Per colpa di un disegno il viaggio in Italia di Goethe avrebbe potuto interrompersi molto molto presto. Nei suoi primi giorni nella penisola, nel settembre del 1786, sulla strada dal Brennero a Venezia, lo scrittore tedesco aveva fatto tappa a Malcesine, sul lago di Garda (tutt’ora una targa e un busto ricordano il suo passaggio): qui aveva tirato fuori fogli e matita e, seduto sui gradini di una casa, si era messo a disegnare le rovine del locale castello. Disegnare in pubblico è sempre un’attività delicata, e anche allora era abbastanza insolita da attirare l’attenzione dei paesani. Uno in particolare, insospettito da quello strano comportamento, si era avvicinato a Goethe, gli aveva detto qualcosa in dialetto e visto che lui non capiva aveva preso e, “con flemma tutta italiana” [1], strappato il foglio su cui Goethe stava disegnando. Poco dopo, il podestà del paese arrivò a interrogare il viaggiatore. Goethe non si era reso conto che Malcesine si trovava allora al confine tra la Repubblica di Venezia e l’Impero di Austria-Ungheria. Insospettiti da quello straniero che disegnava il loro castello, gli abitanti lo avevano scambiato per una spia. Goethe se la cavò improvvisando un discorso in cui lodava le rovine del vecchio castello, degne di essere ritratte al pari di quelle di Roma, e soprattutto spiegando di essere anche lui cittadino di una repubblica (la Città libera di Francoforte sul Meno).
Quando ho letto questo episodio per la prima volta, qualche anno fa, qualcosa è scattato dentro di me, dato che anche io sono un disegnatore. Stavo già lavorando a un fumetto sul tema del viaggio in Italia, ma pensavo di raccontare i miei viaggi in Italia: leggevo Goethe solo per cercare ispirazione per eventuali epigrafi. Da qui invece è partito un lavoro di ricerca che provo in parte a sintetizzare qui. Ho letto i diari, le lettere, i quaderni degli artisti che nel corso dei secoli hanno viaggiato in Italia – tutti sono passati dall’Italia – scoprendo una miniera di storie meravigliose. Ma è soprattutto lo sguardo con cui gli artisti vedevano L’Italia che mi ha affascinato. Per chi la attraversava, l’Italia era contemporaneamente rinascita e morte, Paradiso ed esilio, Arcadia e terra selvaggia.
In tutti questi viaggi, il disegno aveva un ruolo fondamentale, e non solo per i pittori. Nonostante l’episodio di Malcesine, Goethe proseguì la sua attività da disegnatore dilettante anche durante il suo soggiorno a Roma, lanciandosi in una serie di gite nelle ville dei dintorni, “armato dei miei foglietti da disegno” [2]. Durante il suo soggiorno romano frequentò gli artisti tedeschi che allora si trovavano in città. Il suo coinquilino nella casa di via del Corso era Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, l’autore del celebre ritratto Goethe nella campagna romana, mentre la pittrice Angelika Kauffmann fu una delle sue amicizie più strette. Ma le stampe e i calchi di statue antiche che raccoglieva in casa sembravano non bastargli mai. Dopo una visita alla Cappella Sistina scrisse: “Ci fosse soltanto il modo di fissarsi bene nell’anima simili immagini! È certo, almeno, che porterò meco tutto quanto potrò assicurarmi in fatto di disegni e rami della sua [di Michelangelo] opera” [3].
Più avanti nel corso del suo viaggio, a Caserta, Goethe prese anche lezioni di disegno dal connazionale Jakob Philip Hackert, pittore alla corte di re Ferdinando IV di Borbone. Ma non si mise il cuore in pace finché a Napoli non incontrò e “assunse” Christoph Heinrich Kniep, un giovane disegnatore tedesco. Una gita insieme a Paestum suggellò il loro patto: “D’ora in poi vivremo e viaggeremo insieme, ed egli non s’occuperà d’altro che di disegnare”[4]. Kniep lo accompagnò disegnando durante tutto il viaggio in Sicilia, nella primavera del 1787.
Tuttavia il caso di Goethe è particolare. Lo scrittore tedesco intraprese il suo viaggio in Italia da adulto, a 38 anni, quando era già uno scrittore famoso in tutta Europa (e per questo motivo viaggiava in incognito!). Aveva quindi la possibilità economica di circondarsi di incisioni, statue e souvenir di ogni genere, ma soprattutto era consapevole dell’importanza del suo viaggio in Italia, più volte descritto come una seconda nascita. Il viaggio era stato preparato e desiderato fin dalla giovinezza, fin quasi a divenire una malattia. Una “follia” alimentata anche dalla quantità di libri di viaggio e immagini dell’Italia – stampe e incisioni – che già circolavano in abbondanza nel ‘700. Così, finalmente arrivato a Roma il primo novembre 1786, Goethe scrisse:
Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me. [5]
Per capire quanto potere potessero avere queste immagini dell’Italia sull’inconscio dei giovani europei possiamo chiamare in causa Sigmund Freud in persona. Ne L’interpretazione dei sogni Freud propone come esempio di sogno ricorrente un suo personale sogno: vedere Roma. Come Goethe, anche lui riuscì a realizzare il suo desiderio solo da adulto, ma nei suoi sogni “provò” più volte a visitare Roma, senza mai davvero riuscirci.
Una volta sognai di vedere il Tevere e il ponte di Castel Sant’Angelo dal finestrino della carrozza di un treno; subito il treno partì e realizzai di non essere nemmeno entrato in città. La veduta apparsa nel sogno era modellata su una ben nota incisione che avevo notato casualmente il giorno prima nel salotto di uno dei miei pazienti. [6]
Esisteva dunque una grande produzione di immagini sull’Italia. C’erano le classiche vedute di Roma e Venezia, non molto diverse da quelle che oggi fotografiamo, ma alcuni panorami erano invece molto differenti. Per fare un solo esempio, una scena molto raffigurata era quella del Vesuvio in eruzione, di notte e al chiaro di luna (il Vesuvio allora era in piena attività), che permetteva agli artisti di mostrare tutte le proprie doti in fatto di luce e colore. Questa veduta era talmente “di scuola” che il pittore inglese Joseph Wright of Derby ne dipinse almeno 30, pur senza mai aver visto un’eruzione di persona. Un’immagine così “ripetuta” non poteva non essere ripresa da Andy Warhol che infatti nel 1985, in uno dei suoi viaggi a Napoli, realizzò una serie di stampe del Vesuvio scoppiettante.
Un gran numero di artisti che avevano base a Roma, italiani e stranieri, si dedicava quindi alla pittura di paesaggio. Che forse nacque proprio durante un viaggio in Italia: le vedute di Trento e della Val di Cembra dipinte alla fine del ‘400 da Albrecht Dürer, che come Goethe dal Brennero scendeva verso Venezia, sono tra i primi esempi di opere in cui il paesaggio diventa il soggetto del dipinto. Ma tornando all’epoca del grand tour, un genere altrettanto richiesto era quello dei ritratti su commissione eseguiti per i viaggiatori, meglio se con qualche monumento in rovina sullo sfondo.
A questa produzione iconografica si aggiungevano guide e libri di viaggio in Italia. Ne accenna nel 1800 un giovanissimo Henri Beyle, futuro Stendhal, appena arrivato in Italia come sottotenente delle armate di Napoleone. Da Milano scrisse alla sorella Pauline: “Non ti parlo nemmeno del Monte San Bernardo, ne leggerai un giorno la descrizione in uno dei Mille e uno Viaggi in Italia” [7]. A dire il vero anche Stendhal non mancò di dare il suo contributo al genere: anzi, Storia della pittura in Italia e Roma, Napoli e Firenze nel 1817 furono le sue prime opere pubblicate. E anche lui come Goethe usò il disegno come supporto per la memoria, quando nel 1835 cominciò a scrivere Vita di Henri Brulard, un’autobiografia appena un po’ mascherata che si chiude proprio con il suo arrivo in Italia, il suo primo incontro con la musica lirica e il suo ingresso a Milano (ricordo che sulla tomba dello scrittore nel cimitero di Montmartre è scritto “Arrigo Beyle – Milanese”). Stendhal scrisse queste pagine ormai cinquantenne, tra Civitavecchia e Roma, quando si trovava di nuovo in Italia come console per il Regno di Francia. Le riempì di mappe e schemini, come quello in cui ridisegna l’aggiramento del Forte di Bard, in Valle d’Aosta, dove da ragazzo aveva ricevuto il suo battesimo del fuoco.
A riguardare e rileggere le lettere, i quaderni e i diari degli artisti che nel corso dei secoli hanno viaggiato e vissuto in Italia, come sto facendo per mio fumetto, ci si trova di fronte a un’infinita mole di materiale. Tuttavia molto è trascurabile, o almeno non può più avere oggi la funzione che aveva allora. Che cosa si salva allora? Che cosa riesce a parlarci ancora a distanza di secoli? Ho adottato un criterio, in maniera emotiva più che razionale, per orientarmi: trovo interessanti, attuali, i viaggi che provocano un cambiamento in chi li intraprende.
Via allora tutti quei viaggiatori che visitavano l’Italia in fretta, “tanto per averla vista” [8], come scriveva Goethe. E via anche, a malincuore, scrittori importanti come Henry James e Charles Dickens, che lasciarono l’Italia con gli stessi pregiudizi con cui erano arrivati.
C’è uno scrittore che forse meglio di tutti ha riassunto il vero senso del viaggio in Italia. Nel suo libro Mare e Sardegna (1921) l’inglese David Herbert Lawrence scrisse:
Per noi andare in Italia, penetrare nell’Italia, è un’affascinante atto di scoperta di sé – – indietro, indietro, lungo le antiche vie del tempo. Strane e meravigliose corde si risvegliano in noi, e vibrano ancora dopo centinaia di anni di completo oblio. [9]
Scoprire se stessi, per gli artisti, spesso equivaleva a scoprire la propria vocazione. E così l’Italia per molti diventava un luogo del destino. Che fossero pittori, musicisti o scrittori, per la maggior parte questi artisti arrivavano in Italia giovanissimi, piuttosto squattrinati e con molta più incoscienza rispetto a Goethe. In loro non c’era ancora l’idea di documentare il proprio viaggio, ma piuttosto quella di imparare.
Sappiamo poco dei viaggi dei grandi artisti del ‘500 e del ‘600 – El Greco, Rubens, Poussin, Velázquez -, ma già per Francisco Goya abbiamo un taccuino, il cosiddetto Cuaderno italiano, che il pittore spagnolo tenne durante il suo soggiorno in Italia del 1770-71, quando aveva 24-25 anni. Sono pagine piene di studi di opere classiche come l’Ercole Farnese o La cacciata dai progenitori dall’Eden di Masaccio, e solo qua e là affiorano elementi relativi al viaggio: nel caso di Goya ci sono alcuni schizzi di volti con la maschera da Pulcinella e un elenco delle città italiane visitate dall’artista (messe anche in ordine di preferenza, con Roma e Venezia in testa!).
I quaderni dei pittori non servivano a raccogliere memorie e souvenir, ma erano strumenti di studio e lavoro. Lo spiega bene il pittore francese Gustave Moreau, padre del simbolismo, che fu un viaggiatore diverso da tutti gli altri. Vide l’Italia per la prima volta a soli 15 anni, nel 1841, in un viaggio insieme alla famiglia: in quell’occasione il padre gli regalò un taccuino, e il futuro artista non esitò a riempirlo di schizzi e studi, raffigurando ad esempio la Torre di Pisa. Ma il vero viaggio in Italia di Moreau avvenne nel 1857 e si trasformò in un soggiorno di due anni. i suoi quaderni dell’epoca sono pieni di copie da Michelangelo, Raffaello, Botticelli, Carpaccio, e nelle sue lettere Moreau si descrive come uno che vive esclusivamente “nella mia camera e nei musei”.
L’Italia per un artista non è quella che ci si crea nell’immaginazione prima di averla vista. Non è il paese dei sogni, non è il paese delle dolci esistenze indolenti. È meglio di così. È il paese del lavoro e del raccoglimento. [10]
Era della stessa opinione Dominique Ingres, che visse per molti anni in Italia in una sorta di esilio auto-imposto (dal 1806 al 1824 e poi di nuovo dal 1834 al 1841). In questa lettera del 1821 ci racconta la sua giornata tipo a Firenze, dove viveva in casa dell’amico scultore Lorenzo Bartolini:
Ci alziamo alle sei, facciamo colazione con un caffè, alle sette, e ci separiamo per trascorrere tutta la nostra giornata al lavoro, nei nostri atelier. Ci si rivede la sera alle sette per cenare, un momento di riposo e di conversazione fino a che non si fa l’ora del teatro, dove Bartolini va tutte le sere della sua vita. Ci rivediamo l’indomani, a colazione, e così tutti i giorni. Questa vita uniforme, a dire la verità, è quella consona agli artisti che si occupano solamente della loro arte. [11]
Per alcuni però l’impatto con l’Italia poteva essere anche motivo di disperazione, come nel caso dello scultore svedese Johan Tobias Sergel:
Partii per Roma nel 1767, nel mese di giugno, vi arrivai nel medesimo anno il 12 di agosto, all’età di 27 anni. È da quel giorno che posso dire di aver cominciato i miei studi. Aprendo gli occhi sulla mia ignoranza, pieno di rimpianto per aver perduto gli anni della giovinezza, divenni malinconico e scoraggiato nel vedere la gioventù attorno a me piena di talenti. Ne fui talmente colpito che per tre mesi non potei combinare nulla.
[…] Cominciai col dirmi: bisogna studiare tutto da capo. [12]
Con molto esercizio e tanta applicazione, Sergel riuscì a imporsi come uno dei più importanti scultori del neoclassicismo. Ci ha lasciato però anche dei disegni quasi umoristici che documentano scene quotidiane della sua vita a Roma, dove abitò per più di dieci anni.
Sempre a Roma, qualche decennio dopo, un giovane pittore era preso dallo sconforto. Stavolta non per la grandezza inarrivabile dell’arte del passato né per la bravura dei suoi colleghi, ma per la luce, la luce di Roma.
Non puoi avere idea del tempo che abbiamo qui a Roma. È un mese che ogni mattina vengo svegliato dallo splendore del sole che batte sul muro della mia camera. Ma quel sole diffonde una luce per me sconfortante. Sento tutta l’impotenza della mia tavolozza. CI sono dei giorni in cui davvero manderei tutto al diavolo. [13]
Scriveva così Jean-Baptiste Camille Corot, che infatti nel suo periodo in Italia si consacrò a tentare di catturare quella luce. I suoi studi realizzati all’epoca, a Roma, al ponte di Narni e in tanti luoghi dell’Italia centrale, sempre en plein air, anticipano il lavoro degli Impressionisti, che infatti consideravano Corot uno dei loro maestri e che a loro volta visitarono quasi tutti l’Italia. Corot è uno di quegli artisti che trovò in Italia la sua vocazione come pittore:
Non ho che un obiettivo nella vita, e voglio perseguirlo con costanza: è quello di fare dei paesaggi. [14]
Qualcosa di simile accadde anche a molti scrittori, che trovarono in Italia l’idea o l’ambientazione per i loro primi successi. Abbiamo già visto il caso di Stendhal, ma il discorso vale anche per Hans Christian Andersen con il romanzo L’improvvisatore (1835), fino ad arrivare a Ernest Hemingway e al suo Addio alle armi (1929). Tra i pittori, anche Edgar Degas realizzò i suoi primi lavori di un certo rilievo in Italia. Degas aveva una parte di famiglia in Italia, e in particolare il nonno René Hilaire De Gas, che era fuggito a Napoli per scampare alla ghigliottina durante la Rivoluzione francese, divenne il soggetto del primo dipinto “importante” del nipote.
Ma l’artista che più lavorò con i taccuini da viaggio è senza dubbio l’inglese William Turner. La Tate Gallery ha recentemente digitalizzato centinaia dei suoi quaderni, che oggi ci offrono un dietro le quinte del suo metodo di lavoro. Il primo viaggio in Italia di Turner fu in realtà solo una capatina dalla Svizzera fino in Valle d’Aosta, nell’estate del 1802: una breve tregua tra una guerra napoleonica e l’altra che permise all’artista inglese di viaggiare in Europa. Gli svariati schizzi dei paesaggi alpini – ricordiamo che la montagna all’epoca non era una meta turistica se non per i giovani romantici inglesi – servirono probabilmente alla realizzazione del dipinto Tempesta di neve: Annibale attraversa le Alpi (1812). Ma il primo vero viaggio in Italia di Turner si svolse nel 1819-1820: stavolta il pittore aveva 44 anni, e possedeva ormai un suo stile e un suo modo di vedere il mondo. Sono pochissimi i testi presenti nei suoi taccuini, ma questa descrizione di un viaggio nelle Marche è un esempio impressionante di un uomo abituato a pensare a colori.
Da Loreto a Recanati | il colore delle colline […] le olive, la loro luce | quando il sole splende grigio e fa diventare il terreno grigio verde rossiccio | ora lontano verso il viola, il mare molto blu, sotto il sole | un vapore caldo dal sole blu mitiga le ombre dell’ulivo scuro mentre il fogliame chiaro o nel complesso quando in ombra un grigio calmo. Bel verde scuro tuttavia caldo. Gli alberi in mezzo a tratti un po’ blu. Molto lontano l’acquedotto rossiccio, primo piano grigio chiaro. [15]
Nella seconda metà dell’800, con l’avvento della fotografia, le cose cominciano a cambiare rapidamente. Lo scozzese Robert MacPherson, che visse a Roma tra è un ottimo esempio. Era arrivato in Italia con l’idea di diventare un pittore e invece si dedicò alla neonata fotografia: fu il primo ad avere il permesso di fotografare i musei Vaticani.
La fotografia è stata la mia occupazione per gli ultimi venti anni. Intrapresa casualmente, l’ho trovata così affascinante che rimango tutt’ora un fotografo, senza sentire per questo di aver abbandonato l’arte o di aver rinunciato ad ambire al titolo di artista. [16]
I suoi scatti di Roma negli anni ’60 dell’800 sono interessanti perché mostrano bene il passaggio tra pittura e fotografia. Roma, nelle foto di MacPherson, è sempre deserta, le persone scompaiono e le inquadrature sono le stesse che avrebbe scelto un pittore paesaggista.
Pian piano i pittori cominciarono a cercare altri soggetti rispetto alle classiche vedute e si spinsero nei luoghi ancora “inesplorati” della penisola, abbandonando la tradizionale rotta Venezia-Roma-Napoli. Il pittore americano Elihu Vedder, che a Firenze frequentò il gruppo dei Macchiaioli e che poi si stabilì tutta la vita a Roma, si spinse in regioni fino ad allora poco esplorate come l’Abruzzo, la Basilicata e la Calabria, alla ricerca di paesini abbarbiccati sulle montagne. “Come amo queste piccole cittadine dimenticate, fuori dalla rotta dei viaggi” [17], scrisse nella sua autobiografia.
Anche gli scrittori si avventurano sempre più in profondità, alla ricerca di un’Italia ancora “selvaggia” e genuina. È così che D.H. Lawrence nel 1921 decide di viaggiare in Sardegna, che secondo lui “si trova al di là; al di là del circuito della civilizzazione”. Ma nel cuore dell’isola è appena arrivato il “bus a motore”, e lo scrittore inglese lo prende per andare da Sorgono a Nuoro.
Tutti i contadini hanno una passione per la superstrada. Vogliono che la loro terra si apra all’esterno, e ancora all’esterno. Sembrano odiare l’antico isolamento italiano. Vogliono tutti essere in grado di andarsene da un momento all’altro, di andare via veloci, veloci. [18]
Con l’avvento dell’automobile il modo di viaggiare cambia drasticamente, come ci racconta Virginia Woolf, che nel 1933 visitò l’Italia insieme al marito Leonard Bloom a bordo di una Lanchester 18 nuova fiammante.
[…] non puoi immaginare che differenza fa guidare, o fare da passeggera. Ci fermiamo oppure andiamo avanti; e pranziamo sotto i cipressi, con gli usignoli che cantano e le rane che gracidano, e saliamo la cima di colline dove nessuno è mai stato prima. [19]
Qualche tempo dopo, anche Maurits Cornelis Escher scelse Roma come base (dal 1923 al 1935) e le escursioni a piedi negli Appennini divennero un appuntamento fisso.
Ogni primavera faccio un viaggio per ritemprare il mio corpo e il mio spirito e per trovare soggetti per il lavoro dei mesi successivi. Non conosco gioia più grande del vagabondare sulle colline e attraverso le valli da villaggio a villaggio, sentire la natura incontaminata attorno a me e godermi l’inaspettato, nel più grande contrasto rispetto alla vita a casa. Quando sono in viaggio sembra come un sogno, anche se le cose spiacevoli – cibo cattivo e un letto con i pidocchi – sono una delle condizioni inevitabili per questo divertimento! [20]
Da San Gimignano (Siena) a Pentadattilo (Reggio Calabria), le prospettive di queste cittadine aggrappate alle montagne furono i primi soggetti delle stampe di Escher. Descrivendo la sua opera Sogno (mantide religiosa) del 1935, Escher racconta un aneddoto che richiama quello di Goethe con cui abbiamo iniziato, sempre sugli imprevisti che possono capitare a chi decide di mettersi a disegnare all’aperto.
Una mantide religiosa, un insetto comune nell’Italia del Sud, si sedette sul bordo della mia cartella da disegno, mentre stavo facendo degli schizzi da qualche parte in Sicilia, abbastanza a lungo da essere ritratta nel dettaglio. [21]
Più la velocità aumenta, più viaggiare diventa facile, su treni o automobili, più gli artisti sembrano scoprire quello che già Goethe aveva intuito. Il segreto è sempre lo stesso, vedere le cose con i propri occhi, con la propria sensibilità, e lasciare che il viaggio operi lenti cambiamenti dentro di noi. Già a Venezia, nell’ottobre 1786, Goethe si era stupito di un viaggiatore francese che compiva il suo viaggio in Italia “senza badare a spese ma in fretta”[22], constatando con meraviglia “che uno può viaggiare senza veder nulla al di là del proprio naso”.
Grazie a Dio, in futuro non proverò più soggezione davanti a questi uccelli migratori, se al Nord qualcuno di loro mi parlerà di Roma, né mi sentirò più sommuovere i precordi; perché ormai anch’io l’ho veduta [23].
NOTE
[1] Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
[7] Stendhal, Correspondance (1800-1805), Vol. I, Le Divan, Paris 1933.
[8] Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983.
[9] D.H. Lawrence, Sea and Sardinia, Thomas Seltzer, New York 1821.
[10] Marie-France de Palacio, “La corrispondance d’Italie de Gustave Moreau: un voyage intérieur”, in Pierre-Jean Dufief, La lettre de Voyage, Presses universitaire de Rennes, Rennes 2007.
[11] Boyer D’Agen, Ingres d’après une correspondance inédite, H. Daragon, Paris 1909.
[12] Georg Göthe, Sergleska Bref, Iduns Kungl. Hofbgktryckeri, Stockholm 1900.
[13] Étienne Moreau-Nélaton, Corot raconté par lui-même, Henri Laurens, Paris 1924.
[14] Ibid.
[15] William Turner, Ancone to Rome Sketchbook – 1819, Tate Gallery.
[16] Robert Macpherson, Vatican Sculptures, Chapman & Hall, London 1863.
[17] Elihu Vedder, The Digressions of V., Houghton Mifflin, New York 1910.
[18] D.H. Lawrence, Sea and Sardinia, Thomas Seltzer, New York 1821.
[19] Nigel Nicolson, The Sickle Side of The Moon – The Letters of Virginia Woolf volume 5, The Hogarth Press, London 1975.
[20] Mark Veldhusyen, “M.C. Escher in Italy: The Trail Back”, in Doris Schattschneider, Michele Emmer, M.C. Escher’s Legacy, Springer, Berlin 2003.
[21] M.C. Escher, Escher on Escher: Exploring the Infinite, Harry N. Abrams, New York 1989.
[22] Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983.
[23] Ibid.
Pietro Scarnera nato a Torino nel 1979, ora vive a Bologna, è uno dei fondatori di Graphic News, webmagazine di informazione a fumetti. Ha lavorato come giornalista per diversi anni, occupandosi soprattutto di tematiche sociali. Nel 2009 ha vinto il festival Komikazen con il progetto del suo primo fumetto, Diario di un addio, pubblicato nel 2010 da Comma 22 e nel 2012 in Francia da Cà et là, col titolo Journal d’un adieu. Nel 2014 ha pubblicato Una stella tranquilla – Ritratto sentimentale di Primo Levi, uscito in Francia nel 2015 per Rackham col titolo Une étoile tranquille. Una stella tranquilla ha vinto il premio Cosmonauti per il miglior libro e il Prix Révélation al Festival di Angouleme 2016. Nel 2015 ha pubblicato sempre per Comma 22 la storia breve Rec Play, preludio a un possibile libro futuro.