archivio, viene decostruito, scomposto e ri-raccontato attraverso altre coreografie, proprio nel momento della sua (apparente) riproposizione. Qui mi sembra di cogliere nel modo più assoluto il senso della “ri-mediazione” di cui parlavi. Nella messa in scena di questo “esemplare capovolto” finiscono così quei piccoli detonatori gestuali o iconici di cui parlavamo poco fa, che aprono l’archivio dei nostri immaginari a una lettura ben più complessa. Così Jaskaran Anand “gioca” con il suo corpo come potenziale detonatore, gioca con i segni che agli occhi di qualcuno il suo corpo esprime, con il loro già essere carichi di un sapere, indossando dei pantaloncini che riproducono la bandiera britannica. Allo stesso modo Lily Brieu veste una t-shirt con su scritto Odile, metà bianca e metà nera, a ricordare quanto la danza classica sia (stata) un linguaggio prettamente “bianco”, come abbia contribuito a costruire un regime di corporeità fondato sulla bianchezza come norma indiscussa. E poi Lucia Cammalleri e Leonardo Diana con la loro passeggiata in abiti vittoriani in tessuto jungle\tropical, citano i manichini di Yinka Shonibare, vestiti di abiti vittoriani in tessuto batik (falso indicatore di distanza esotica), e operano un secondo capovolgimento, quando scoprono il rovescio del loro abito-habitus, mostrando da un lato un cartello con una citazione di Cesare Lombroso tesa alla stigmatizzazione e alla razzializzazione di corpi e culture altre, e dall’altro una citazione da Une Tempête di Aimè Cesaire, riscrittura postcoloniale della Tempesta di Shakespeare. I danzatori stessi sono i detonatori, in questa messa in scena, esplicitando così anche un certo modo “polifonico” di costruzione del racconto scenico. Sono danzatori-agenti, coscienti con te che, a qualunque mix culturale apparteniamo, i nostri corpi possono veicolare nostro malgrado significati, immaginari e stereotipi che non controlliamo, ma che tuttavia possiamo rovesciare. Excelsior capovolge la postura con la quale siamo soliti leggere le cose, perchè non è interessato tanto a quello che il potere sa dei nostri corpi, quanto a quello che i nostri corpi sanno (e fanno) del potere.
“È indiscutibile che l’Excelsior le soluzioni troppo facili, le trova, mirabilmente,
sempre e impeccabilmente in un dominio legittimo della facilità: la stereotipia.”
(Morelli, 1999-2000)
SL: Sono convinto anche io che i corpi siano in grado di per sé di attivare o riprodurre un potere poiché il loro governo è espressione di atti linguistici (e il linguaggio è una forma di potere). In questo senso i corpi assumono sempre un carattere “performativo”. Possono assumerlo in termini eminentemente politici, come ad esempio nei processi di emancipazione e di autodeterminazione e nell’”incorporare” un proprio riferimento identitario. Possono generare, partendo dalle loro singole specificità, processi di trasformazione di carattere collettivo. In ogni caso i corpi si fanno deposito di norme. Tali norme, come dice Judith Butler: “non si limitano a imprimersi su di noi, marchiandoci ed etichettandoci quali destinatari passivi di una cultura. Esse, piuttosto, ci “producono” […]. Queste norme informano le modalità di incorporazione che acquisiamo nel corso del tempo; e queste forme di incorporazione possono rivelarsi modi per contestare o sovvertire le norme stesse” (Butler, 2017: 51). La danza può costituire in primo luogo proprio un territorio di affermazione o di sovversione di quel potere che transita attraverso i canoni. La danza classica e i suoi codici, seppure nel recinto della tradizione accademica, si presta alla definizione di immaginari che anche nella loro stilizzazione assurgono il corpo ad oggetto culturale non solo tra le pieghe specifiche del movimento bensì nella sua collocazione sociale. Per questo, per me, leggere l’Excelsior attraverso la lente degli studi culturali ha significato stimolare, nelle maglie dell’opera, una “tattica di resistenza culturale in grado di insinuarsi tra le pratiche egemoniche per scardinarle” (Pontremoli, 2108: 33).
Rispetto alla dicotomia tra cultura egemonica e cultura subalterna, il Gran Ballo Excelsior e i suoi discorsi confermano che pure “nella sua lotta contro qualsivoglia realismo psicologico, contro la verità espressiva o descrittiva, il balletto classico, il balletto in tutù, non ha indietreggiato mai di fronte a nessuna assurdità” (Federovic in Morelli, 1999-2000) e che il pensiero che si cela dietro il visibile della simmetria e della grazia sottende una visione non “innocente” e mai “neutra”, come anche tu ricordavi prima, che non può essere ridotta al semplice piacere edonistico del virtuosismo di quei corpi. Osservando la danza del Ballo Excelsior e la sua impaginazione scenica è inevitabile mettere in evidenza la negoziazione delle relazioni tra Europa e “resto del mondo”. Sempre nel 1881, pochi mesi dopo il debutto del Gran Ballo, a Milano si inaugura l’Esposizione Nazionale per celebrare il ventesimo anniversario dell’unificazione d’Italia. Come tutte le Esposizioni questa assume una valenza strettamente politica che misura equilibri e poteri anche internazionali, come dicevamo prima. Le connessioni tra i due eventi sono eclatanti proprio nella logica di un discorso sull’esposizione prima di tutto dei corpi come esercizio di potere e della sottesa violenza delle narrazioni che ne derivano. Come giustamente sottolinea Sergia Adamo:
“The Excelsior depicts trajectories, dynamics and movements of bodies […] and alludes to and anticipates what will happen in a few months on the stage of the city of Milan with the “Esposizione nazionale”: crowds of bodies, transported, handled, addressed, directed into fixed itineraries” (Adamo, 2014: 148).
Nel Gran ballo Excelsior la divertita “trivialità” da “polpettone kitch” è il tentativo di rendere popolare l’artefatto dell’etnicità, i suoi modelli, le sue finzioni e la sua sopraffazione immaginativa. D’altronde questo è il riflesso della rincorsa acritica del progresso di impostazione modernista: l’Occidente espone le proprie conquiste “esibendo i popoli inferiori, incivili, conquistati proprio per essere civilizzati” (Gravano, 2015: 9).
“L’arte non propone la consolazione, l’arte vera è scioccante,
perfino traumatica, certamente inquietante: essa non propone
la riconferma dell’identità, bensì il suo spaesamento.”
(Chambers, 2018: 14)
GG: Non credo che Excelsior intenda “rappresentare” qualcosa, credo piuttosto che rifugga questa modalità di pensare al fare artistico (semmai cerca di “evocare”, come dicevi poco fa). Excelsior piuttosto espone (ex-pone, mette fuori, nello spazio relazionale della scena) una costellazione di questioni su certe “evidenze”, che proprio in quanto tali hanno smesso di interrogarci, su certi nostri habitus culturali, che a volte con difficoltà riusciamo a scindere dall’immagine che abbiamo di noi stessi. Excelsior recupera le contrapposizioni fra luce e oscurità (che nel Gran Ballo strutturava come un fil rouge l’intera narrazione con una coerenza “esemplare”), e fra il visibile e l’invisibile (ciò che può essere detto e ciò che deve restare taciuto, non visto, disconosciuto), e le fa in qualche modo deragliare nel loro doppio inquietante: l’opacità (che, ricorda Edward Glissant, è anche un diritto). Excelsior scarta di lato rispetto alla strada segnata da una narrazione culturale che si rende normativa, trasparente, rende vulnerabili le narrazioni cristallizzate, aprendo uno spazio di rielaborazione simbolica, nel quale provare a disabitare i luoghi comuni, riaprire il nostro archivio culturale per poterlo ri-leggere contropelle.
“Il diritto all’opacità dovrebbe essere inserito tra i diritti dell’uomo”
(Glissant, 2007: XX)
SL: L’opposizione trasparenza-opacità è mio avviso il tratto distintivo di questa nostra epoca e del suo nevrotico bisogno di definire e classificare. La trasparenza è considerata acriticamente un valore, “universale” appunto, da applicare in tutti i contesti sociali (anche al di fuori delle questioni legate, per esempio, all’amministrazione della cosa pubblica). Ormai si rivendica trasparenza da ogni angolatura. Applichiamo questa categoria al genere, all’orientamento sessuale, ai comportamenti sociali, alle relazioni. Persino la definizione degli “Altri” e le “Altre”, che atavicamente ha segnato la soglia del perturbante e dell’impenetrabile esotismo, oggi sembra essere ulteriormente ripensata secondo la logica della demarcazione e della nettezza, della riconoscibilità. Da qui un nevrotico bisogno di definizione, di volti a tutti i costi “scoperti”, di confini identitari stabili, unitari e dunque controllabili in maniera “trasparente”. Questo processo di appiattimento delle culture della differenza e dell’eterogeneità ha generato nel tempo un insieme di pratiche, di discorsi e soprattutto di rappresentazioni che hanno determinato un carattere fisso, estensivo e universalistico del concetto stesso di identità, orientando con sopraffazione ogni possibilità reale di giudizio attraverso forme di pre-giudizio. In questa ossessione di controllo stiamo perdendo di fatto quel “diritto all’opacità” di cui ci parla Glissant e che citavi anche tu prima, ovvero ad una possibilità di espressione identitaria che disattenda la definizione e il suo essere sempre in luce o a fuoco. Agogniamo dei nuovi modelli ma ci troviamo ad aggiornare vecchi stereotipi. Non possiamo fare a meno di idealizzare ciò che non conosciamo e rassicuriamo le nostre più profonde frustrazioni nascondendoci dietro lo “straniero” che vediamo fuori da noi stessi.
“Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili […]. Si definisce straniero chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente” (Bauman, 1999: 55).
Sulla base di queste considerazioni, all’interno del progetto L’Esemplare Capovolto, entro cui nasce il nostro Excelsior, abbiamo immaginato una sorta di piattaforma che ingloba una serie di eventi paralleli che racchiudono diverse tipologie di azioni: in particolare un ciclo di performance di formato breve intitolate proprio Opacity, pensate come estensioni di Excelsior e basate su una stratificazione di analogie e rimandi ai suoi temi portanti costituendone, di fatto, una sorta di “negativo”. Ognuno di questi satelliti applica ai macro temi in questione lo strumento dello zoom che implica al contempo un atto penetrativo (zoom-in) e dunque, viceversa, una possibilità di distanziazione e di uscita (zoom-out). In questa dinamica la mia posizione, o forse, meglio, il mio posizionamento, è determinato, evidentemente, dal punto di vista dell’osservazione. Il processo si arricchisce di una serie di workshop che sto conducendo assieme a Viviana Gravano, Isabella Gaffè e Daria Greco, rivolti ad una utenza trasversale e diversificata con l’obiettivo di attivare anche delle modalità di dialogo interculturale. E ancora installazioni video, conferenze, tavole rotonde, dibattiti proiezioni cinematografiche e pubblicazioni cartacee. L’obiettivo di questa articolazione è quello di favorire un carattere estensivo e relazionale del processo di creazione che non si esaurisce nel solo esito scenico.
GG: Di questo, degli Opacity e degli altri eventi-satelliti di Excelsior, continueremo a parlare nella prossima uscita di questo numero di roots§routes… to be continued…
NOTE
[1] Il Gran Ballo Excelsior, scritto da Luigi Manzotti su musiche di Romualdo Marenco, è andato in scena per la prima volta al Teatro La Scala di Milano nel 1881. Questo spettacolo monumentale, centrato sull’idea ottocentesca dell’esaltazione del progresso, ha avuto un successo senza eguali in tutto il mondo, con un numero impressionante di repliche e di rimesse in scena (Pappacena, 1998).
[2] Anche all’alba dell’unità d’Italia la costruzione immaginativa di una italianità, di una cultura cioè che corrispondesse alla cornice della nazione che si stava creando, dandole in qualche modo corpo, è stata fin da subito un processo complesso e movimentato da forze centrifughe. L’identità italiana è sempre stata una identità diasporica. Basti pensare al numero incredibile di italiani e italiane emigrati in ogni parte del mondo dall’800 a oggi. Basterebbe riflettere su questo, e sul ruolo che le colonie hanno avuto per la costruzione di una certa immagine di sé, da parte di un’Italia prima liberale e poi fascista, che rincorreva il proprio “posto al sole”, e le proprie fantasie di superiorità.
[3] Appadurai, Arjun. 2003. “Archive and Aspiration.” In Information is Alive. Art and Theory on Archiving and Retrieving Data, edited by Winy Maas, Arjun Appadurai, Joke Brouver, and Simon Conway Morris. Rotterdam: NAI Publishers, p. 25.
[4] Twister ha debuttato nel 2017 nell’ambito della ventisettesima edizione di Aura International Dance Festival a Kaunas in Lituania. La performance è stata co-prodotta dal Festival Fabbrica Europa di Firenze della compagnia Aura Dance Theatre di Kaunas.
[5] Il termine mi è stato suggerito dalla curatrice d’arte contemporanea Lisa Parola durante la tavola rotonda “Around Excelsior” che ho curato assieme a Viviana Gravano in occasione della nostra residenza alla Lavanderia a Vapore di Collegno nel mese di marzo 2018.
[6] Anche la danza non è esente da questa tendenza di retroguardia. Cfr F. Acca, La danza nell’era della retromania, in liminateatri.it (http://www.liminateatri.it/?p=574).
[7] Rimando all’articolo di Viviana Gravano, Excelsior di Salvo Lombardo: la danza contemporanea rilegge i miti del nazionalismo e del colonialismo italiani (La macchina sognante, 2018) per una dettagliata analisi delle iconografie dello spettacolo. http://www.lamacchinasognante.com/excelsior-di-salvo-lombardo-la-danza-contemporanea-rilegge-i-miti-del-nazionalismo-e-del-colonialismo-italiani-di-viviana-gravano/
[8] Uso qui il verbo tradurre nella sua accezione etimologica di traducĕre: ‘trasportare’, ‘portare altrove’.
Bibliografia
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Salvo Lombardo, performer, coreografo e regista, è direttore artistico della compagnia Chiasma, riconosciuta dal MIBAC come Organismo di Produzione della Danza “Under 35”. È artista associato al Festival Oriente Occidente e collabora in qualità di coreografo con numerosi festival, teatri e compagnie in Italia e all’estero. Nel 2017 è stato coreografo ospite della compagnia lituana Aura Dance Theatre. Nel 2018 crea lo spettacolo Excelsior, realizzato in collaborazione con Fabbrica Europa, Romaeuropa, Théâtre National de Chaillot, Versiliadanza, Teatro Nazionale della Toscana, Fondazione Piemonte dal vivo.
[www.salvolombardo.org]