Porpora che cammina è una performance di paesaggio, un viaggio a piedi di circa quattro ore per 15 spettatori e spettatrici alla volta. Una figura, umbratile e sfuggente, percorre la città passeggiando, fino a perdersi in un sogno a ritroso nel tempo. Attraverso il suo viaggio il paesaggio si apre e si nasconde agli occhi del pubblico che la segue a distanza, come a spiarla, in bilico tra identificazione e distacco.
Prendendo le mosse da L’Uomo che cammina, l’opera con cui DOM- ha debuttato nel 2015 e proseguito una tournée in diverse città italiane ed internazionali, il collettivo ha invitato Porpora Marcasciano ad essere la protagonista del remake bolognese, e a raccontarsi per le strade della città in cui vive.
Gli spazi si susseguono come in un ininterrotto piano sequenza – una piazza, una stazione, un centro commerciale, una vecchia cava, il letto di un fiume circondato da intricate strutture vegetali, un polo logistico – e si annodano con le istanze di una biografia in lotta, in spostamento continuo.
A partire dalla graphic novel di Jiro Taniguchi DOM- costruisce una drammaturgia di spazi per addentrarsi sempre più profondamente nel groviglio della città, e lasciare che l’esperienza viva del cammino diventi il pretesto per un corpo a corpo con il reale.
Porpora che cammina è andata in scena a giugno 2023 dentro la programmazione di Bologna Portici Festival, e a settembre 2023 all’interno di Danza Urbana. Quella che segue è la drammaturgia originale dello spettacolo.
PROLOGO
(Autostazione. Una stanza in abbandono al primo piano dell’edificio. Il pubblico è seduto di fronte ad una parete vetrata. Attraverso le veneziane impolverate la vista si apre sul grande piazzale sottostante da cui arrivano e partono le corriere. Le voci fuori campo che emergono da un paesaggio musicale sono quelle di Porpora Marcasciano e Nicole De Leo, attrice, attivista e intima amica della protagonista).
PORPORA: Ma guarda che via vai qua sotto! È tutto un andare e venire, flussi continui, corpi che vanno e vengono, che aspettano, vite di passaggio in transito tutte nell’irrequietezza dell’andare.
Quanto abbiamo viaggiato da giovani! Roma, Napoli, Bologna, Parigi, New York, Los Angeles, Nuova Deli, qui e ovunque. L’importante era non stare mai ferme, non solidificare mai niente, trattenere il meno possibile.
In questo momento della mia vita in cui rifletto su tutta una serie di cose, mi continuo a chiedere…
NICOLE (interrompendo): Eh vabbè mo riflette lei! Ma famme o’ piacere va! Sempre impulsiva, tutta una fiamma che brucia, e adesso fa la contemplativa!
P: Com’è possibile che questa città, ma forse tutto il mondo, mi sembri più ostile ora rispetto a 40 anni fa? Quando ancora era tutto da fare, e avevamo appena cominciato?
Quando volevamo vivere come in un sogno. Cos’è invece questa paura che sento, in me, in te, in chiunque? Cosa ne facciamo di questa rabbia? Come facciamo a farla diventare il motore di un ottimismo che ricostruisce dopo aver demolito? E da demolire mi sembra esserci ancora così tanto… Cos’è la lotta oggi? Come si esercita una potenza e non si esercita potere? “Questo essere implicati nelle relazioni di potere alle quali ci opponiamo” ha detto qualcunə. Come lo abito questo mio corpo implicato? “Non sarà con il corpo eroico della modernità, ma con quello ferito dalla violenza fossile, patriarcale e razziale che dovremo fare la prossima rivoluzione…” Come posso…?
N: Amica mia, ti guardo da quassù, in questo portare a spasso i pensieri come farfalle che ti volano intorno, ti ornano i capelli al vento. È il nostro essere scampate al peggio, che ci salva, che ci riempie la testa di dubbi, senza farci mai perdere la gioia di essere vive tra i morti.
I pensieri e i passi ricamano le strade, a volte i dubbi si sciolgono, molto più spesso rimangono inevasi. Talmente tante sono le cose incomprensibili di questo nostro tempo.
Questo ferire, sgualcire, graffiare, violentare. Questo non amare, non amare l’altrə, sia cane, gatto, mucca, siepe, rosa, gelsomino, ape o persona, questo non saper amare mi addolora.
Ma tu cammina per le strade Porpora mia, avanti e indietro nel tempo, aggirati nei tuoi sogni, allaccia i pensieri al corpo, guardati intorno, cammina e ama, ama tutto-tutto-tutto! fino alla fine del giorno, fino alla fine del mondo…
(Durante il testo Porpora è apparsa nel piazzale, come fosse appena scesa da un pullman.
A questo punto il pubblico si alza, esce da una scala si servizio in metallo ed inizia il viaggio a piedi seguendo la protagonista).
DISCORSO DI PORPORA
(Il discorso di Porpora chiude il primo capitolo della performance. Da due casse portatili emerge un paesaggio sonoro con il voice over della protagonista. Il pubblico la segue lungo un parchetto, fino a sedersi nella piazza principale della Fiera District, all’ombra delle imponenti torri disegnate dall’architetto Kenzo Tange. Porpora nel frattempo, di spalle agli spettatori, scrive qualche appunto su un quaderno che ha tirato fuori dalla borsa).
È di pietra il paesaggio
che mi abita in questi giorni: montagne,
stelle, palazzi intonacati, cieli spaccati, allagati.
Neanche un albero. Spiagge
vuote al crepuscolo.
Non so nulla. Cammino
da sola, ai bordi di tutto,
arrabbiata, impaurita, di tutto incerta
con gli occhi aperti in un ruggito.
Imparo pezzi di poesie a memoria per misurare il cammino. Mi riconosco in una passione per il vagabondaggio, l’esodo, lo spostamento continuo, alla ricerca di terre più “mie”, più “nostre”. Da qualche parte allora, mi calmo.
Come diceva Kierkegaard:
«la vita può essere compresa soltanto se ripercorsa all’indietro, ma dobbiamo vivere, andando avanti».
Ho un’anca dolorante.
Mi guardo intorno.
Mi faccio toccare da tutto, a volte da niente.
Lascio che le forme entrino negli occhi,
che colino dentro le cavità oculari.
«Potersi permettere di ignorare le disuguaglianze, nella città in cui si abita, significa prosperare su quelle disuguaglianze».
In questa parte della vita in cui rifletto su tutta una serie di cose,
ancora continuo a ripetermi che è il mondo ad essere sbagliato, non noi.
Da questo ritiro solitario è come se vedessi più chiaramente questo “noi”, o meglio,
questo io articolato attraverso la vita delle altre, che esiste grazie alla vita, alle lotte e alla vicinanza delle altre.
Quando cammino i pensieri si ricamano da soli, si scambiano componenti,
saettano dalle mie ossa fino ai cartelloni pubblicitari, dalle cime dei palazzi alle scritte sui
muri e giù fino ai marciapiedi, si adagiano, poi risalgono dai piedi.
Percorro gli spazi della città a cui non appartengo mai del tutto,
guido solo per arrivare in stazione, passeggio da sola nei boschi,
quando le mie giornate non sono scompaginate.
È una città improbabile, questa, fa pensare a un posto dove si potrebbe andare a zonzo dopo morti.
Metto in circolo la memoria, respiro, un passo dopo l’altro.
Dietro quella finestra lì, in quella casa, nel maggio del ‘77 ci abbiamo dormito in quaranta. Eravamo venute per la manifestazione, e ci sistemammo lì per la notte, uno sopra l’altro. Ovviamente c’era sempre qualcuno pronto con la classica scusa “non ho il sacco a pelo”, così poteva infilarsi nel tuo. Invece questo Hotel era l’hotel delle trans, era tutto un traffico di taxi da qui a via Stalingrado… Se uno era brutto o non mi piaceva non ci andavo, certo che no, non c’era nessuno che mi obbligava. Ma di sicuro all’epoca Bologna era meglio di Roma, più sicura, con una settimana a Bologna ci andavo avanti mesi…
Queste torri si spostano sotto il nostro sguardo, trascinate dalle nuvole.
Le strade e le piazze parlano da sole. Cosa direbbero se potessimo sentirle?
Quali storie scegliamo di raccontare? Quali storie raccontano altre storie?
Mi lascio incorniciare da questi eterni portici, dai volti, dallo spazio che mi precede e da
quello alle mie spalle, il sentire e il pensare non mi appaiono mai così legati come in questo momento.
Ho poche cose, tengo ai miei ricordi, viaggio sgombra.
Mi siedo sui gradini per osservare le minuscole differenze tra ieri e oggi.
Ho sempre detto di non sentirmi né maschio né femmina.
Ma potrei dirlo anche così:
non solo maschio, non solo femmina,
sia l’una che l’altro,
in combinazioni sempre diverse
perché muto mentre mutano i miei desideri,
costole di me stessa soltanto.
Parto sempre dal corpo.
Lo ascolto mentre sono per strada, a letto, sul ciglio del giorno, da dentro le lotte e
quando sono nei guai.
Il mio corpo è la mia festa.
È dal corpo oppresso che sorridiamo,
è su questo corpo che piangiamo, sanguiniamo, amiamo, godiamo.
La nostra storia disforica preferisco definirla euforica.
(canticchiando) Amore, amore, fammi venire con la rivoluzione!
E come filo conduttore, innervato sotto la pelle, il vuoto di quello che non siamo riuscite a
fare: la Rivoluzione, la luce del futuro che non cessa un solo istante di ferirci.
«Oggi la Rivoluzione non basta più, come non è mai bastata. Ci vuole, ci vorrebbe, un’insurrezione di specie, una metamorfosi di specie».
Vento che scombina i capelli. Fronte sudata, luce del sole, fiumi, autostrade.
Non so più dove vado.
La vita può essere compresa soltanto se ripercorsa all’indietro, ma noi dobbiamo vivere,
andando avanti. La vita che da sempre sogniamo va inventata, messa in pratica.
Camminare, passeggiare. Non so quale delle due parole preferisco.
Camminare e scrivere, vivere e scrivere.
Vivere, vivere, vivere.
Se non le scrivo, le cose non sono arrivate fino al loro termine, sono state soltanto vissute.
Imparo pezzi di poesie a memoria, li riassemblo per misurare il cammino, qui e ovunque.
Provo a ripetere A Litany for Survival, dell’amata Audrey Lorde:
Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri
Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura anche del latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo
E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo
FIABA
(Alla fine del terzo capitolo il pubblico sta seguendo un sentiero acciottolato lungo il fiume Reno. Nel frattempo è scesa la notte. Un manipolo di apicoltori/astronauti scorta le spettatrici e gli spettatori, trasmettendo il paesaggio sonoro e il testo attraverso un sistema di casse portatili. Le voci che raccontano la fiaba sono quelle di Porpora trentenne e di Porpora bambin*, rispettivamente protagonist* del secondo e del terzo capitolo, all’interno di questo immaginario viaggio nel tempo).
Questa è la storia di una gara tra la rana e il coyote. Un pomeriggio d’estate una rana si trovava a percorrere un terreno brullo intorno a un fiume. Le mosche le ronzavano intorno alla testa. Il sole splendeva e sull’altra sponda del torrente un coyote passeggiava. Ad un certo punto i due si incontrarono e si intrattennero brevemente per fare quattro chiacchiere. Si capiva subito che il coyote voleva fare bella mostra di sé. Sfidò la rana in una gara di velocità.
“Chi perde deve dare i propri occhi all’altro”.
La rana accettò. “Che coyote pazzo”, pensò tra sé e sé.
Il coyote disse: “Credi di potercela fare, tu che riesci a saltare solo fino a qui con la tua pancia grossa?”
La rana disse si.
“Non puoi battermi” le disse il coyote.
“Perché no? Penso di poterti battere!” disse la rana, e aggiunse: “Facciamo domattina al
sorgere del sole, quando l’aria è frizzante e la terra è fresca di rugiada.”
In effetti faceva piuttosto caldo in quel momento, pensò il coyote.
Si misero d’accordo sul percorso e si salutarono.
La rana allora andò a chiamare le sue amiche rane che si radunarono introno ai giunchi, e raccontò loro tutto, non nascondendo le sue preoccupazioni. C’erano molte rane, nessuno sa quante rane ci fossero. Il coyote invece, come si sa, era un tipo solitario: si coricò e si addormentò fiducioso. Le rane continuarono a discutere anche dopo il tramonto ed escogitarono un piano: si sarebbero nascoste lungo tutto il percorso, tra i sassi, i cespugli e gli arbusti dei salici, a una distanza l’una dall’altra pari a quella che si sarebbe potuta coprire con un salto. “Da qui salterò io, poi tu, poi tu, poi tu…” Alla fine dell’assemblea le rane, fiduciose, si divisero e andarono a dormire, ognuna nel proprio nascondiglio, gracidando a bassa voce per tutta la notte.
Alla prima luce del giorno ecco la rana ed il coyote fronteggiarsi e lanciarsi occhiate di sfida.
Il coyote fece una danza intorno alla rana: “vincerò, lo sai!”, così si vantava.
La rana sbattè i suoi grandi occhi: “forse si, forse no…”, sorrise.
“Smettila di temporeggiare!” si lamentò il coyote, “sono pronto.”
Insieme contarono… “1,2,3…” e poi scattarono.
Il coyote sfrecciava in avanti, procedeva spedito, la rana saltellava. Ma il coyote non sapeva che c’erano molte rane, non era a conoscenza del trucco. Le rane si alternarono così durante tutto il percorso, aspettando e scambiandosi segretamente di posto al momento giusto.
Intorno alla metà del tragitto il coyote, che era in testa, si fermò un istante per riposare, si girò, e vide sopraggiungere la rana: “Come mai non è stanca?” pensò tra sé e sé. La rana in effetti non respirava nemmeno a fatica. Il coyote riprese la corsa e superò velocemente le piante di lupini in fiore, sfrecciò oltre il boschetto di pioppi tremuli, correndo verso il traguardo. Ma dovette fermarsi di nuovo dopo qualche minuto, con la lingua di fuori. La rana lo raggiunse, mantenendo il suo ritmo serafico. “Non ha versato neanche una goccia di sudore!” pensò il coyote, e con il poco fiato che gli rimaneva in gola gridò: “Rana, vincerò!”
Sentiva il gracidare della rana ma non riusciva a vederla, “è dietro di me, potrebbe essere davanti…” non riusciva a capirlo. Con le sue ultime energie il coyote raggiunse la fine del percorso e tagliò il traguardo, ma povero coyote… la rana era lì che riposava all’ombra di un tronco caduto. Il coyote con il sudore che gli colava sulla faccia, crollò a terra davanti alla rana, ansimò e tossì per qualche minuto, scuotendo la testa avanti e indietro. Poi riprese fiato:
“Impossibile!” urlò, guardando furiosamente la rana. Si tolse gli occhi e glieli consegò.
“Aspetta e vedrai, un giorno gareggerò di nuovo con te e mi riprenderò gli occhi.”
La storia finisce così.
Il coyote si allontanò, e le rane uscirono dai loro nascondigli per festeggiare.
Crediti
PORPORA CHE CAMMINA
progetto di DOM- drammaturgia degli spazi e regia Leonardo Delogu, Valerio Sirna
con Porpora Marcasciano e con Francesca Antonino, Teo Antonino Rosa, Ester Ceccaroli, Leonardo Delogu, Giorgia Ferrari, Giovanni Marocco, Bianca Porrazzini, Riccardo Rosa, Ozge Sahin, Valerio Sirna, Viviana Venga con la partecipazione di Nicole De Leo e di Antonia Iaia
fotografie di Lina Pallotta
ricami urbani Ozge Sahin
supporto tecnico Giovanni Marocco / Morning Wood
riferimenti per la composizion dei testi Porpora Marcasciano, Audrey Lorde, Ursula K. Le Guin, John Berger, Annie Ernaux, Antonio Moresco, Laurie Anderson, Paul B. Preciado, Pier Paolo Pasolini, Angela Davis, Kae Tempest, Shoshoni Language Project – University of Utah
organizzazione This is Acqua
produzione Danza Urbana ETS, nell’ambito di Bod/y-z Bologna Dance/Y&Z generations
co-produzione 4realtrue2/DOM-, Tir Danza, Sardegna Teatro.
Un rigraziamento speciale a Archivi OUT-TAKES_Gli archivi del sé – Archivio audiovisivo
Lgbtqi, Girovelle Psicotroniche, Marco
DOM– è un progetto di ricerca nato nel 2013 dalla collaborazione tra gli artisti Leonardo Delogu e Valerio Sirna. Nel corso degli anni altr* artist* hanno allargato e trasformato la conformazione del collettivo a seconda del progetto: Hélène Gautier, Mael Veisse, Arianna Lodeserto. DOM- indaga il linguaggio delle arti performative, contaminandolo con l’approccio militante delle Environmental Humanities e con le istanze e gli immaginari delle ecologie femministe e queer. La ricerca ruota attorno al rapporto tra corpi e territori, investigando il nodo della permeabilità e osservando come potere, natura, cultura e marginalità interagiscono nello spazio pubblico.
Sperimentando la tensione tra permanenza e attraversamento, tra stanzialità e nomadismo, DOM- si occupa della creazione di peculiari pratiche di abitazione, legate allo spazio e al tempo della produzione artistica.
DOM- costruisce opere performative, camminate, giardini, trasmissioni radiofoniche, film, workshop, dj-set e feste.