La dura vita del marmo
Come spesso accade, e quando accade è una vera epifania, “le cose” si capiscono solo quando le si attraversa. O quando ci attraversano, nostro malgrado.
Per le cose (oggetti e soggetti) dei musei, fisiologicamente estraniate, immobilizzate, camuffate, poi, è ancora più vero. Eccone una prova provata.
A settembre 2018 l’Accademia Carrara di Bergamo (museo nel quale lavoro come responsabile dei Servizi Educativi) avvia un progetto di valorizzazione destinato al pubblico non vedente e ipovedente. Le sculture si prendono una rivincita sulle centinaia di dipinti esposti su due piani, facendo vacillare le certezze della Pinacoteca bergamasca.
La convivenza tra dipinti e sculture è sempre stata pacifica in Accademia Carrara. Se i dipinti erano, e per certi versi ancora sono, il cuore del museo, le sculture svolgevano una funzione secondaria, fino a quando a queste ultime è stata dedicata, nel 2015, un’intera sala, con tanto di affaccio scenografico sull’Accademia di Belle Arti, fondata dal conte Giacomo Carrara insieme al suo museo, secondo i principi dell’Illuminismo.
Nel 1998 Federico Zeri muore e lascia all’Accademia Carrara, istituzione con la quale aveva un legame professionale e affettivo, le sculture conservate nella sua casa di Mentana. Busti, statue, terrecotte e ceramiche percorrono un nuovo viaggio verso il loro destino museale, trovando posto nelle sale della Pinacoteca di Bergamo.
Molte di queste opere al momento dell’acquisto avevano autore e titolo sconosciuto (e per alcune tuttora) e dunque una didascalia che ne specificasse artista, soggetto, data e luogo di esecuzione: insomma una didascalia che le etichetti artista-soggetto-data-luogo. «[…] Le sculture tra le quali vivo sono state acquistate: perché mi incuriosivano, perché erano di livello qualitativo sufficientemente alto, perché il loro prezzo era modico. Non mi sono mai preoccupato delle attribuzioni, tutt’al contrario: molti pezzi hanno ricevuto un battesimo quando già da anni e anni li vedevo ogni giorno… Volti di cardinali e ritratti d’invenzione, un pezzo di fontana, un’erma […]» [1] (Bacchi, Rossi, 2000, p. 9).
Resistente al tempo, ma troppo ingombrante per la memoria, la scultura viene facilmente abbandonata e dimentica la propria identità. Anche i collezionisti la snobbano, ed è una vita dura anche quando approda in un museo con un allestimento fresco, pulito, recente (l’Accademia Carrara riapre nel 2015 dopo un lungo restauro) perché tra tanti dipinti rischia di essere oggetto decorativo, comodo rifugio per l’occhio affaticato dalle tavolozze. È il caso delle due sculture così pacificamente collocate in sala 27.
Tra le opere selezionate per il progetto di cui parlavo in apertura [2] c’è una coppia di due sculture in marmo a figura intera le cui didascalie riportano:
Randolph Rogers
Waterloo, New York, 1825 – Roma 1892
Giovane cacciatore indiano
1866
marmo
collezione Zeri, 1998
Randolph Rogers
Waterloo, New York, 1825 – Roma 1892
Giovane pescatrice indiana
1866
marmo
collezione Zeri, 1998
Punto.
Le opere si trovano al secondo piano del museo, prima della sala finale, dove un iconico dipinto di Pellizza da Volpedo chiude il percorso di visita invitando a proseguire verso il Novecento custodito dalla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea. Si è così stanchi dopo aver percorso un vero e proprio manuale di storia dell’arte che solo Hayez e Previati riaccendono un momento la passione per l’arte.
Nessun educatore, nessuna guida si ferma sulle due sculture, dice il personale di guardiania, anzi, spesso sono d’intralcio perché impediscono una bella inquadratura fotografica della Caterina Cornaro di Hayez o del Paolo e Francesca di Previati.
Sarà per questo che fino a quando non abbiamo iniziato a conoscerli, a frequentarli con assiduità, ispezionati da decine di polpastrelli, scandagliati da minuziose letture descrittive, non ci eravamo resi conto di quante cose possono raccontare. Per esempio, dire qualcosa dello scultore americano che li ha plasmati, famoso negli Stati Uniti pressocché sconosciuto in Italia. Oppure parlare della dolorosa questione del colonialismo annegata in tanto marmoreo candore. Una storia di artisti, opere e sensi migranti quella che le nostre due sculture stanno per narrare.
Expatriate american sculpture
Il Cacciatore e la Pescatrice, in piedi su una base circolare che probabilmente li faceva ruotare su sé stessi per essere osservati a da tutti i punti di vista, sono firmati dall’artista Randolph Rogers.
Randolph Rogers fa parte di quel gruppo di scultori americani [3] partiti dal nuovo continente alla volta dell’Italia e dell’Europa per apprendere i modi della scultura classica e soddisfare le richieste dei committenti americani.
L’approdo di Rogers alla scultura non è stato lineare; deve aver vissuto quei periodi che i giovani attraversano prima di trovare la propria strada e dare un senso compiuto alle esperienze sparse e varie. Appena finita la scuola, a 13 anni circa, lavora presso un panettiere della città in cui è cresciuto, Ann Arbor’s [4], dove è facile immaginarlo alle prese con le più precoci sperimentazioni con pasta di pane in tre dimensioni. Di sicuro il giovanissimo Rogers doveva già fare i conti con quell’istinto artistico che emerge a più riprese negli anni in cui lavora tra la cittadina del Michigan e New York presso diversi dry goods store o come incisore di tavole per le illustrazioni del bisettimanale Ann Arbor Argus. La sera, finito di lavorare, Rogers frequenta i figurinisti italiani di Cherry Street [5] (Millard F. Rogers, 1971) e nei momenti liberi modella il gesso. Questo singolare passatempo non passa inosservato al suo datore di lavoro che decide di sostenere il ventitreenne Rogers offrendogli un soggiorno di studio a Firenze.
Il fauno di marmo
Alla morte del suo maestro fiorentino, Lorenzo Bartolini (Savignano di Prato, 7 gennaio 1777 – Firenze, 20 gennaio 1850), Rogers si trasferisce a Roma, aprendo, nel 1851, il suo primo studio in piazza Barberini. Sa modellare l’argilla e il gesso, ma non ha imparato a scolpire il marmo, certamente il suo italiano sarà migliorato rispetto ai primi giorni trascorsi a Firenze [6] e di lì a poco sposerà Rosa Gibson of Richmond, dalla quale ebbe nove figli (Cavaioli, 1999)
Nydia, the Blind Flower Girl of Pompeii è l’opera che lo rende famoso ed è anche la sua scultura più conosciuta. Modellata tra 1853–54 e scolpita in 167 copie, Nydia è la traduzione in marmo del romanzo vittoriano The Last Days of Pompeii, che frutta all’artista -stima Millard Rogers [7] circa 70.000 dollari e un posto tra gli scultori che contano. Da Nydia in poi la carriera di Rogers è un successo.
Rogers è citato nella prefazione del romanzo dello statunitense Nathaniel Hawthorne, Il fauno di marmo o Il romanzo dei Monte Beni, nella quale l’autore ringrazia gli scultori ai quali ha “rubato” le opere per inserirle nel suo racconto e ai quali augura il riconoscimento del pubblico. Il testo del 1860 torna assiduamente da qualsiasi parte si vogliano guardare il Cacciatore e la Pescatrice della Carrara ed è un ottimo punto di partenza per scorticare la superficie candida dei due indiani e capire cosa c’è oltre.
Il fauno di marmo ambienta nella Roma risorgimentale la storia di quattro ragazzi (due americani, un italiano di nome Donatello e una pittrice di cui non si conosce la provenienza) le cui vite si intrecciano nell’amore e nella gelosia. Ma la città eterna, animata dalle presenze di un passato glorioso e ammantato di polvere, ruba la scena a tutti. Le passeggiate romane dei quattro amici sono in realtà le passeggiate di Nathaniel Hawthorne, che in Italia aveva trascorso due anni, annotati nel suo taccuino. Roma è così presente che il romanzo viene utilizzato dai grandtouristi americani come guida di viaggio.
Ma c’è un altro tema che percorre le pagine del libro ed è quello dell’arte come presenza viva, in grado di sollecitare la memoria di chi la osserva, partecipando alla definizione della propria identità. Tutt’altro che turismo.
Impermeabilità
Tuttavia, la sensibilità di Hawthorne, questa idea di permeabilità all’altro, di comprensione della propria identità attraverso l’altro rimane piuttosto isolata. Mentre il Renaissance revival decorava le vite dei nuovi americani ricchi attraverso una trasformazione delle immagini e degli stili europei in chiave americana, (ovvero mentre i colonizzatori cercano nelle loro radici la legittimazione della loro supremazia sulle popolazioni indigene) anche il Romanticismo europeo subisce il fascino di quel nuovo mondo aldilà dell’Atlantico [8].
Nel 1801 Chateaubriand aveva pubblicato Atalà, una storia d’amore e di colonizzazione con lieto fine cristiano; nel 1826 James Fenimore Cooper pubblicava The Last of the Mohicans [9] poco prima che la Indian Removal Policy di Andrew Jackson spingesse, a suon di trattati e combattimenti, gli indiani fuori dai loro territori.
I temi letterari ispirano gli artisti, compreso il nostro Rogers, che nel 1854 modella Atala e Cacthas, scultura destinata a R.W. Montgomery [10] Chactas, con tutto il corredo iconografico indiano, è inginocchiato e toglie una spina dal piede di Atala; praticamente uno Spinario americano. Realizzerà altri soggetti indiani nella seconda metà dell’Ottocento.
Cosa ci fanno due indiani d’America a Bergamo[Ritorno a capo del testo]Come Atala e Cacthas anche i due indiani di Bergamo sono stati ritrovati. Era il 1960 e si trovavano nel giardino di una villa romana (Bacchi, Rossi, 2000, p. 86). Acquistati da Federico Zeri, dal 1998 sono conservati dall’Accademia Carrara.
I due corpi di marmo hanno ancora i segni della loro vita in giardino nelle lievi striature aranciate e nei dettagli un poco danneggiati (le dita rotte della bambina e il suo retino, le penne sul capo del bambino); si trovano insieme ai dipinti di soggetto storico e letterario, tra la pittura melodrammatica di Hayez e i soggetti religiosi, orgoglio della Scuola di pittura dell’Accademia Carrara, e una tela di Giovan Battista Riva: La tumulazione di Atala del 1859.
Cortocircuiti
Dunque, questi due bambini di circa sei anni indossano elementi tipici dell’abbigliamento degli indiani d’America: pelli di animali, penne di volatili, una faretra con le frecce; sono un cacciatore e una pescatrice e hanno già catturato alcune prede. I loro corpi hanno forme tondeggianti e il colorito bianco del marmo; i volti paffuti hanno tratti occidentali.
Le due sculture sono ricche di dettagli e invitano a girare loro intorno per coglierli. Le pose sono simmetriche, bilanciate, classiche, l’aspetto, accessori esclusi, è quello di due puttini, quasi si fatica a dire se siano di sesso maschile o femminile.
Come loro ne esistono altri [11], esattamente identici, e chissà se altri ne rimangono dimenticati in case e giardini.
Ha viaggiato l’idea che ha generato il Cacciatore e la Pescatrice, l’incontro-scontro con gli indiani d’America, e le sue interpretazioni letterarie. Ha viaggiato lo stile che li ha plasmati, la scultura classica come modello, ha viaggiato anche lo scultore per imparare a scolpire e probabilmente hanno viaggiato i committenti [12]. Ogni cosa [13] ha viaggiato A/R tra Europa e America.
Cose che si potrebbero dire
È stato sufficiente iniziare a osservare questi due indiani con un altro sguardo, o meglio, è bastato iniziare a considerarli realmente, smettendo di vederli come “belle decorazioni” per avviare un processo di conoscenza e consapevolezza, che in queste poche righe è stato possibile solo delineare nei suoi elementi essenziali. Questi due indiani ci offrono un’opportunità, a noi che lavoriamo nei musei, a noi che andiamo nei musei, a noi che nei musei non vogliamo entrare è quella di «[…] rileggerne le collezioni mettendo in evidenza tracce e apporti sentiti come più rilevanti che non in passato, più comunicativi e maturi» (Cimoli, 2018, p. 46).
Mi sono chiesta quante e quali opere del museo nel quale lavoro potrebbero narrare altre storie [14] dimenticando per un momento la loro identità di capolavori. Ho pensato a una delle mie opere preferite dell’Accademia Carrara, la Nascita di Maria, dipinta da Carpaccio e al giorno in cui Maida, mediatrice culturale iraniana che vive in Italia, ha scelto questo dipinto avvertendo con esso una forte vicinanza. Nell’opera di Carpaccio la madre di Maria ha appena partorito, è sdraiata nel suo letto e circondata dall’affaccendarsi di molte donne, tutte intente a prendersi cura di lei e della neonata. Un rito antico, appartenente a molte culture e un tempo praticato anche in Italia che Maida stessa aveva vissuto diventando madre.
È un po’ come la storia dei due indiani d’America: nell’addentrarmi in questa breve ricerca ho avvertito nettamente la sensazione di un battito irregolare. Per la cultura italiana, per la comunità che ha costruito il museo e accolto i due indiani in collezione la Colonizzazione è un fatto distante.
Come lo era per Baudelaire quando vede la Indian Gallery, la mostra itinerante di Catlin con opere, oggetti e persone provenienti dalle terre dei nativi americani, e scrive parole piene di ammirazione per la pittura dell’americano. Peccato che di tutto quell’incredibile viaggio colga solo il dato stilistico (Pinelli, 1996, pp.127-128).
Noi come Baudelaire siamo parte di quella tradizione classica che, scrive Ginzburg con parole illuminanti, ha costruito il primitivismo (Ginzburg, 2000, pp. 127-147).
Ma allora, sempre rifacendomi a Ginzburg, se «[…] non tutte le culture dispongono dello stesso potere» (Ginzburg, 2000, pp. 127-147) , non è allora il museo a doversi fare garante e voce di tutti quegli oggetti che sono stati silenziati? (Cimoli, 2018, p. 70)1Non è forse il momento che anche l’antropologia entri nei musei?
Molto di recente, durante un convegno di studi [15] sull’educazione al patrimonio, ho appuntato diverse volte la parola “rilevanza”, utilizzata dal direttore del museo delle Scienze di Trento, e ripresa dagli altri relatori. Con molto pragmatismo Michele Lanzinger ha parlato di musei che scelgono di essere rilevanti anziché carini, attori tra le comunità di fruizione.
In un’epoca in cui si dimentica la storia, anche quella delle precedenti migrazioni, e nulla si è imparato sul rispetto del punto di vista altrui, questo potrebbe essere un interessante punto di partenza per costruire una narrazione nuova attorno ai nostri due indiani; da pacifiche allegorie dell’innocenza a oggetti vivi (Green Fryd, 1984-1985).
Note
[1] Scriveva Francesco Rossi nel catalogo della mostra del Duemila: “Sono convinto che un tale disagio non dispiacesse al giovane studioso, e che anzi l’evidente disordine ostensivo e la carenza di informazione critica lo stimolassero a quell’esercizio dell’attribuzione e della ricostruzione dei complessi che rimane costante, anche se non unica, caratteristica del suo lavoro.” (La Donazione Federico Zeri, 2000).
[2] L’intero progetto è stato frutto di un sinergico lavoro di staff (conservatore referente; esperto di accessibilità; servizi educativi), che ha individuato tra le sculture quelle che permettevano di rispettare criteri di sicurezza, conservazione, accessibilità e leggibilità. Per una descrizione accurata del progetto rimando alla sua restituzione ufficiale, prevista a settembre 2019.
[3] Il fenomeno del Renaissance revival, che utilizza i canoni stilistici europei per rappresentare i temi della storia americana, è alimentato da molti artisti americani che si spostano in Europa per apprendere le modalità rappresentative richieste dai loro committenti. In Italia si stabiliscono, ad esempio, Askers, Bartholomew, e anche Miss Hosmer; e a Roma Rogers incontra spesso Crawford e Ives. La raccolta di contributi Roman Holidays. American Writers and Artists in Nineteenth-Century Italy offre diversi spunti per comprendere il fenomeno del viaggio in Italia degli americani e l’incontro con la cultura italiana.
[4] (Randolph, 1895)
[5] Interessante l’articolo di Paola A. Sensi-Isolani in cui si ripercorre lo stabilirsi in Europa e in America delle maestranze lucchesi specializzate nella lavorazione del gesso. L’autore della biografia di Rogers racconta dell’abitudine del giovane a fermarsi in compagnia di questa colorata comunità italiana, che girava la città vendendo statue e busti in gesso di personaggi della politica, della storia e della mitologia e che a New York si era stabilita nella zona di Cherry Street. Questa singolare produzione decorativa, proveniente da una lunga e documentata tradizione toscana, soddisfaceva le richieste di chi non poteva permettersi l’acquisto di oggetti d’arte pregiati, ma desiderava decorare i propri ambienti con elementi che li richiamavano. Impossibile non notare degli elementi di contatto tra i due indiani di Rogers e molta di questa produzione artigiana.
[6] Divertente la lettera che invia a un amico a Detroit, nella quale racconta la prima mattina a Firenze e quando tenta di ordinare la colazione ma ottiene solo uno spazzolino da denti (Rogers, 1971).
[7] Per una replica di Nydia si andava dagli 800 ai 2.000 dollari, a seconda delle dimensioni (Rogers, 1971, pag. 40)
[8] Sull’argomento – complesso, poco dibattuto in Italia e attualissimo -consiglio la lettura del bellissimo testo di Orietta Rossi Pinelli, Arte di Frontiera. Pittura e identità nazionale nell’Ottocento nord-americano, insostituibile per la scoperta della “pittura nativa americana” e cioè di quel repertorio di immagini della vita e delle imprese degli americani: la quotidianità, la natura potente, la marcia verso l’Ovest e la vittoria sui nativi. E anche Discovered Lands, Invented Pasts: Transforming Visions of the American West (Prown, 1994) in cui si racconta anche la storia di uno dei pochi artisti che prende posizione: George Catlin, artista-documentarista-avvocato dallo spirito di antropologo. Catlin documenta la vita dei nativi americani attraverso la pittura, muovendosi con loro, seguendoli nella natura selvaggia. L’autenticità dell’esperienza e dell’immagine è garantita da Catlin dai certificati numerati che accompagnano le opere.
[9] Per un confronto tra The Last of the Mohicans e The Marble Faun: Fauns and Mohicans: Narratives of Extinction and Hawthorne’s Aesthetic of Modernity (Martin, Person, 2002) e Un museo mobile: la percezione interattiva della memoria in The marble Faun di Nathaniel Hawthorne (Coltrinari, 2016, pp. 209-227)
[10] La storia di questa scultura è la storia di molta scultura dell’Ottocento; nel 1889 viene donata alla Tulane University e scompare dal catalogo delle opere di Rogers, nota solo attraverso fotografie. Infatti, viene riconosciuta solo nel 1976, qualche anno dopo la biografia di Millard Rogers.
[11] Lo Chazen Museum of Art (Madison, WI) possiede il solo Cacciatore; il Frederik Meijer Gardens & Sculpture Park (Grand Rapids, MI), possiede la coppia Cacciatore e Pescatrice donata da Christopher e Charlotte Southwick.
[12] La maggior parte dei clienti di Rogers erano Americani, come testimoniano le schede delle sculture conservate negli Stati Uniti. Potremmo dunque supporre che anche il committente del Cacciatore e della Pescatrice di Bergamo lo fossero, forse americani trasferitisi Roma.
[13] Interessante ricordare che anche il marmo di Carrara utilizzato per moltissimi edifici e sculture viaggiava ed era un materiale molto ricercato Oltreoceano, che nell’Ottocento andavano costruendo le loro città. Da Livorno partono migliaia di tonnellate di marmo grezzo o lavorato, compresa la statua di Washington realizzata da un altro americano trasferitosi in Italia, Greenough (Di Giacomo, 2004, pp. 44-47).
[14] Gyan Prakash ha usato la parola “improprie” riferendosi a quelle storie che gli oggetti -etnografici- di cui il museo si è appropriato possono raccontare, se solo il museo sceglie di farli parlare (Ribaldi, 2005, p. 254)
[15] Italia Europa. Le nuove sfide per l’educazione al patrimonio culturale. Convegno di studi – 20-21 giugno 2019, Roma.
Bibliografia
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Cimoli A. C., Approdi. Musei delle migrazioni in Europa, Clueb, Bologna, 2018.
Coltrinari F., La percezione e comunicazione del patrimonio nel contesto multiculturale, Atti del Convegno finale del progetto di Ateneo “Cross-Cultural Doors. The Perception and comunication of cultural heritage for audience development and rights of citizensship in Europe” (Macerata, Università di Macerata, 4-6 maggio 2016), Eum, Macerata, 2016.
Di Giacomo S., Dall’Atlantico al Mediterraneo: i rapporti commerciali e diplomatici tra gli Stati Uniti e Livorno, 1831-1860, Soveria Mannelli (Calabria), Rubbettino, 2004.
Cavaioli F. J., Randolph Rogers and the Columbus Doors in “Italian Americana”, XVII, 1, 1999, pp. 8-13.
Ginzburg C., Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano, 2000.
Green Fryd V., Randolph Rogers’ Indian Hunter Boy: Allegory of Innocence, in “Elvehjem Museum of Art, University of Wisconsin, Madison, Bulletin / Annual Report”, 1984-1985, pp. 29-35.
Martin R.K., Person L. S., Roman Holidays. American Writers and Artists in Nineteenth-Century Italy, Iowa, University of Iowa Press, 2002.
Millard F. Rogers jr, Randolph Rogers American Sculptor in Rome, Amherst, Mass., the University of Massachusetts Press, 1971.
Randolph Roger’s Ann Arbor Life, in “Ann Arbor Argus”, 19 febbraio 1895.
Ribaldi C., (a cura di) Il nuovo museo. Origini e percorsi vol 1, Il Saggiatore, Milano, 2005.
Rossi Pinelli O., Arte di Frontiera. Pittura e identità nazionale nell’Ottocento nord-americano, Carocci, Roma, 1996.
Sensi-Isolani P., Italian Image Makers in France, England, and the United States in Italian Americans celebrate life, the arts and popular culture, in Selected Essays from the 22nd annual conference of the American Italian Historical Association, a cura di P.A. Sensi-Isolani e J.A. Tamburri, Aiwa, New York, 1990.
Prown J. D., AndersonN. K., Cronon W., Dippie B. W., SandweissM. A., Prendergast Schoelwer S., Lamar H. R., Discovered Lands, Invented Pasts: Transforming Visions of the American West, Yale University Press, Yale, 1994.
Lucia Cecio
Sono una storica dell’arte specializzata in Museologia presso la Sapienza Università di Roma. Ho conseguito il diploma di master in Servizi educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive (Università Cattolica del Sacro Cuore) e la mia principale attività professionale si svolge presso la Fondazione Accademia Carrara, dove sono Responsabile dei Servizi Educativi. Il mio interesse è rivolto al metodo e alle modalità di coinvolgimento dei diversi pubblici, con un’attenzione specifica alle persone con disabilità (non vedenti e sordi).