Questo articolo si compone in tre parti, che è possibile leggere anche separatamente. La prima parte è un retroscena sul cambio di paradigma nel teatro ecologico che ha inaugurato e successivamente delineato una scena del disturbo. La seconda parte è dedicata alla definizione e caratterizzazione del performance bug, il disturbo animale nella performance. La terza parte introduce l’indagine, ancora aperta, sullo scenario mostruoso che emerge dall’impurità costitutiva della scena del disturbo: l’animalfuturismo.
Scena ecologista e scena del disturbo
Il teatro ecologico, che dalla metà degli anni ’90 supera la messa a tema della questione ecologica iniziando a concentrarsi sulla problematizzazione dei linguaggi scenici [1], ha come obiettivo la ridistribuzione delle regie verso sguardi e scritture non solamente umani (Chaudhuri, 1994). Diverse studiose contribuiscono a questa sistematizzazione. Erika Munk, ad esempio, scrive che è necessaria una valorizzazione di un campo vastissimo di «storie da riscrivere, stili da ridiscutere, contesti da percepire nuovamente» (Munk, 1994) grazie alle possibilità offerte da nuovi linguaggi scenici. Se il teatro, continua l’autrice, «ha sempre svolto la funzione di luogo di dibattito dove negoziare e generare relazioni con il proprio ambiente (selvatico, coltivato, industrializzato, virtuale)» (Ibidem), allora è anche il contesto elettivo in cui ridiscutere continuamente questi rapporti, non solo umani. Anche Theresa May sostiene che, per “inverdire il teatro” [greening the theater] dalle origini umaniste che lo hanno reso necessariamente “anti-ecologico”, occorre una reinterpretazione non tanto delle tematiche implicate, quanto dei processi, delle posture e dei modi di fare e pensare ecocriticamente la scena stessa (May, 2005), intesa come campo allargato del reale. Questo punto, ripreso anche oggi dalla critica alter-istituzionale del settore [2], pone le pratiche davanti alle teorie e i corpi davanti alle rappresentazioni che se ne fanno, partendo dal presupposto che un intervento sostanziale per porre fine al collasso ecologico in atto è possibile solo pensando attraverso altri linguaggi e altre rappresentazioni, che espongano nuovi modi di coabitare il tessuto terrestre.
Queste riflessioni di ecocritica teatrale si espandono presto fino a coinvolgere l’intera scena teatrale, dove l’ecologia, da questione narrata, argomentata o evocata, diventa il metodo di ricerca e di composizione scenica. Il non-umano, non più superficie di iscrizione ma soggetto di scrittura, inizia a occupare un ruolo sempre più rilevante sulla scena. Tuttavia, senza considerare direttamente la questione animale, la scena ecologica fatica a confrontarsi con le dinamiche, le logiche e i processi instabili che si verificano all’interno delle pratiche performative multispecie, dove, a differenza dell’agentività di piante, rocce e agenti atmosferici, gli animali possono sempre scegliere se accogliere il formato in cui sono inseriti o, al contrario, opporre resistenza. L’attenzione alla compresenza umano-animale sulla scena performativa viene permeata da una prospettiva politica capace di integrare, cioè, non solo orizzonti di pensiero e d’azione, ma anche altri livelli di potere in gioco.
A questo proposito, Una Chaudhuri sostiene che storicamente la relazione tra scena teatrale e pensiero antropocentrista ha influenzato le convinzioni e l’interpretazione dello spettatore riguardo all’ambiente e alle risorse estraibili (Chaudhuri, 1994). In particolare, è evidente nell’interazione che lo spettacolo occidentale intrattiene, fin dalle sue origini, con l’animalità, in una relazione che condurrà a differenti utilizzi di corpi animali nel corso dei secoli (Orozco, 2013). Dalle origini greche del teatro, che vedono l’abbandono dell’altare del rito nel gesto di rimozione del cadavere di un capro appena sacrificato, l’animale rientra, da un ingresso di lato, sul palcoscenico inedito della rappresentazione. Come modello impersonato da soggetti umani, come forza lavoro, come simbolo, metafora e poi come co-attore, l’animale viene riammesso sulla scena in un’ottica di sussunzione, come mezzo per raggiungere un generale obiettivo, materiale o immateriale, letterale o concettuale.
Questi diversi utilizzi, influenzati e discussi nel corso dei secoli dalle riflessioni provenienti da altri campi culturali e politici, dimostrano come l’animale si ponga fin da subito come un elemento non pacificante all’interno del formato rappresentativo della scena teatrale. In particolare, se si osserva il ruolo dell’animale sulla scena negli ultimi cinquant’anni, è evidente come la performance teatrale sia entrata in una fase caratterizzata da una presenza animale che, a livello letterale o tematico, esorbita sulla scena (Orozco, 2013), portando alla formazione di un filone di critica antispecista alla scena animale, coerentemente con lo sviluppo di una nuova coscienza ecologista e con i movimenti delle lotte degli anni ’70, mossi anche da e nella performance. Da un lato, sono infatti in aumento riflessioni e lavori di matrice animalista sulla relazione tra umano e animale fondati sul benessere di quest’ultimo sulla scena artistica (lavori che convergono, addirittura, nella questione se sia o meno appropriato presenziarlo sulla scena). Dal lato più politico, invece, si sostiene che la presenza del soggetto animale sulla scena turbi in modo sempre nuovo proprio il sistema in cui è inserito e che, per questo motivo, necessiti di essere riproposta e valorizzata.
Performance bug
L’oggetto di questa ricerca prende forma dal potenziale punto cieco rivelato da questi due approcci alla performance multispecie, attraverso la prospettiva politica del “disturbo animale” o performance bug (Masini, 2024). Il focus è qui sulle forme di coabitazione multispecie nella scena performativa contemporanea che contraddicono e rendono complesso, perturbandolo, un assetto antropocentrico: forme di compresenza che si vorrebbero confezionate in un utopico ideale vitalista, quando la coabitazione è inserita più spesso, invece, in dinamiche di potere e processi di resistenza che la studiosa antispecista Bénédicte Boisseron chiama movimenti di “divenire-contro” (Boisseron, 2018). Rispetto alle riflessioni che promuovono la gestione della crisi ecologica attraverso pratiche di crescita del welfare (che rischiano, da un lato, di centralizzare il benessere sul soggetto umano e, dall’altro, di estinguere i conflitti all’interno di una retorica di “convivenza felice”) la prospettiva del disturbo animale valorizza il carattere perturbante di queste presenze che, da superfici di iscrizione trasparenti, diventano non tanto soggetti di scrittura, quanto ingressi imprevedibili, disallineati, scomodi. In quest’ottica, la presenza animale subisce una risignificazione anche sul piano della corporeità. Infatti, in quanto termine performativo, con disturbo animale non ci si riferisce solo alla materialità del soggetto in questione, ma anche ai suoi slanci transcorporei, traducibili in messe in forma, passaggi e modalità porosi e molteplici, capaci di inserirsi come errori di sistema nell’impianto rappresentativo della performance a partire da un atteggiamento resistente che Sarat Colling definisce “despazializzazione animale” [3] (Colling, 2020).
Così inteso, il performance bug diventa un vero e proprio concetto di contronarrazione: non ospita forme riconoscibili e identificabili, ma «ecosistemi instabili nei quali è impossibile attribuire definitivamente una funzione esclusiva a un singolo elemento» (Braga, 2023): luoghi, tempi e identità finiscono out of joint, rivelando il potenziale de/generativo della coabitazione, quando esposta nella sua costitutiva impurità. Questa condizione mostruosa – sia chiaro – non è determinata dal fatto che la linea di confine tra realtà e rappresentazione si faccia più permeabile (questo è già un dato di fatto dall’ingresso dell’animale a teatro), ma piuttosto dalla messa a nudo delle dinamiche di potere che regolano la scena multispecie (e, per estensione, della società), perturbando il regime antropocentrico dell’impianto rappresentativo. Storicamente, infatti, le performance che implicano la compresenza di attori umani e animali sono infatti uno spazio in cui è facile scivolare nell’essenzialismo di un’animalità originaria: un atteggiamento che, però, rischia di perpetuare un utilizzo dei corpi che raramente mette in crisi la rappresentazione, e più spesso replica le condizioni e le modalità del rapporto tra umano e animale già esistenti nella società occidentale. Risignificando il termine “infestazione”, solitamente attribuito all’attraversamento indesiderato di insetti e altri animalizzati, in ottica di “spettralità animale” (Shukin, 2009), questa proposta indaga le traiettorie dei disturbi animali come orizzonti di resistenza, rileggendo le immagini prodotte in scena alla luce di una lente che valorizzi le impurità come dispositivi di hackeraggio di un sistema umanista. Il bug prefigura infatti uno stare insieme complesso e contraddittorio, dove le forme rappresentazionali non sono più strumenti di lettura analitica, ma sguardi critici su un panorama dei rapporti intrecciato e poroso.
Dalla scoperta di una falena fulminata nei circuiti di un computer nel 1947 (Danis, 1997), che darà il nome di “bug”, appunto, a un ingresso non umano indesiderato all’interno di un linguaggio codificato umanista, il disturbo animale si evolve nella scena come elemento di rottura. Il performance bug è il pipistrello che entra e svolazza, inaspettato sia dal pubblico che dalla regia, nella sala oscurata durante il secondo atto di Giulio Cesare (1997) della Socìetas Raffaello Sanzio [4], perturbando e risignificando la scena in cui il senatore è appena stato ucciso e tutto sul palcoscenico è andato a fuoco. Il bug è Annamaria Ajmone, quando, durante la residenza nei boschi svizzeri in preparazione dello spettacolo La notte è il mio giorno preferito (2019), si cimenta in un gesto non umano, ossia il tracciamento ex novo delle orme di lupo, e, così facendo, diventa il soggetto animale scomodo, l’ospite inatteso in un luogo “purificato” dalla sua rappresentazione, risignificando, così, tanto il concetto di soggetto animale quanto quello di luogo antropizzato.
Inserito intenzionalmente dal regista o ingresso inaspettato, l’animale disturbante è un orizzonte più-che-umano di resistenza sagittale alla purezza della rappresentazione. Questo transito fantasmatico attraversa i corpi e tramite essi si manifesta, nel ricostituirsi sottotraccia di una presenza andata perduta. Così come gli atti di resistenza animale quotidiana agiscono come fiumi carsici, lontano dai riflettori dell’informazione pubblica, il performance bug si muove e infesta la scena secondo le caratteristiche primarie dell’insetto e del fantasma: l’impercettibilità, l’invisibilità, la vibrazione, il suono cacofonico.
Bestie impure: verso un animalfuturismo
Nel contesto instabile e disomogeneo della scena del disturbo non esiste un centro vitruviano a cui fare riferimento o a cui tornare, ma continue zone di vicinanza, luoghi di nessuno che rendono instabile la propria “posizione nel branco” [5]. La mostruosità che emerge da questo scenario complesso, stratificato e macchiato di un altro indefinibile e contaminato a sua volta – un caos che James Clifford individua come una perdita dell’autenticità e di un’arida purezza umana (Clifford, 2010) – porta con sé però anche la possibilità di un’indefinita ricomponibilità di questi oggetti culturali (Clifford, 2010) in strutture dotate di nuovo senso. Le performance come ambienti caotici, dove le maschere umane si confondono con la pelle animale, aprono un immaginario in cui il riconoscimento di una bestialità costitutiva dell’anthropos – assunto come forza geologica e mai come entità (Chakrabarty, 2018) [6] – diventa il dispositivo di hackeraggio di un sistema essenzialista e preordinato dei viventi, verso l’immaginario di un nuovo futuro animale. Come scrive Stacy Alaimo, l’anthropos è infatti un movimento caotico di forze transcorporee (Alaimo, 2022), di cui è difficile non solo identificare un principale e originale motore, ma anche individuarne la direzione e quantificarne l’impatto, che, il più delle volte, agisce contemporaneamente su più fronti e attraverso molteplici soggettività.
Con un approccio animalfuturista alla rappresentazione, le opere che affrontano la questione della coabitazione cominciano a parlare un linguaggio più caotico e di non immediata comprensione, veicolando messaggi inediti sull’abitabilità, la responsabilità, e la complessità delle relazioni situate e invischiate nelle dinamiche storiche, in netta opposizione alla retorica della convivenza “felice” tra gli esseri e le specie terrestri. I soggetti, gli eventi, le relazioni e le forme di convivenza che queste performance portano in superficie, invece, difficilmente sono così trasparenti, e le loro rappresentazioni apparentemente innocue sono in realtà maschere per nascondere una costitutiva impurità mostruosa. A partire da questa panoramica, diventa necessario, allora, promuovere un luogo terzo per osservare gli oggetti e provare a conoscerli non tanto come strutture nucleari, ma piuttosto come ramificazioni [7].
C’è un caso centrale per introdurre la struttura plurale di questa teoria. Si tratta di Untitled (Human Mask) (2014), un lavoro audiovisivo di Pierre Huyghe in cui la mostruosità dell’umanizzazione emerge sulla scena in maniera prepotente, creando un cortocircuito nell’ideale di convivenza conciliante per cui ogni soggetto ricopre un ruolo predefinito all’interno dell’ecosistema e della società. Una divisione di specie definita e inalterabile con cui la società antropocentrica avvia continuamente un gioco perverso di rimandi, specchi o inclusioni/esclusioni di funzioni tramite maschere e rappresentazioni che sfidano la purezza delle identità. Prodotti culturali come quello di Huyghe si appropriano di questa influenza, rivelando i punti ciechi dove performare l’altro (umanizzare l’animale) nasconde contraddizioni e complessità che emergono dallo stesso substrato dell’animalizzazione.
Realizzato nel paesaggio post-apocalittico di una cittadina giapponese desertificata in seguito al disastro di Fukushima, Human Mask registra il vagare inquieto di una scimmia vestita da cameriera, che, in un accavallarsi di istinti e memorie, si muove all’interno delle stanze abbandonate di un ristorante molto simile a quello in cui “lavorava” proprio nel ruolo di inserviente, sotto il nome di Fukuchan Monkey (Teixeira Pinto, 2015). La maschera umana ma spersonalizzata che indossa (intagliata secondo la tradizione del teatro Nō) contribuisce ulteriormente a perturbare le sembianze di questa scimmia/cameriera a metà, mentre reitera gesti e produce reazioni all’ambiente che sono in qualche modo umani, codificati dentro le originarie mansioni lavorative. Slegate dal contesto del ristorante in cui lavorava a Tokyo e inserite in un ambiente privo di una connotazione stabile e sicura, quelle azioni appaiono dissonanti e qualcosa non funziona più: la rappresentazione che la scimmia cerca di mettere in scena fa cortocircuito, e questo confine traballante tra definizione e sospensione comincia a generare in lei una profonda inquietudine, facilmente trasmissibile in chi nello schermo non vi è immerso, ma lo sta guardando. Fukuchan diventa angosciata, il suo passo si fa insicuro e il suo equilibrio precario: corre tra i tavoli, si presenta in cucina per prelevare i piatti da servire, non trovandoli al loro posto. Apre il frigorifero, ma anche quello è vuoto. Le pupille, che si intravedono dalla maschera che indossa, oscillano nervose da un punto all’altro del ristorante, senza trovare via di fuga da quel luogo o da quella identità. Inserita in un sistema di maschere, Fukuchan impazzisce perché si specchia, per la prima volta, davanti all’immagine distorta della sua rappresentazione.
Secondo Ana Teixeira Pinto, gli esseri umani non smettono mai di riconfigurare fra di loro le proprie società e le proprie identità, secondo una linea intrecciata di fenomeni storici e narrazioni, mentre gli animali sarebbero soggetti privi di una dimensione storica (Teixeira Pinto, 2015). Questa asincronia spazio-temporale di coloro che, più che inconsapevoli della storia, sono coloro di cui la storia non tiene conto [8], se interpretata in ottica liberazionista permette di ribaltare la prospettiva critica sulle rappresentazioni compromesse dal bug, individuando nel disturbo del sistema il margine che svela la reale funzione dell’ideale di una pacifica convivenza: rendere innocue le infiltrazioni mostruose che sono già tra noi e in noi, e che i conflitti lasciano emergere e allargarsi al di là dei contesti specifici, in direzione di un orizzonte collettivo che minerebbe le categorie di “umano” e “animale” e i risvolti sociali, politici ed economici di questa divisione.
Il lavoro di Pierre Huyghe è importante anche in questo senso, dal momento che incarna il passaggio dagli insegnamenti retorici su come coabitare nella rappresentazione attraverso la neutralizzazione di qualsiasi dinamica di potere, all’indagine su come abitare insieme la rappresentazione nel bel mezzo di questi squilibri e conflitti, che sono a loro volta storicamente e geograficamente situati e intrecciati a molteplici lotte e operazioni di resistenza. In Human Mask, infatti, si stratificano una serie di criticità anche sul versante della strumentalizzazione specista, dal momento che il corpo di un animale è coinvolto letteralmente sulla scena. In un’operazione metateatrale, l’opera apre una riflessione sul rischio, prima di tutto suo, di replicare o allungare le modalità antropocentriche, se non le condizioni specifiche, del rapporto coercitivo che l’uomo intrattiene con gli animali e altri animalizzati all’interno della società occidentale, anche quando attraverso un formato artistico. Se stare nella complessità è, però, l’imperativo delle bestie impure, allora lo è anche per quanto riguarda la compresenza dei corpi [9], le forme di cura nella collaborazione, le pratiche di consenso e di responsabilità. La mostruosità della coabitazione emerge anche dall’impossibilità di controllare quella scena e le sue traiettorie future, affidate allo spettatore.
Lasciare emergere le impurità delle storie è la maniera più concreta di liberarle da una discorsività compiuta e desueta, presentandole come scenari indeterminati dove i soggetti e i saperi non stanno fermi, chiusi all’interno di una roccaforte, ma si riconfigurano continuamente attraverso assemblaggi invischiati. L’estetica, intesa come campo politico del sapere sensibile – e quindi anche animale –, può così farsi spazio di ripresa e affermazione territoriale all’interno di una società della rappresentazione in continuo mutamento, in cui lotte inaspettate, strumenti di resistenza e pratiche di cura incarnata possano liberare dall’essenzialismo di una visione antropizzata e purificata dell’identità. L’identità instabile del mostro si definisce per connessioni, e la sua valorizzazione permetterebbe a grammatiche, linguaggi e sistemi di traduzione più-che-umani di trovare spazio per affermarsi come alternativa possibile alla logica antropocentrica, che riduce la differenza a una diversa autenticità, quando la differenza non ha proprio in un’identità “piena” il suo principio (Timeto, 2018).
Questo ripensamento della convivenza secondo una lente bestiale e impura ha portato alla sistematizzazione dell’animalfuturismo (Masini, 2024). Inteso come lo scenario che emerge dalla presa di consapevolezza della mostruosità costitutiva della coabitazione, l’animalfuturismo propone una linea di pensiero anti-egemonica di resistenza alla purezza degli enti e dei sistemi che li accolgono, valorizzando riscritture caotiche di rappresentazioni animali che invertono le pratiche di umanizzazione esistenti, offrendo uno sguardo inedito sulla coabitazione interspecie.
Risignificando narrazioni animali alla luce della scena del disturbo, l’animalfuturismo si fonda allora come un orizzonte più-che-umano di forme e relazioni lanciate in una futurità che Octavia Butler ha chiamato “afro” (Butler, 2016) [10], José Esteban Muñoz chiamava “queer” (Muñoz, 2009), e qui si sceglie di chiamare animale.
Note
[1] Questo anche grazie alla svolta postumana del decennio precedente.
[2] Si veda, ad esempio, il lavoro dell’Institute of Radical Imagination (IRI), e in particolare il testo Art for Radical Ecologies (manifesto), edito da Bruno a Venezia nel 2024.
[3] Con il termine “despazializzazione” Colling si riferisce all’atto di violazione delle norme spaziali del settore zootecnico e dell’ambiente urbano che disciplina i movimenti animali.
[4] Romeo Castellucci, da un’intervista rilasciata alla sottoscritta in data 13 giugno 2024.
[5] Definizione tratta dalla voce “Desiderio” in Abecedario (2004), video-intervista a Gilles Deleuze di Claire Parnet con regia di Pierre-André Boutang.
[6] Il concetto di “forza geologica” si riferisce qui alla definizione di Dipesh Chakrabarty; più precisamente, lo storico differenzia i termini “forza” e “potere”, trattandoli rispettivamente come riferiti alla storia “naturale” e a quella “sociale”, senza tuttavia che questa distinzione risulti fissa e arbitraria (si veda, ad esempio, l’utilizzo del termine “potere” da parte di Foucault).
[7] Lungi dal dichiarare la possibilità di uno sguardo neutrale all’interno di un contesto di identità personalmente e storicamente posizionate, con il termine “neutrale” intendo uno sguardo capace di osservare tutti i meccanismi in atto senza interpretarli sotto una patina più o meno levigata giusto/sbagliato, consentito/non consentito, ma per quello che sono: la struttura sottostante a un sistema di modellazione di maschere umane.
[8] In Le promesse dei mostri Donna Haraway definisce “inappropriabili” quelle entità singolari o collettive a cui la storia ha negato l’illusione strategica dell’autoidentità.
[9] Una compresenza, nel caso di Human Mask, mai visibile direttamente, ma facilmente intuibile nel momento in cui c’è una videocamera aperta che riprende la scimmia, seguendola nei suoi spostamenti all’interno del ristorante abbandonato.
[10] Originariamente pubblicato sulla rivista «Transmission» nel 1980, pp. 16-18.
Crediti fotografici immagine in copertina: Sonia Bellinaso
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Teresa Masini si occupa di epistemologie della performance da una prospettiva animale. È Dottoranda di ricerca in Teatro e Arti Performative, in attesa di discutere una tesi dedicata ai bug nella performance multispecie. È membro fondatore dell’Unità di ricerca PerLa – Performance Epistemologies Lab, e scrive cadenzialmente per “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”.