(1) monumenti commemorativi; (2) chiese e cappelle; (3) fortezze del regime francese; (4) mulini a vento; (5) croci di strada; (6) iscrizioni e targhe commemorative; (7) monumenti religiosi; (8) case e residenze antiche; (9) mobili antichi; (10) “les choses disparues”. Inventario della Historic Monuments Commission del Quebec, 1926.
Il confine tra collezione e feticismo è mediato dalla classificazione e dall’esposizione in conflitto con l’accumulazione e la segretezza.
S. Stewart, On Longing: Narratives of the Miniature, the Gigantic, the Souvenir, the Collection, Baltimore 1984.
Mentre l’economia si fa planetaria, la cultura si frammenta e va in cerca di radici locali: come evitare il pericolo di rinchiudersi entro sterili particolarismi se non mettendo le nostre identità a confronto con altre storie e culture? Ma è possibile rappresentare le diversità?
In effetti una sapiente politica in campo di mostre e musei può costituire – e i testi qui raccolti lo dimostrano egregiamente – straordinarie occasioni di incontro e conoscenza. Soprattutto se si pensa che l’aprirsi a “culture diverse” non comporta necessariamente un viaggio nell’esotismo; magari, basta semplicemente uno scavo archeologico in territori a noi più o meno vicini nel tempo e nello spazio. I primi esempi, ovvi: le culture delle minoranze etniche del nostro paese; la cultura tecnico-scientifica tanto estranea a noi italiani, malati cronici, si dice, di umanesimo; la cultura del paesaggio orecchiata, invece, da noi pagliacci un pò cattivi ma pittoreschi, e non sempre.
In questa prospettiva il lavoro di ordinatori e allestitori acquista fascino, si trasforma in avventura civile, agisce nel presente e si proietta nel futuro prossimo e “remoto”.
Come far sì che il percorso di un’esposizione diventi davvero un viaggio nell’altro da sé? Quali indicazioni possono trarre l’ordinatore e l’allestitore dall’esperienza acquisita nel proprio essere per rendere gli oggetti esposti parlanti al visitatore? E quest’ultimo, come si colloca con la sua cultura? Ma, ancora: che cosa avviene della cultura di una minoranza, o comunque diversa, quando è inglobata nell’ambito egemonico di un grande museo? Quale il rapporto tra la “vocazione universalistica” e il carattere contestuale di ciò che chiamiamo – quasi mai d’accordo sulla definizione – bene culturale?
Questo libro – che nasce da una delle istituzioni museali più prestigiose del mondo, la Smithsonian Institution, in collaborazione con la Fondazione Rockefeller – aggiusta le punterie soprattutto sulle mostre e collezioni di oggetti espressamente “culturali” – come precisa il titolo di uno dei saggi -, dunque di carattere etnografico. Ma gli interrogativi di fondo che esso muove riguardano tutte le forme espositive, siano esse di arte o di cultura materiale, come qui testimoniano le voci di alcuni notissimi storici dell’arte.
Il problema di come rappresentare una cultura diventa dunque emblematico di come rappresentare, in assoluto le cose nel museo; affrontarlo porta alle estreme conseguenze la questione stessa della forma museo, centrandola. Di qui il grande interesse degli interventi e la scelta di inaugurare proprio con questo volume una nuova collana di museologia.
L’incontro/scontro tra culture – l’immagine di copertina del guardiano che non guarda e la carica di sospetto, incredulità, diffidenza, severità, ironia dei “visitors” ne è la più rappresentativa sigla.
Tutti gli oggetti sono portatori di una cultura, ma non hanno voce: chi romperà il silenzio, quale voce prevarrà nell’esposizione? Quella dell’artefice dell’oggetto, quella del curatore, dell’allestitore? Di chi ha predisposto didascalie e cartellini, o quella del visitatore? E la voce connotata con timbro preciso del luogo museo, in che modo interverrà?
Il museo, la mostra non sono entità statiche, bensì una sorta di campo magnetico in cui entrano in gioco, distinti e autonomi, tre elementi: chi produce gli oggetti, chi li espone, chi va a vederli. Di qui scaturisce quel nuovo che – l’esperienza del “campo” psicoanalitico insegna – sempre si produce quando giocano simili interazioni. L’esporre equivale dunque, per tutti gli attori in scena, alla “creazione artistica di una nuova ricettività nei confronti del mondo”; per curatori e allestitori questa stessa esperienza, quando è autentica, si traduce anche nell’acquisizione di nuovo sapere in ambito disciplinare.
Ma il pubblico deve essere informato di tutto quanto – con didascalie, audio, pannelli e cartelli – oppure lasciato libero di godersi la visione degli oggetti che è venuto a guardare? Deve essere guidato a riconoscere, a intercettare le “risonanze”, ossia le “forze culturali complesse e dinamiche da cui l’oggetto è emerso”? O potrà facilmente, spensierato, godersi la meraviglia, il “potere che l’oggetto esposto ha di arrestare l’osservatore sui propri passi comunicandogli un senso di unicità che lo afferra”? Ma quanto sarà spontaneo, poi, questo sentimento di meraviglia, che l’allestitore può suscitare ad arte grazie agli innumerevoli trucchi tecnologici di cui dispone, primo tra tutti la cosiddetta illuminazione da vetrina, “bagno di luce surreale” che avvicina sempre più le nostre teche ai luoghi dell’incanto, dei negozi di lusso, quasi a riconoscere al museo quel ruolo di battitore d’asta, di merce all’incanto, appunto?
L’allestitore e l’ordinatore non possono – o non dovrebbero – mai rivendicare per sé una presunta neutralità d’intenti. Anzi, gli andrà ascritto a merito il dichiararsi esplicitamente di parte, nelle scelte, e l’avere esposto gli oggetti procedendo per contrasti e comparazioni, segnalando al pubblico, anziché pretestuose continuità, nette differenze tra giudizi estetici e contesti. Il che richiede, da parte di entrambi, autoconsapevolezza non da poco.
A questi due temi portanti, che ritornano in vario modo in tutti i saggi, si intrecciano gli interrogativi, i risultati, i dubbi, gli entusiasmi, i ripensamenti, le esperienze, le proposte, le delusioni, le certezze, le riflessioni teoriche e pratiche degli autori. Il museo come modo di vedere; come forma di spettacolo teatrale; come baraccone, circo Barnum del moderno; come strumento di trasmissione di valori e contenuti politici; come saccheggio civilmente istigato a fine di formazione di nuovi malloppi di idee; i luoghi-museo, come Venezia; i musei come “monumenti alla fragilità delle culture, alla decadenza delle grandi istituzioni, al tracollo dei rituali, alla scomparsa dei miti, agli effetti distruttivi delle guerre, della trascuratezza e dei dubbi corrosivi”…
La mostra: luogo sociale di incontro, più ancora che tra oggetti e visitatori, tra i visitatori stessi; forma di narrazione, in cui si riattualizza il passato e si rende presente ciò che normalmente non è tale; occasione rituale, in cui appare magicamente visibile l’invisibile; evento cui il pubblico è chiamato a partecipare collaborando direttamente alla creazione di un significato, un arricchimento in mezzi di scambio sociale.
E poi, la questione del simulacro, del falso come processo positivo, il problema dell’autenticità degli oggetti; i fraintendimenti cui dà origine l’esposizione di oggetti d’uso non concepiti per essere guardati. E come comportarsi quando gli oggetti non bastano? “Avviene spesso, nelle collezioni di materiale antropologico, che un ampio campo del pensiero sia espresso da un singolo oggetto oppure da nessun oggetto perché, magari, quel particolare aspetto della vita consiste soltanto di idee” (Franz Boas, “Some Principles of Museum Administration”, Science 25, giugno 1907).
“Questi dibattiti riguardano il modo in cui vivremo il nostro futuro”, scrivono i curatori del libro. Le immagini dei fenomeni metereologici dal “vero” del satellite ci abituano solo a paradisiache visioni di disneyani colori da beati angelici dell’al di là: quali turbìne giganti, tifoni giranti con maciullamenti di carne e verdura insieme, quale magma satanico mescola la spirale della violenza, da quali pestilenze e massacri, terrori e vandee, dal fallimento della torre di babele a quello dell’esperanto (il museo è visitabile in orario a Budapest, preavvertendo), quali catastrofi immani, dal giurassico e prima, ritardano la crescita di questa umanità infantile? A che titolo parlare di sviluppo, progresso, innovazione?
Proviamo a farlo interrogando le culture nel soggiorno della casa delle muse.
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L’articolo è tratto da Ivan Karp, Steven D. Lavine (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, tr. it. clueb, Bologna 1995, Introduzione, pp. vii-xi.
Si ringrazia Gennaro Postiglione, Mariella Brenna e la casa editrice CLUEB, per averci permesso di pubblicare l’articolo.
In copertina Danzatori aborigeni alle cerimonie inaugurali dei Giochi del Commonwealth, Brisbane, Australia, 1982. Fotografia Eckhard Supp.
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Fredi Drugman (Feurs 1927- Milano 2000). Architetto, docente e saggista a partire dagli anni Sessanta insegna al Politecnico di Milano Composizione Architettonica prima e, tra i pochi in Italia, al corso di Allestimento e Museografia fino al 2000. Dagli anni Settanta dedica alla sua visione del museo letto e interpretato come servizio sociale, museo proiettato all’interno delle molteplici attività del territorio e della città, gran parte delle attività di insegnamento e culturali. Nel ’94 fonda la collana editoriale “MuseoPoli. Luoghi per il sapere” per i tipi della CLUEB di Bologna “ambiente” in cui hanno modo di incontrarsi e di intrecciarsi le questioni legate alla museologia e alla museografia, discipline tra loro strettamente correlate, ma troppo spesso sorde ai continui rimandi che nell’istituzione museale sono richiesti. Una antologia dei suoi scritti sul tema del museo è contenuta nel libro“Fredi Drugman. Lo specchio dei desideri “ a cura di M. Brenna, CLUEB, Bologna, 2010.