Il Mediterraneo segue, come un fantasma, la scrittura di Etel Adnan. È così che la studiosa Olivia Harrison descrive il legame di poesia e resistenza tra la poeta libanese e il mare/concetto mediterraneo. Si tratta, a partire dalla proiezione, insita nella vicenda biografica della stessa Adnan, del Mediterraneo in un altro mare – l’Atlantico – e una terra – l’America – che sono apparentemente altrove. È una proiezione invece molto prossima, che ci racconta della genealogia coloniale del termine ‘Mediterraneo’, nella definizione di Harrison di «una particolare condizione o insieme di problemi postcoloniali che hanno le proprie radici nella relazione triangolare che lega l’Europa (Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna) alle ex-colonie del Maghreb e del Mashreq» e che diventa quindi condizione di colonialità dettata dall’Europa «nella sua estensione più piena», includendo gli Stati Uniti (Harrison, 2018: 202, 204). [2]
Etel Adnan nasce a Beirut nel 1925 da madre greca e padre siriano, studia nelle scuole francesi del Libano, si trasferisce negli Stati Uniti nel 1955 e attualmente vive a Parigi. Durante l’infanzia, Adnan parlava greco e turco a casa, prima di essere immersa nel francese delle scuole cattoliche, un’esperienza che, come racconta Adnan stessa, fu per lei paradigma dell’estraniamento insito nella colonizzazione culturale (Adnan, 1996).
Adnan dice di sé di scrivere romanzi in francese, poesie in inglese e francese, e di dipingere in arabo (Adnan, 1996). È nota soprattutto per il suo romanzo (in lingua francese), Sitt Marie Rose (1978), considerato il primo testo letterario scritto da una donna sulla guerra civile libanese. La scrittrice e artista ha pubblicato nel corso degli anni numerose raccolte di poesie, e si è affermata come pittrice, in parte con una produzione di quaderni e tele che portano i segni grafici dell’alfabeto arabo, lingua di suo padre, che l’artista dichiara di non aver mai veramente imparato. Racconta, infatti, di aver vissuto in perenne sospensione tra diverse lingue: il greco e il turco della madre appartenente alla minoranza greca di Smirne, l’arabo del padre, il francese del Libano, l’inglese degli Stati Uniti, poi ancora il francese della Francia. Ogni lingua è legata a specifiche circostanze geopolitiche, storiche e personali, che l’hanno portata alla sua produzione così singolarmente poliglotta. Adnan narra di aver ricevuto, da bambina, lezioni di arabo dal padre; tali lezioni consistevano nel copiare prima alcuni caratteri dell’alfabeto, e poi un intero libro di grammatica, senza saperlo leggere (Adnan 1996). Il piacere del segno grafico poco decifrabile e quindi aperto a significazioni multiple e transitorie resterà, come si vedrà di seguito, non solo nella pittura, ma anche nel testo poetico di Adnan. Nella sua erranza, la poeta sembra così farsi casa per una sorta di estensione dell’identità attraverso le lingue che la abitano: una transizione continua, un modo di abitare il Libano, la Francia coloniale, la California del Nord, Parigi.
Partendo proprio da un’idea di estensione, da un lato della lingua poetica di Adnan e dall’altro della definizione di Mediterraneo, nel suo saggio Etel Adnan’s Transcolonial Mediterranean, Olivia Harrison, come accennato sopra, rintraccia nella scrittura di Adnan l’evocazione di un “Mediterraneo transcoloniale”, ossia un sito di assoggettamento (neo)coloniale e allo stesso tempo di resistenza anti-(neo)coloniale: «una regione che è stata ed è costruita da forme di dominio imperiale sovrapposte e allo stesso tempo da alleanze Sud-Sud oltre le proprie sponde» (Harrison, 2018: 202). A questo punto, il Mediterraneo, al di là dei termini strettamente geografici o anche geo-culturali a cui siamo abituati a pensare, diventa, sempre nelle parole di Harrison, un “topos letterario decoloniale”, che include la guerra civile libanese, la lotta palestinese, le battaglie dei Nativi d’America, e anche il movimento degli anni ’60 e ’70 contro la guerra in Vietnam.
Uno dei componimenti più interessanti di Adnan è L’apocalipse arabe, pubblicato in francese nel 1980 e tradotto dalla stessa autrice in inglese nel 1989, col titolo The Arab Apocalypse. Si tratta di un lungo poema, composto da cinquantanove segmenti il cui fulcro tematico è lo scoppio della guerra civile libanese, ma che tocca ed evoca una serie più ampia di conflitti e riflessioni. Nonostante la suddivisione in segmenti, il testo si offre al lettore come un’unica narrazione, frammentata tuttavia da interruzioni continue nella sintassi, nella linearità e anche nel segno grafico. Le frasi e le singole parole, già di per sé non necessariamente in sequenza ‘logica’, sono, infatti, interrotte da disegni e codici a volte simili a geroglifici, inventati dalla scrittrice, a formare un insieme di idee e simboli polivalenti e in diversi modi connessi tra di loro. L’esperienza del lettore è quella, in un certo senso, di una detonazione, un’esplosione di violenza dentro la lingua; esplosione che effettivamente irruppe, con lo scoppio nel 1982 della guerra civile libanese, dentro la scrittura del poema.
Esplode così, nella scrittura, anche la linearità narrativa. Troviamo frasi verbali o insiemi di parole che spesso hanno poca o nessuna logica sintattica, mischiati con disegni e codici simili a geroglifici, a formare «una massa di simboli polivalenti e di idee»: una struttura sconnessa che fa da specchio al tema a sua volta strappato e frammentato della guerra (Seymour-Jorn, 2002: 38).
Un esempio in tal senso è il segmento di apertura (qui nella versione in inglese):
Il testo propone, fin dall’inizio, la parola ‘soleil’/‘sun’ e l’immagine, variamente stilizzata, del sole, ripetuta quasi ossessivamente. Secondo Caroline Seymour-Jorn,
l’immagine funge in alcuni punti da metafora dei poteri coloniali che, nella loro determinazione a controllare il pianeta, decimano la maggior parte di ciò che oppone resistenza. […] In altri punti del testo, il sole sembra forse essere un simbolo più ampio del potenziale violento degli esseri umani, che si manifesta, per esempio, nelle guerre civili […]. Tuttavia, il sole di Adnan appare anche in diversi momenti del poema come figura ferita, in deterioramento, o anche morta […]. Queste figurazioni del sole suggeriscono forse che sebbene la capacità degli esseri umani di essere crudeli e violenti sembrerebbe smisurata, essa non è necessariamente un carattere perenne dell’universo (Seymour-Jorn, 2002: 38-39).
In effetti, l’insistenza di Adnan sulla finitudine del sole, in alcuni punti del poema simbolo del potere coloniale, fa eco ai limiti e all’impermanenza di «quei fragili esseri umani che [tale potere] cerca di controllare» (Seymour-Jorn, 2002: 45). La natura transeunte delle cose, nel poema, richiama la natura sempre sospesa della traduzione in cui Adnan è immersa: lo spazio di transizione non solo tra le lingue e tra diverse espressioni e mezzi artistici, ma anche tra diversi spazi geo-culturali e politici di resistenza. L’inserimento di simboli o segni grafici in L’Apocalypse arabe/The Arab Apocalypse, spesso a sostituire parole oppure posti a fianco delle parole stesse come una sorta di ‘eccesso’ della lingua, costituisce una scelta estetica e poetica che indica i limiti della lingua e dei codici a nostra disposizione di fronte alla violenza e al dolore, ma allo stesso tempo si offre come critica alla linearità delle narrazioni delle identità nazionali, così strettamente legate all’affermazione (e imposizione) delle lingue nazionali (Cariello 2016). Il linguaggio interrotto e, in un certo senso, ri-codificato di Adnan incarna così la violenza inscritta dentro quegli stessi confini nazionali in cui e da cui scaturisce la guerra in Libano e molta della violenza in Medio Oriente e altrove, sia nei decenni passati che oggi. Come scrive Margaret Simonton a proposito dell’uso di Adnan dei simboli grafici e delle frasi interrotte,
Ciò che resta al lettore è un’alternanza di intense immagini visive e uditive con spazi bianchi – un vuoto di spazio, mentre il cosmo e la storia danzano la loro danza amorale ed eterna verso conclusioni molto diverse. In tal modo, Adnan si scontra – in una perfetta indifferenza astrale – contro i limiti delle parole nell’esprimere gli orrori della guerra (Simonton, 2013: 3).
La guerra, per Adnan, è incarnata non solo dal conflitto libanese, ma anche dalle tragedie della questione palestinese. Come nota Jacqueline Jondot, «Etel Adnan, in francese, inglese, in pittura, scrive dei popoli abusati e massacrati: i palestinesi e i Nativi d’America» (Jondot, 2002: 770). La lotta del popolo palestinese è, in effetti, una presenza costante anche se non sempre esplicita in L’Apocalypse Arabe/The Arab Apocalypse, così come è ricorrente un richiamo parallelo e persistente al simbolismo dei Nativi d’America. La scrittura si fa eco della sottrazione della terra palestinese e di quella dei Nativi d’America, e dei massacri connessi alle espropriazioni di tali terre.
Come già accennato, il tema della guerra esplode nella scrittura del poema con lo scoppio della guerra civile libanese. Adnan aveva iniziato a scrivere il testo con l’intenzione di comporre un poema astratto sul sole; la scrittura si trasformò poi in una narrazione di guerra e morte (Amireh, Majaj, 2002: 18). Il Segmento VII del poema affronta esplicitamente la tragedia in Libano. Mentre i riferimenti al Libano e alla Palestina sono diretti, il sole diventa, come già sottolineato, un simbolo mobile per Adnan, forse a significare il governo israeliano, oppure, più in ampiamente, un senso di ‘violenza generalizzata’:
L’ingiunzione a fermarsi: ‘STOP’ (che appare nella prima parte del segmento VII qui sopra) è usata ripetutamente in tutto il poema, più o meno frequentemente in molti dei segmenti. La parola ‘STOP’ sembra sottolineare proprio i limiti della lingua (e forse dei linguaggi), in una esplicita interruzione dell’enunciazione. Potrebbe, parallelamente, essere anche un riferimento ai telegrammi, usati nel secolo scorso durante le guerre per comunicare (Seymour-Jorn, 2002: 46). Il linguaggio della morte e della distruzione è fratturato, sia graficamente che linguisticamente, si ferma in uno ‘stop’ di fronte ai propri limiti, mentre intima anche al lettore di fermarsi, nell’ascolto dei messaggi che arrivano dalla violenza della guerra.
Ritorna quindi il grafismo acquisito durante l’infanzia nella copiatura delle lettere arabe, l’esplorazione del confine di segno, significato, simbolo e costruzione di senso. Si tratta, nel caso di L’apocalipse arabe/The Arab Apocalypse, di un testo che immette nella scrittura l’impossibilità stessa della parola, che lavora nell’inabilità di narrare la tragedia della guerra e quindi chiama in causa l’interruzione della logicità al di là della parola (anche quella poetica), dentro ai segni inventati, arbitrari quanto qualsiasi alfabeto, incisi come eccesso della narrazione che non può più essere. Certamente la scelta del segno grafico non rispondente a nessun contesto culturale specifico – come il sole, ma non solo – rafforza l’evocazione di Harrison di alleanze anti-(neo)coloniali e quindi di un territorio del sud che dal Mediterraneo è radicato nella matrice coloniale, ma anche sempre nella resistenza. Come scrive Harrison,
[p]er far visita al Mediterraneo di Adnan, dobbiamo viaggiare a sud e a est di Parigi. I nomi che riverberano attraverso gli scritti di guerra di Adnan, da Jebu, Sitt Marie Rose e The Arab Apocalypse a In the Heart of the Heart of Another Country e Jenin, sono quelli di campi, villaggi e città palestinesi e libanesi distrutti dalla guerra postcoloniale: Qalqilya, Tell Al-Zaatar, Sabra, Shatila, Jenin, Beirut. Come suggerito da questi nomi, il Mediterraneo è decisamente uno spazio arabo. Arabo qui non denota solo etnicità o lingua, anzi. Piuttosto, la parola veicola una condizione, un’eredità, una storia strutturata da e attraverso l’esperienza della colonizzazione (Harrison, 2018: 204).
E però, come osserva ancora Harrison, nella poesia di Adnan intitolata Jebu ([1970] 2014), dove il Mediterraneo è sostituito da toponomi ancestrali risalenti a prima della colonizzazione europea, un verso proietta di nuovo la regione altrove, o meglio, la espone alla violenza dell’imperialismo apparentemente distante, violenza che è invece ricondotta alla stessa matrice, quando proiettata sul muro di Gerusalemme:
The X-ray of his being on the day of Hiroshima
like a sweat appeared on the Jerusalem Wall [3]
La mappa si fa ancora più ampia e più complicata; la voce di Adnan, voce di donna del Mediterraneo, ma anche della California sull’Oceano Pacifico, della Palestina e, ancora, di Hiroshima, costruisce un nodo in rilievo che decentra lo spazio della mappa e allo stesso tempo lavora nella verticalità della genealogia coloniale del Mediterraneo.
Note
[1] Questo studio è parzialmente incluso in Iain Chambers, Marta Cariello, La questione mediterranea, Mondadori, Milano 2019.
[2] Questa e tutte le citazioni in italiano nel testo sono mie traduzioni.
[3] ‘La radiografia del suo essere nel giorno di Hiroshima / come sudore apparve sul muro di Gerusalemme.’ Per un’analisi dell’uso simbolico da parte di Adnan della figura biblica dei Gebusiti, cfr. Harrison, 2014: 205.
Bibliografia
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Adnan E., L’apocalypse arabe, L’Harmattan, Paris [1980] 2006.
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Amireh A., Suhair Majaj, L., (eds.), Etel Adnan: Critical Essays on the Arab-American Writer and Artist, McFarland, Jefferson and London 2002.
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Jondot J., Les ecrivaines d’expression anglaise au Proche-Orient Arabe, Thèse de doctorat d’ètat, Université Lyon II Lumière, Département d’études du monde anglophone, 2003.
Seymour-Jorn, C., ‘The Arab Apocalypse’ as a Critique of Global Imperialism, in Amireh, A., Suhair Majaj L. (eds.), Etel Adnan. Critical Essays on the Arab-AmericanWriter and Artist, McFarland & Co., London 2002.
Simonton, M., 2013, (forthcoming) “The Sun Is a Deaf Star; the Sun Eats Its Children: Adnan’s Palestinian Apocalypse”, The International Journal of Civic, Political and Community Studies, Common Ground Publishing.
Marta Cariello insegna Letteratura Inglese e Studi Culturali presso l’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. È coautrice, con Iain Chambers, di La questione mediterranea, Mondadori, Milano 2019. I suoi principali temi di ricerca sono la letteratura postcoloniale e la scrittura femminile araba anglofona. È co-fondatrice e co-direttrice della rivista de genere. Journal of Literary, Postcolonial and Gender Studies. La sua ricerca è attualmente rivolta al Mediterraneo come spazio critico della Modernità, e alla tematizzazione della nazione nella scrittura femminile postcoloniale.