Il primo Festival dei Poeti, che si tenne sulla spiaggia di Castelporziano per due giorni, alla fine di giugno del 1979 fu un evento la cui eco continua a risuonare oggi.
Un raduno di quelli che s’erano visti solo per i grandi concerti (o, per una certa comunanza del pubblico che attirò, per il Festival del proletariato giovanile di Parco Lambro nel 1976).
Io vorrei partire da un’immagine che tu hai catturato in un tuo scatto. C’era, tra gli ospiti, il poeta Evgenij Evtusenko, che a un certo punto si alza e in mezzo a un pubblico di migliaia di persone declama dei versi suoi in russo. Poi li traduce in italiano e suonano così “…. E io vorrei nascere di nuovo all’ombra di un’unica foto. La foto del comandante Che Guevara”. Ecco, vorrei iniziare da questa voce di poeta che mette al centro l’immagine e la fotografia, iniziare cioè dalla singolarità della tua esperienza di fotografo che pianta lo sguardo su questa scena galvanizzata del festival. Innanzitutto perché ti trovavi lì?
Per una serie di motivi. Prima di tutto perché era naturale per me essere dove accadevano le cose, rispondeva a un desiderio di partecipare e fotografare che si spostava dal teatro delle cantine, al cinema alla cronaca. Poi perché frequentavo già il gruppo del Beat ‘72, che a Roma animava uno degli spazi più importanti per la scena d’avanguardia. E così Simone Carella, Ulisse Benedetti, Franco Cordelli, Dario Bellezza (protagonisti dell’evento di Castelporziano N.d.R) erano personaggi della mia quotidianità, che ritrovi in molti dei miei scatti dell’epoca.
Infine perché in quell’occasione e in altre, Playmen mi aveva chiamato per un servizio sulle sue pagine più culturali diciamo così, e i poeti erano personaggi in qualche modo popolari all’epoca.
Simone Carella fu uno dei grandi animatori visionari dell’evento. Il fatto di provenire dal teatro di ricerca, di essere l’anima centrale del Beat ’72, si ritrova nell’idea del Festival come grande evento di spettacolo, nella teatralità diffusa e caotica della sua organizzazione. L’idea di Carella era quella di spettacolarizzare la poesia e mostrare il corpo, il poeta come opera viva e portatore della sua propria parola, ma al modo di una grande scena teatrale o, se vuoi, musicale.
Musicale sì, come un raduno, e musica ce ne fu, con Ginsberg che suona questo organetto con Orlovski e sedano uno dei momenti più duri della contestazione da parte della platea. Ma anche proprio la poesia era parlata come fosse musica, gli americani in questo erano bravissimi.
D’altro canto il rapporto tra poesia sperimentale, scena musicale e performativa in Italia era molto stretto a partire dalle esperienze del Gruppo 63 con Ronconi, Scabia, Vicinelli…
Sì certo. A Roma Dario Bellezza e Valentino Zeichen soprattutto erano frequentatori e spesso collaboratori assidui non solo del Beat ‘72 ma anche dell’Alberico, dell’Alberichino poi e dei vari teatrini che ogni tanto saltavano fuori…Il teatro era un grande attrattore e catalizzatore di artisti che frequentavano ambiti diversi e che venivano da altre discipline.
A Castelporziano c’è una prima giornata di programmazione in cui si alternano i poeti italiani e una seconda, quella più nota, con i protagonisti della Beat Generation, una galleria di giganti che pochi, a parte gli organizzatori, credevano si sarebbero veramente presentati su quel palco improvvisato sulla spiaggia di Ostia.
Sì gli americani, accuditi da Fernanda Pivano, da Ferlinghetti, Gregory Corso, William Burroughs, Allen Ginsberg, … erano un mito.
Gli organizzatori non avevano delle gran risorse per pagare l’ospitalità dei poeti. Allora, su un’idea di Nicolini, fecero un accordo con un istituto alberghiero che in estate era chiuso e che utilizzava un ex Hotel di Ostia, le cui camere però erano ormai fatiscenti. Io volevo fotografarli a modo mio, questi mostri sacri, quindi accanto alle immagini – che pure ho realizzato – della manifestazione in sé volevo dei ritratti. Allora mi misi accanto all’ascensore nella hall di questo hotel, aspettandoli uno ad uno e quando ne arrivava uno gli chiedevo se potevo salire con lui e fotografarlo in camera. Acconsentirono tutti. Quindi ne uscì una piccola galleria di personaggi in un ambiente spoglio e un po’ derelitto, sembrava quasi studiata questa cosa della Beat Generation ritratta nel degrado. Solo che era la scena reale. Tanto che poi ci prendemmo tutti la scabbia. Ci fu un’epidemia di scabbia, la rogna proprio…
Festival dei Poeti, Castelporziano, 1979
Tutte le immagini sono riprodotte per gentile concessione dell’autore, Piero Marsili Libelli
I ritratti in stanza li facesti solo agli americani o anche ai poeti italiani che si erano esibiti la prima giornata?
Solo agli americani, ma con gli italiani c’era comunque una frequentazione assidua e li avevo fotografati in altre occasioni, una volta per un servizio sempre per Playmen.
Questa cosa di Playmen testimonia anche come sia un momento in cui la poesia ha una visibilità alta e molto popolare.
Sì, in Italia e a Roma in particolare, anche grazie alle politiche culturali dell’assessore Renato Nicolini. Uno dei meriti di Nicolini fu quello di rendere popolare la sperimentazione artistica e di riportare la gente in strada, farla uscire di notte, esorcizzare la paura in mezzo agli anni di piombo.
Infatti il tempo e lo spazio di Castelporziano sono simbolici se vuoi, siamo a un anno dall’omicidio Moro e su una spiaggia di Ostia, il comune dove quattro anni prima era stato ritrovato cadavere Pasolini
Nicolini intercetta e si fa catalizzatore e interprete di questo desiderio, questa necessità di aggregazione e di comunità all’insegna della bellezza, del teatro, del cinema, della parola poetica.
E infatti lo attaccavano costantemente per questa sua idea – in realtà geniale – di effimero. Ed era invece proprio quella la forza, far vivere la città per il tempo e per la forza dell’evento. Pensa a Massenzio, alla gente che affollava i Fori… e la città ricominciò a vivere, anche di notte, nonostante, o chissà forse soprattutto, per quello che succedeva e che faceva paura.
Casteporziano secondo me è stata l’ultima fotografia di questa dichiarazione collettiva di libertà, di questa grande festa dove c’era una folla ad ascoltare i poeti e in questa folla tanti erano nudi – ci si spogliava allora con qualsiasi pretesto – il sesso era libero e la contestazione scattava per qualsiasi cosa. La gente saliva sul palco e prendeva il microfono, un inferno… un inferno però bello, io dopo di allora non ho mai più visto niente del genere. L’immagine di Castelporziano è l’ultima che ho di quel periodo.
L’ultimo giorno crolla il palco però miracolosamente non si fa male nessuno.
Miracolosamente sì, c’era pure gente che scopava sotto al palco.
Sai una cosa che mi veniva in mente adesso? Non c’era polizia… non c’era almeno una presenza manifesta. Adesso bastano due bar aperti al centro di Roma e ci vedi davanti la volante. Anche questo credo fu grazie a Nicolini, il fatto che il Festival non venisse percepito come un evento pericoloso. E invece lo era, era politicamente pericoloso, per questo anche l’isolamento successivo di Nicolini. Però l’istituzione una volta tanto ha funzionato, non è importante cosa sia rimasto, ma il fatto che in quel momento avesse appoggiato quella bellezza, quel casino, quella vita. Quel bel casino che è la vita.
Piero Marsili Libelli, Inizia la sua professione negli anni settanta a Milano, fotografando la cronaca nera per il Corriere della Sera. Lavora anche per alcune agenzie fotogiornalistiche realizzando servizi di attualità politica. Si trasferisce a Roma negli anni settanta, dove inizia a collaborare con il settimanale L’Espresso, occupandosi di Teatro d’Avanguardia. In questo periodo frequenta il teatro di Carmelo Bene, Giancarlo Nanni, Roberto Benigni, Memè Perlini. Nel 1981, documenta a Belfast i funerali di Bobby Sand e la guerriglia urbana dell’IRA. Nel 1989, durante la Rivoluzione rumena, mette in posa modelle tra le braccia dei soldati, sullo sfondo una Bucarest ancora in guerra. Viaggia in diversi paesi del mondo, Africa, India, Giappone, Pakistan, Afghanistan, Libano e Kosovo, realizzando reportages di guerra e documentari. Nel 1984 presenta al Mickery Theatre di Amsterdam la performance intitolata “La Camera Chiara”. Negli anni novanta lavora anche nel cinema al fianco di registi come Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, Giuliano Montaldo, Marco Ferreri e recentemente con Vittorio Storaro al film “Caravaggio”. Le foto di quest’ultimo lavoro sono esposte dal 2008 al Lincoln Center di New York. Si è occupato anche di pubblicità con Alessandro D’Alatri e Ferzan Ozpeteck. Nel 1997 a Milano espone presso la Galleria Sozzani. Le sue foto sono state pubblicate, tra gli altri, da New York Times, Newsweek e Paris Match. Ha esposto a San Paolo del Brasile, Amsterdam, Madrid, New York e Mosca. Nel 2007 con Wim Wenders ha presentato una mostra di foto inedite su Michelangelo Antonioni al Festival del Cinema Internazionale di Yerevan in Armenia. Nel 2018 è presente, insieme a Gianni Berengo Gardin, al Multimedia Art Museum per la photobiennale internazionale a Mosca .