§violenza
Espiare le colpe.
Sacrificio e massacro nel periodo della colonizzazione dell’America centrale
di Francesca Renda

Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarcava su un territorio sconosciuto dal mondo occidentale: le terre americane. Il XV è un secolo denso di innovazioni ed espansioni, soprattutto dal punto di vista marittimo: i portoghesi, e gli spagnoli poi, sperimentano nuove rotte per ampliare il già forte transito commerciale. Il progetto di Colombo che si presenta dapprima come un prodigio, si rivela presto essere l’inizio di un innumerevole ciclo di incomprensioni – a livello geografico, culturale, ma soprattutto umano – che dà luogo alla progressiva colonizzazione, e conseguente, sottomissione del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti. La prima isola raggiunta dagli spagnoli è quella che prende il nome di San Salvador, ma la convinzione di Colombo non corrisponde ai fatti: egli è sicuro di essere approdato sulle coste del Cipango, il Giappone (Benigno, 2005, p. 46); ciò che sperava di raggiungere era il Catai – la Cina – per incontrare il Gran Khan che, secondo Marco Polo, voleva convertirsi al cristianesimo. Lo sbaglio del navigatore, ripetuto più volte e non solo da lui, sarà proprio quello di anteporre le sue convinzioni alla realtà. I suoi studi e la fede cristiana sono risposte già sufficienti a tutte le sue domande: egli crede di sapere già cosa troverà. Dunque i primi territori che vengono sondati dalla vorace curiosità degli europei sono le Bahamas e le Antille: San Salvador, Hispaniola e Cuba. Colombo, così come molti compagni, è affascinato dalla fauna e dalla flora di quei luoghi, manifestando un’esigenza di descrivere e ammirare la natura che ha le sue radici nella nuova mentalità rinascimentale (Maravall, 1952): gli uccelli, i fiumi, le piante sono tutti elementi degni di nota che prendono posto nelle pagine del suo diario (Todorov, 2014, pp. 5-41). Quelle terre, madri generose di una natura paradisiaca, non erano prive di abitanti. I Taino, conosciuti anche con il nome di arawak, sono i primi indigeni a fare conoscenza con Colombo e compagni. Ora, in questo incontro, come in qualsiasi probabilmente, la parte centrale sta nel confronto, inteso proprio come mettere a fronte due parti diverse in modo da poterne scoprire – e questa doveva essere la vera scoperta – analogie e differenze, fino a raggiungere quello stadio che potremmo definire con il termine conoscenza. Il tentativo di Colombo fallisce, o forse non c’è mai stato. In un primo momento gli indigeni sono considerati bizzarri, per la lingua ma soprattutto per usi e costumi, e sono giudicati come buoni per natura: «questa gente è molto mite e timida, nuda, senza armi né legge» (Todorov, 2014, p. 42), e ancora «sono il miglior popolo del mondo e soprattutto il più dolce» (Todorov, 2014, p. 30). Come nota Todorov, Colombo adotta un atteggiamento da “collezionista di curiosità” senza alcun interesse di comprensione. Difatti quando la fame dell’oro muoverà gli spagnoli verso nuove terre, e gli indigeni inizieranno a opporsi a questi soprusi, quello che prima era considerato il popolo migliore del mondo, si trasforma in un turpe nemico da ammaestrare, rieducare e nel caso di fallimento, eliminare. Dunque è bene analizzare quali sono state le due principali ragioni che hanno spinto gli spagnoli a commettere innumerevoli crimini: la sete di ricchezza e un fattore culturale, rintracciabile nei valori religiosi, che portava gli europei a identificare la cristianità con il mondo. Siamo appena entrati nel XVI secolo, gran parte dell’Europa è sotto la reggenza di Carlo V d’Asburgo che nel 1516 viene incoronato Re di Spagna e nel 1519 Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. Gestire un territorio così vasto non è semplice – e anzi si rivelerà un compito impossibile – ma vi è la speranza di una restauratio imperii che doni prosperità. L’imperatore, che sulla base del tardo impero romano era di natura cristiana, diventa non solo il reggente politico, ma anche il diretto intermediario con Dio.

Theodor De Bry, Indios sbranati dai cani, incisione, 1594 Francoforte

Il compito dei conquistadores è dunque quello di portare ricchezza alla madrepatria ed esportare, dalla stessa, verità nel Nuovo Mondo, affinché sia diffusa l’unica religione possibile. Iniziano quindi le missioni di evangelizzazione: il primo ordine che accompagna gli esploratori durante le spedizioni è quello dei francescani, seguito poi dagli ordini dei domenicani, mercedari, agostiniani e gesuiti. Non pochi sono i clericali che si scagliano contro gli indigeni disgustati da una religione politeista, sconosciuta e quindi identificata con il demonio, idolatra e talvolta di matrice sacrificale. Chiaramente, quando si discute riguardo al Nuovo Mondo si intende una fascia di territorio talmente ampia che risulterebbe erroneo pensare che tutti i popoli amerindi fossero simili tra loro: il popolo taino, ad esempio, organizzato per chiefdom (potentati intermedi tra forma di stato e tribù), aveva usi, lingua e religione differenti rispetto al più organizzato – in termini politici e produttivi – impero azteco raggiunto da Hernán Cortés nel 1519. L’unico elemento comune tra questi popoli è probabilmente il rovesciamento socio-politico creatosi dopo l’arrivo degli europei: essere trattati come stranieri in casa loro, o ancora peggio, essere privati di qualunque diritto.

Uno dei sostenitori più agguerriti di questa missione è Juan Ginés de Sepúvelda, domenicano, umanista che si distinse per le sue traduzioni di Aristotele, diventato nel 1537 cronista di Carlo V. Nel 1544 Sepúvelda si dedica alla stesura del Democrates Secundus, trattato volto a manifestare le principali ragioni del bellum iustum intrapreso contro gli indigeni. Il testo, stilato sotto forma di dialogo maieutico, vede i protagonisti Democrate – che prende le veci di Sepúvelda – e Leopoldo – tedesco con idee affini a quelle di Luterano e Erasmo – confrontarsi fino a far collassare le asserzioni del pacifico Leopoldo. Per dar forza alla sua tesi, Sepúvelda, cioè Democrate, fa appello alle parole dei testi a lui antecedenti in particolare l’Antico Testamento, quelli di Agostino e di Aristotele (Etica Nicomachea e Politica) col fine di presentare i suoi discorsi come validi da sempre e per questo motivo immutabili nel corso dei secoli. Nell’ottica di Democrate la legge divina coincide con quella naturale intesa come «quella che ha dovunque la stessa forza, e non dipende dal volere umano» (Aristotele in Taranto, 2009, p.19). Secondo Democrate dunque la verità è impressa all’interno di ogni uomo, come un fattore innato, di conseguenza gli indigeni, che vivevano secondo un sistema culturale di gran lunga differente rispetto a quello occidentale, si trovano in una posizione ambigua: da un lato sono colpevoli di non aver adempito a delle leggi che per natura dovrebbero essere scritte all’interno di ogni essere umano, dall’altro sono visti come imperfetti e incompleti, degli «omuncoli nei quali a stento potresti trovare vestigia di umanità» (Sepúvelda in Taranto, 2009, p.55). Democrate spiega che «come siamo obbligati a indicare la via a qualsiasi errante, così dobbiamo condurre anche i pagani, se la cosa si possa fare comodamente e senza nostro danno» (Sepúvelda in Taranto 2009, p.99), escludendo automaticamente un “loro” che non viene mai messo in conto se non al momento della distribuzione delle colpe. È compito degli spagnoli rieducare questi esseri manchevoli o, nel caso in cui oppongano resistenza, punirli sulla base di pregiudizi di valore, seguendo un processo in cui la paura si rivela come unico strumento educativo, poiché, come spiega Democrate, «se calcolassimo i mali e i beni che questa guerra comporta per i barbari, senza dubbio i mali sarebbero oscurati dalla moltitudine e dalla consistenza dei beni» (Sepúvelda in Taranto, 2009, p. 119). I beni a cui si allude sono dettati da un sistema soggettivo che, come si è detto, non comprende l’inclusione, e quindi la richiesta da parte dei presi in causa. Le ragioni per cui muovere guerra agli indigeni sono individuate in quattro punti principali: in primo luogo essi sono inferiori rispetto agli spagnoli per natura – e per questa tesi il frate fa leva sulla Politica aristotelica dove il sistema gerarchico è il metro di organizzazione di una società civile -, in secondo luogo praticano il cannibalismo – dando per scontato che tutti i popoli indigeni lo facciano, e senza in ogni caso volerne comprendere le cause -, inoltre compiono sacrifici umani, e infine sono idolatri (Taranto, 2009, pp. 127-131). Sotto il dominio degli spagnoli gli indigeni vengono ridotti al pari di bestie da soma, e pur di muoversi per vie legali, nel corso del XVI secolo sono emanati alcuni documenti al fine di tutelare i diritti dei conquistadores: è il caso del Requerimiento, edito nel 1514. Tale ingiunzione che doveva essere letta agli indigeni – probabilmente in assenza di un interprete – spiega che gli spagnoli hanno il diritto di impossessarsi delle terre americane poiché cristiani e quindi discendenti dal popolo di Gesù Cristo (Todorov, 2014, p. 178); nel caso in cui gli indigeni si fossero dimostrati consenzienti non sarebbero stati ridotti in schiavitù, in caso contrario sarebbero stati severamente puniti. Il documento è un riferimento a un passo del Deteuronimo – citato anche nel Democrates – che dice: «Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le proporrai la pace. Se accetta la pace e ti aprirà le porte, allora tutto il popolo che vi si trova sarà salvo, e lavorerà per te e ti sarà tributario; se invece non accetta la pace e ti farà guerra, la stringerai d’assedio e il Signore tuo Dio la metterà nelle tue mani. Dividerai con l’esercito ogni preda e mangerai delle spoglie dei tuoi nemici». (Taranto, 2009, p. 177)

Secondo il Repartimiento, invece, gli indigeni venivano assegnati a determinate zone per compiere lavori forzati, sotto il controllo di un encomendero, un affidatario. Si assiste dunque a un crescente potere dei conquistadores che da inviati del re, diventano potenti proprietari terrieri, in un sistema simile a quello feudatario medievale. Carlo V informato sullo stato di salute pessimo degli indigeni, e preoccupato della crescente autonomia dei conquistadores in terre americane, promulga nel 1542 le Nuevas Leyes nel tentativo di mediare una situazione che gli stava decisamente sfuggendo di mano. E, in effetti, i conquistadores contrari alle Nuove Leggi si rivoltano fino a costringere il re, due anni dopo, a ritirarle definitivamente.
Negli stessi anni vi è anche un progressivo cambio di prospettiva nei confronti degli indigeni, soprattutto da parte di alcuni frati che assistevano da vicino alle pesanti discriminazioni inferte. Bartolomé de Las Casas, frate domenicano, è forse il primo e sicuramente il più influente a schierarsi a favore dei diritti dei popoli amerindi, poiché non solo suggerisce la stesura delle Nuove Leggi, ma si confronta anche con Sepúvelda. Se il Democrates secundus non sarà pubblicato, ma circolerà solo sotto forma di manoscritto, Sepúvelda avrà occasione di esporre le sue tesi davanti ai giudici di Valladolid nel 1550. Come si è detto, Sepúvelda vede gli indigeni come inferiori, non solo per un fattore naturale, ma soprattutto per un fattore culturale; con la sua Apología Las Casas smonta le tesi del classicista. Las Casas parte con l’evidenziare il paradosso consistente nel ridurre in schiavitù altri esseri viventi in nome di una religione, il cristianesimo, che si professa come egualitaria. Poi si sofferma su alcuni aspetti interessanti adottando un atteggiamento che, come suggerisce Todorov, si potrebbe definire “prospettivista” (Todorov, 2014, p. 230): si allontana da una precedente tendenza all’assimilazione – i miei valori sono validi per l’altro – e analizza la questione accettando che ogni cultura vive all’interno di un sistema di valori propri. Se dunque il cannibalismo e il sacrificio umano possono risultare criticabili, punire con efferatezza sarà più nocivo rispetto agli atti condannati. Inoltre cerca di intendere le ragioni alla base di tali riti fino ad affermare che «il modo più forte di adorare Dio consiste nell’offrirgli un sacrificio» e continua «essi devono sacrificare delle vittime umane ai falsi dei che essi scambiano per il Dio vero, sí da potergli esprimere – offrendogli la cosa più preziosa – la loro gratitudine per i tanti favori ricevuti» (Las Casas in Todorov, 2014, p. 227). Nonostante il giudizio di validità riguardo ai falsi dei bisogna riconoscere il passo in avanti compiuto da Las Casas nel campo dove tutti avevano sinora fallito: la comprensione. Egli inoltre accetta che ciascun essere umano ha una concezione soggettiva di Dio, giungendo dunque a estendere il criterio di universalità non alla cristianità, bensì alla religione. Las Casas durante i suoi viaggi in America assiste ad alcuni episodi di efferata violenza da parte dei conquistadores tanto da affermare nel Brevísima Relación de la destrucción de las Indias, che gli indigeni venivano trattati «come, anzi meno, che lo sterco nelle piazze» (Las Casas, 2006, p. 21). La Breve Relazione si distingue per le parti dure e probabilmente anche romanzate: il tentativo del frate è scrivere un testo di denuncia dove la crudeltà degli spagnoli risulti esplicita e insopportabile. Ma perfino nella Historia de las Indias dove il frate adotta un linguaggio più descrittivo e lucido vi sono ugualmente episodi raccapriccianti come quello che ha come protagonista il generale Narváez a Caonao, presso Cuba. Il generale, racconta il frate, è appena sbarcato con le sue truppe quando d’un tratto i soldati, solo per necessità di affilare le spade, si scagliano contro chiunque. «All’improvviso uno spagnolo trae la spada dal fodero, e subito gli altri cento fanno altrettanto; e cominciano a sventrare, a trafiggere e a massacrare pecore e agnelli, uomini e donne, che se ne stavano seduti tranquillamente […]. In pochi istanti non rimane vivo nessuno» (Las Casas in Todorov, 2014, p. 170).
Questo è solo uno degli innumerevoli episodi, sono troppi quelli inenarrabili riportati nei quaderni non solo dei missionari, ma anche degli stessi conquistadores: stupri, mutilazioni, uccisioni dirette. Si stima che nel corso del XVI secolo l’80-90% delle popolazioni indigene siano state sterminate: stiamo parlando di circa 70 milioni di persone, il più grande genocidio della storia dell’umanità[1]. Le cause sono riconducibili non solo alle uccisioni dirette, durante le guerre o fuori di esse, ma soprattutto allo sfruttamento legato ai lavori forzati e alla mancanza di difese immunitarie per sopportare le malattie europee – morbillo e vaiolo. Si sono registrati inoltre, tra i Taino ad esempio, casi di suicidi, aborti e infanticidi (Dalembert, Nobili, Zanin, 1998, p. 65): un rifiuto alla procreazione in un periodo percepito come apocalittico, in cui la morte è vista come unica soluzione di rigenerazione. Durante l’occupazione europea gli indigeni subiscono uno stravolgimento totale, difficile da gestire: a livello sociale – sono privati delle loro forme organizzative e resi schiavi – a livello ambientale – le loro terre sono assediate, derubate, rivoltate – a livello psico-fisico – non possono più professare la loro religione e dedicarsi ai loro costumi, sono costretti ai lavori forzati, sono gravemente debilitati.
D’altra parte le popolazioni indigene non erano certo remissive: esistevano già tra loro forme di violenza molto prima che gli spagnoli mettessero piede in America. Sarebbe privo di senso edulcorare una realtà già distorta: affermare che essi fossero il popolo più buono del mondo, è sbagliato quanto dire che essi erano degli omuncoli privi di umanità. Gli aztechi, per esempio, non erano l’unico popolo presente nel territorio messicano, ma di certo era il più potente: il Messico si configurava come un insieme di piccoli stati a loro assoggettati. Cortés ha fatto di questa consapevolezza una strategia, sfruttando le tensioni interne e alleandosi con uno dei popoli sottomessi, i Tlaxcaltechi, per fare crollare l’impero.

Come si è detto, gli indigeni vivevano seguendo codici culturali distanti da quelli europei: se l’europeo percepiva la vita come un insieme di eventi lineari determinati unicamente dalle proprie azioni, gli aztechi seguivano invece uno schema per cui tutto fosse già predeterminato, secondo un calendario ciclico di riti e profezie. Il rituale diventava la chiave di lettura per gestire il rapporto con il mondo esterno: una via per render grazie e allo stesso tempo esorcizzare i misteri dell’esistenza. I missionari che hanno avuto modo di osservare da vicino queste usanze culturali, raccontavano nei loro diari di sacrifici umani in occasioni di feste che corrispondevano con determinate fasi cicliche (equinozi e solstizi, per esempio)[2]. Come nota Todorov «la morte rappresenta una catastrofe solo in una prospettiva strettamente individuale, mentre dal punto di vista sociale, il beneficio che si ricava dalla sottomissione alla regola del gruppo conta assai più della perdita dell’individuo» (Todorov, 2014, p. 83). Per la gran parte dei popoli mesoamericani, il sacrificio umano era consueto ma inserito all’interno di codici serrati; sin dal tempo degli Olmechi si legge la necessità di gestire il rapporto tra l’uomo e il mondo attraverso gesti carnali: non solo venivano sacrificati i vinti in guerra, ma gli stessi sovrani si sottoponevano a rituali di autodissanguamento. In questo caso l’autosacrificio è interpretabile come metodo di comunicazione con una realtà trascendente, dove il sovrano-sciamano è non solo l’unico intermediario possibile, ma anche garante della fertilità e del benessere del suo territorio (Domenici, 2005). Nel caso invece del sacrificio dei prigionieri, l’azione oltre che di natura mistica, si configurava anche come legittimazione di potere. Il popolo degli aztechi, o più correttamente mexica, si affermò come potenza indiscussa intorno al 1430 quando, sotto la guida del sovrano Itzcóalt, si insediò sulle rive del lago Texcoco, ponendo le basi della capitale Tenochtitlan. Il sovrano, chiamato Tatloani (colui che parla), veniva eletto da un Gran Consiglio, Tlatocan (luogo della parola). Il rituale d’incoronazione era complesso e costava di diversi giorni. Il sovrano neoeletto veniva condotto al tempio dell’idolo Huitzilopochtli (Colibrì del Sud), dove per giorni bruciava incenso e versava alcune gocce del suo sangue su un vaso sacrificale, cuauhxicalli. Il sovrano entrava ufficialmente in carica dopo aver condotto il suo popolo in guerra tornando vincitore con dei prigionieri da sacrificare, preferibilmente rappresentanti di autorità. Vi era difatti un rispetto sacro nei confronti dell’immolazione, inserita all’interno di un quadro cosmologico, dove lo spargimento di sangue diveniva catalizzatore di energia e rinnovazione. Lo si legge da alcune testimonianze artistiche come la Pietra di Tizoc dove vediamo una sequenza in cui il sovrano indossa gli attributi di Huitzilopochtli mentre i vinti, tenuti per i capelli, hanno anch’essi abiti divini ma rappresentanti gli idoli delle loro città. Tali raffigurazioni fungevano da veri e propri mezzi di propaganda politica, dove si dimostrava oltretutto il diretto collegamento tra il sovrano e il dio Huitzilopochtli.

Pietra di Tizóc (cuauhxicalli mexica), basalto, XV secolo.

Si potrebbe pensare che non vi fosse molta differenza fra i conquistati e i conquistadores ma, lungi da prendere una posizione netta al riguardo, vorrei affiancarmi ancora una volta alle teorie di Tzvetan Todorov che divide questi due gruppi culturali in società del sacrificio e società del massacro. «Il sacrificio è un delitto religioso che si compie in nome dell’ideologia ufficiale, sulla pubblica piazza, dinanzi agli occhi di tutti. L’identità del sacrificato è fissata da regole rigorosissime». Poi continua spiegando che: «Il massacro, invece rivela la debolezza del tessuto sociale, il venir meno di principi morali che garantivano la coesione del gruppo. è compiuto in preferenza in luoghi lontani dove la legge stenta a farsi rispettare» (Todorov, 2014, p. 175)

I conquistadores, figli di una società che credeva nel potere salvifico dell’imperatore, si spogliano dei valori morali una volta che si trovano liberi e lontani dalla madrepatria: la libido dominandi è più forte del principio etico che aveva anticamente mosso la loro missione. Gli indigeni d’altra parte sono spinti da motivi religiosi, nelle loro azioni vi è il tentativo di gestire il complesso rapporto tra l’uomo e il mondo seguendo dei codici e dei sistemi propri di una cultura basata su uno stretto rapporto con la terra, che vede nella morte non una fine ma un inevitabile e giusto ciclo. Il venir meno della comunicazione con l’altro, e la pretesa di assimilazione, conduce a errati giochi di potere in cui una parte deve risultare obbligatoriamente superiore, e l’altra inferiore: è la storia della società moderna che si protrae fino all’età contemporanea da un lato con quello che è stato definito neocolonialismo, dall’altra con le politiche totalitarie. Dopo circa cinquecento anni dall’inizio della colonizzazione, alcuni indigeni sono “riemersi”, grazie a un intervento artistico, dalle prime terre scoperte: le Antille. Siamo a Cuba, presso le Escaleras de Jaruco, zona anticamente abitata dal popolo taino. Ana Mendieta, artista di origini cubane emigrata negli Stati Uniti nel periodo di ascesa di Fidel Castro, torna sull’isola natia nel tentativo di recuperare le sue sentite, seppur distanti, origini. Tornare a Cuba significa per Mendieta ri-analizzare la sua stessa identità, in una ricerca che tende a elaborare tutti gli elementi culturali che la contraddistinguono. Mendieta si accosta spesso alle storie relative alla sottomissione dei popoli indigeni, non solo per il suo interesse riguardo l’antropologia, ma poiché in qualche modo ne sente affinità: l’adolescenza trascorsa negli Stati Uniti è caratterizzata da frequenti episodi di razzismo, e una volta adulta, quando si avvicina al circolo di artiste che si stavano battendo per il femminismo, si rende conto della disattenzione nei confronti delle minoranze etniche, della comunità Lgbt, delle donne immigrate. In poche parole, Mendieta lamenta una concentrazione rivolta solo alla classe bianca medio-borghese. Difatti nello schieramento tra Primo e Terzo Mondo, Mendieta si sente parte di quest’ultimo perché donna, perché latinoamericana, perché proveniente da una nazione in conflitto con quella che la ospita, perché in esilio. Mendieta manifesta questa tensione fin dalla sua prima performance realizzata nella valle di Oaxaca nel 1973. L’artista giace nuda lungo un’antica tomba zapoteca coperta solo da fiori bianchi; il messaggio che vuole trasmettere rivendica un’identità spesso calpestata, la sua e quella dei popoli indigeni. La scelta del luogo è difatti emblematica: la valle era anticamente abitata dagli zapotechi, popolo che seppe resistere alla dominazione azteca, e in seguito divenne luogo dominato da Cortés, insignito con il titolo di marchese. A Cuba, invece, Mendieta realizza una serie di siluetas – tracce scultoree antropomorfe realizzate direttamente sul terreno, un vero e proprio leitmotiv dell’artista cubana – ispirate al pantheon femminile della religione taino. Grazie anche alla lettura del diario di Ramón Pané – che partecipò alle prime spedizioni – Mendieta riesce a riesumare queste antiche divinità.

Ana Mendieta, Guanaroca (La prima Donna), dalla serie Esculturas Rupestres, Escaleras de Jaruco (Cuba), 1981. Photo credit: Ana Mendieta.
Ana Mendieta, Guabancex (La Dea del Vento), dalla serie Esculturas Rupestres, Escaleras de Jaruco (Cuba), 1981. Photo credit: Ana Mendieta

Tra le varie incontriamo Itiba Cahubaba (La Grande Madre), Guabancex (Dea del Vento), Guanaroca (La Prima Donna), Guacar (La Mestruazione) e Atabey (Madre delle acque), rese attraverso dei solchi sul terreno friabile di Jaruco, che formano delle sagome contraddistinte spesso da fenditure, simbolo dell’organo genitale femminile (Clearwater, 1993). Attraverso la documentazione fotografica, è possibile notare come queste figure si innestino nel paesaggio che non viene maltrattato ma assume una configurazione energica, a tratti perturbante. L’iconografia utilizzata da Mendieta è strettamente personale: non si tratta di una superficiale imitazione di forma, ma di una reinterpretazione. Le Esculturas sono altresì un modo per riagganciarsi al discorso sul neocolonialismo: la “riemersione” dei Taino dalla terra è un memento della loro scomparsa, paragonata adesso al contesto contemporaneo in cui le minoranze etniche sono assorbite dalla visione eurocentrica. La storia tra Mendieta e Cuba è piuttosto travagliata a causa della difficoltà nel raggiungere l’isola, del poco spazio dedicato a un arte – quella di Mendieta – non istituzionalizzata e forse percepita come provocatoria, e in generale per l’ostilità che il governo provava per tutti i cubani che avevano abbandonato l’isola. Le Esculturas Rupestres sono con il tempo dimenticate, e abbandonate agli effetti della natura e degli elementi atmosferici. Così nel 1985, anno della morte prematura di Mendieta, un’altra artista cubana, Tania Bruguera, effettua la stessa operazione di recupero. Nel tentativo di dar voce non solo alle popolazioni indigene, ma specialmente a Mendieta, e a tutti gli artisti emigrati come lei che per questo, erano stati cancellati dalla memoria storica e nazionale, Bruguera inizia il suo Homenaje a Ana Mendieta, un progetto a lungo termine portato avanti fino al 1996. Il lavoro consisteva nel rifacimento delle performance di Mendieta, così come nella rielaborazione di alcune siluetas, nel tentativo di dar voce a una storia ormai cancellata. Bruguera – oggi attivamente impegnata nelle battaglie dei diritti sociali, attraverso l’arte o fuori da essa – sin dall’inizio della sua carriera dedica particolare attenzione a temi come la politica, la storia, la memoria, la censura, e i comportamenti sociali. Nel 1997, in coincidenza con la sesta Biennale dell’Avana, Bruguera realizza presso i locali della propria abitazione la prima performance della serie El peso de la culpa: l’artista è in piedi con indosso il corpo di un agnello che pende dal suo collo, davanti a lei ci sono due ciotole, una piena d’acqua e una piena di terra cubana. Per 45 minuti, Bruguera esegue l’azione- rituale consistente nel fare delle piccole palline di acqua e terra che poi vengono ingerite (Valdés Figueroa, 1999, pp. 245-253).

Tania Bruguera, El Peso de la culpa, Museo de Bellas Artes, Caracas, 1998. Photo credit: Daniel Sckoczdopole
Ana Mendieta, Imagen de Yagul, Valle di Oaxaca (Messico), 1973. Photo credit: Ana Mendieta

L’agnello è utilizzato da Brugera non solo come simbolo sacrificale, ma anche per via del suo peso che, gravando sull’artista, conferisce un senso di sottomissione. Attraverso tale azione, Bruguera vuole lanciare un’accusa rivolta a chi è indifferente rispetto al sistema politico vigente in quegli anni a Cuba, considerato oppressivo dall’artista. Difatti l’azione di mangiare la terra è metafora di un tentativo di adattamento forzato, privo di risultati: per quanto ci si sforzi a ingerire e, quindi accettare, l’essenza culturale della terra abitata, il rituale non consegue gli esiti sperati. Come spiega la stessa artista ingerire terra «è come ingoiare le proprie tradizioni, la propria eredità, è come cancellarsi» (Valdés Figueroa, 1999, p. 245); allo stesso tempo fa riferimento al suicidio, quello degli indigeni che, stremati dal lavoro forzato imposto dagli spagnoli, non trovavano altra scelta che ribellarsi ingerendo terra fino a perdere la vita. In quest’opera Bruguera mette a confronto il suicidio collettivo degli indigeni con l’indolenza dei suoi concittadini rispetto a ciò che succede sull’isola. La colpa è quella di rimanere passivi[3], di non fare nulla per cambiare lo stato delle cose; l’artista riconosce però che «l’inerzia è una strategia per sopravvivere», anche se «questo tipo di salvezza conduce ad una morte lenta» (Valdés Figueroa 1999, p. 245).

La lotta per il potere, indole insita nell’uomo sin dagli albori della sua storia, porta alla creazione di schieramenti, e a marcate manifestazioni di violenza, nel tentativo di far soccombere ciò che è considerato nemico, identificato talvolta con il diverso, altre con il cattivo, altre con l’inferiore. In questi complessi giochi di potere, in cui talvolta diventa difficile segnare la differenza tra oppresso e oppressore, è necessario esaminare i fattori culturali che hanno scatenato determinate azioni; conoscere la storia è necessario affinché essa non si ripeta, allo stesso tempo, nella società contemporanea dove la suddivisione gerarchica è ancora quella vigente, in classificazioni dettate da stereotipi, è forse necessario interrogarsi sulle ripercussioni cicliche delle nostre azioni e sulla natura stessa degli schieramenti.

Note
[1] Si veda sul tema: Todorov 2014, pp. 161-163; Benigno 2005, p. 52; Dalembert, Nobili, Zanin, I caraibi prima di Colombo: la cultura del popolo taino, IILA, Roma 1998, pp. 47-65.
[2] Una delle testimonianze più significative è quella di Diego Duràn in Historia de Las Indias de la Nueva España.
[3] L’espressione cubana comer tierra (mangiare terra) allude a una situazione di penuria: sono gli anni del Periodo Especial, in cui a causa dell’inasprimento dei rapporti tra USA e Cuba, e lo scioglimento dei rapporti con la Russia, l’isola si trova in grave difficoltà economica.

Bibliografia
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Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 2014.
Valdés Figueroa, Cuba. Maps of desire, Ed. Kunstalle Wien, Vienna 1999

Francesca Renda (Palermo, 1993) ha studiato Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo e ha conseguito la laurea magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna. Ha lavorato in diverse sedi museali tra cui: CAAC (Siviglia), Museo Picasso (Málaga), ZAC (Palermo), MAMbo (Bologna). È cultore della materia per i corsi di Decorazione e Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Palermo. Tra i principali interessi il Surrealismo, l’Outsider Art, la fotografia e le arti performative del XXI secolo.