Italianità
Episodi di Luce
di Roberta Bernasconi

Girando per le strade di Scutari, per i bar e i mercati all’aperto del centro incontro velocemente l’accoglienza e l’uso della lingua italiana. Molti cercano le parole esatte per potermi rispondere mentre altri hanno dimenticato l’italiano, archiviato. Nei grandi negozi gli addetti ai lavori sembrano più preparati ad accogliere l’ospite italiano, che spesso sceglie l’Albania per vacanza o per stabilirsi con attività lavorative che hanno più opportunità di concretizzarsi lì dove l’euro ancora non è arrivato.
A Scutari sono un’ospite e chi mi accoglie è Adrian Paci e la sua Art House inaugurata appena un anno fa. Aperta questa porta, ho avuto la fortuna di cogliere l’incontro e condividere pensieri con un gruppo di giovani artisti, principalmente italiani e albanesi, attraverso un contesto poco conosciuto ma così prossimo come l’Albania.

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Art House, Scutari

 

La luce come fotografia
Adrian ci ha portato ad incontrare il bianco e nero dell’archivio Marubi a Scutari pochi giorni fa – la mia memoria è ancora fresca e densa di stimoli. Pietro Marubi, diventato in seguito al suo spostamento in Albania, Pjetër Marubi, è un personaggio chiave di questo racconto tra Italia e Albania – tra un sogno e il suo respingimento – tra il bianco e il nero. Poteva Marubi a metà ottocento abbandonare il sogno dell’Italia unita e scappando creare un’eredità storica di enorme importanza per i vicini albanesi di oltre adriatico? Poteva certamente, adottando come strumento una pratica magica – la fotografia.
Marubi ha fotografato le abitudini e i costumi dell’Albania di metà ottocento lasciando in eredità un archivio che i suoi figli adottivi Kel e Gegë hanno contribuito a creare, documentando la realtà albanese per oltre un secolo e soddisfacendo così il desiderio del popolo di essere ritratto.

Con la luce della fotografia secondo Marubi si poteva scrivere. Il suo studio infatti si chiamava “Scritto con la luce” e aprì nel 1856 a Scutari. Mi ha subito affascinato pensare alla luce, nelle sue varie forme, come strumento possibile del visibile.

La storia di Pietro ha fatto nascere molti altri fotografi che dal suo esempio e metodo hanno scritto con la luce i ritratti dei personaggi storici e delle abitudini tradizionali del paese. La pesante ritorsione del totalitarismo comunista non solo ridusse la possibilità dell’individuo di emergere contando su una omologazione in termini sociali ma deviò anche la fase espressiva degli artisti – che come in tutti i regimi – doveva rendere conto a un sistema. Gegë Marubi, riuscì ad archiviare migliaia di negativi e tuttavia a proteggerne la storia.

Adrian Paci, Dialog i shkruar me dritë (Dialoghi scritti con la luce), 37min, 2016

 

E’ proprio tra la visita al Museo della Memoria e le sue prigioni e il Museo Fotografico Marubi che vengo a conoscenza di un recente lavoro di Adrian, “Dialoghi scritti con la luce” nel quale gli elementi di questo racconto si sovrappongono per creare una nuova storia. Da un lato le immagini dell’archivio Marubi che coprono quasi 150 anni di storia, dall’altro Adrian che con la sua visione contemporanea tesse insieme queste fotografie liberandole dalla propria cornice e fondendole in una sequenza. Mi ha colpito molto scoprire che questo video è stato proiettato pochi mesi fa in occasione dell’Europe Day nella piazza davanti al Comune di Scutari e che in molti, politici e non, hanno condiviso lo scorrere di queste immagini. Un discorso di luce molto attuale, così come l’idea di archivio che può rappresentare a tutti gli effetti un esempio di contemporaneità. E’ come se guardando ai personaggi di ieri il popolo albanese potesse rafforzare la sua presenza e identità di oggi.

A proposito di contemporaneità Adrian mi mostra un suo lavoro del 2003 dal titolo “Back Home” in cui ritrae famiglie di albanesi immigrate in Italia, tra cui la sua famiglia, davanti alle riproduzioni delle proprie case d’origine in Albania, abbandonate e con arredi spogli. Le riproduzioni delle case sono dipinte, proprio come nella tradizione dei fondali che Marubi dipingeva per creare gli scenari delle sue fotografie. È una sovrapposizione di elementi, la famiglia albanese immersa nello scenario di un tempo, di ciò che ha lasciato e che forse un giorno ritroverà, la pittura come tecnica, abbandonata e reinventata attraverso la fotografia.

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Adrian Paci, Back Home, 2003

 

La luce come immagine cinematografica
Il nostro alloggio si trova in Rruga G’juhadol e Lek mi indica che proprio difronte a noi si trovava la casa di Kolë Idromeno, artista di Scutari nazionalmente riconosciuto per il suo essere poliedrico e per aver dedicato la sua pratica e conoscenza alla città. Dopo un breve periodo trascorso a Venezia, Idromeno riprende con lucidità e dedizione le sue attività di artista visivo: come pittore rappresentando gli elementi autentici della vita albanese, come architetto, disegnando molti degli edifici del centro di Scutari e anche come fotografo, imparando il mestiere proprio nello studio di Marubi.
Gli occhi di Lek brillano quando racconta che mentre Idromeno scolpiva la città e il suo animo, egli s’impegnò a portare la cultura del cinema in Albania grazie ai suoi contatti internazionali. Proprio nella sua abitazione, lì davanti a noi, Idromeno proiettò il primo film nella storia dell’Albania. Siamo nel 1912 e da questa casa il “teatro elettrico” prese avvio anche nelle sale pubbliche.

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Casa di Idromeno, Rruga G’juhadol, Shkodër 2016

 

La luce come televisione
I 120000 negativi dell’archivio Marubi compongono un tesoro unico per la società albanese da cui è possibile trarre un secolo di memoria visiva. Una storia che emerge grazie alla luce, che nei negativi esplode sotto forma di segnali luminosi – così forti da far perdere i dettagli più sottili dell’immagine – ma fatti in modo da poter resistere ed essere conservati a lungo grazie alla loro infinita riproducibilità.

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Negativi esposti nel Museo della Fotografia Marubi di Scutari

Mi piace poter associare il segnale luminoso che traspare dai negativi di Marubi ai segnali dell’etere, quelli che hanno portato la televisione nelle nostre case. Durante la mia permanenza a Scutari, Tea, Enza e Iola mi hanno parlato molto della televisione italiana trasmessa nelle loro case come un modello da seguire riconoscendone la potenza che ha avuto di formare e disegnare un modello. Il segnale Rai, come i segnali di altri canali televisivi italiani, attraversano l’Adriatico silenziosamente e raggiungono le case albanesi che, dopo decenni di chiusura e impoverimento vedono apparire la luce. II sogno italiano filtrato proprio dal mezzo televisivo, dalla tv berlusconiana al grande cinema italiano, crea l’immaginario di libertà, possibilità e ambizione.

La luce come lingua
La presenza di artisti formati in Italia e tornati in Albania ha molto a che fare con la solidità che si sta cercando di costruire nell’Albania contemporanea. Adrian dice che aver fondato Art House a Scutari non è una questione di ritorno alle proprie radici, ma una questione di presenza – un processo in essere, che non vuole rimanere nella storia, ma desidera attivare dei processi di consolidamento nella città e nel paese intero. Difatti la scrittura luminosa dei Marubi racconta molto del carattere albanese e delle sue origini e ricorda a tutti che l’Albania non era solo uno stato, ma uno stato nell’Europa e nel mondo, capace di andare oltre i suoi regionalismi ed estendersi verso una nuova luce.

Il testo nasce a seguito della partecipazione al modulo bisettimanale residenziale “The Encounter. Reclaiming the Potentiality of Affection” condotto da Adrian Paci presso Cittadellarte – Fondazione Pistoletto, Biella e presso Art House, Scutari. Realizzato nell’ambito del progetto UNIDEE – Università delle Idee della Fondazione Pistoletto, dal 10 al 21 ottobre 2016.

 

 

Roberta Bernasconi (1985) è coordinatrice del programma UNIDEE – University of Ideas presso la Fondazione Pistoletto. Si è laureata in Produzione e Progettazione delle Arti Visive presso lo IUAV di Venezia e porta avanti una ricerca sull’opera d’arte nello spazio pubblico e sulla reazione dello spettatore ad essa. Dal 2010 trasforma la sua pratica artistica integrandola a un’attitudine multidisciplinare volta allo sviluppo creativo di metodi e percorsi che rendono l’arte materia accessibile a tutti. Nel 2012 collabora con il Maybe Education and Public Programs di DOCUMENTA 13, approfondendo la ricerca sul senso di incertezza della conoscenza e di indeterminatezza dell’opera d’arte. Ha lavorato presso i Musei Civici di Venezia sviluppando e promuovendo attività didattiche nei musei della città per gruppi di scuole, adulti e famiglie. È operatrice culturale attiva nella rete dei musei veneziani e presso la Fondazione Biennale. Accoglie lo scetticismo verso l’arte come stimolo positivo e sostiene iniziative che producono cultura, coltivano conoscenza e che definiscono un’azione sociale nello spazio collettivo.