Discomfort
Il disagio degli oggetti
di Serena Carbone

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L’ansia è uno stato d’animo, un’agitazione mossa dal desiderio o dalla preoccupazione, è un’affannosa incertezza, un sentimento di apprensione, un tormento che affligge affine all’angoscia. L’ansia è degli uomini e per gli uomini. Ed allora un oggetto ansioso cosa indica?

Il critico americano Harold Rosenberg nel 1964 dà questo titolo al volume che raccoglie una serie di saggi che indagano il trattamento dell’oggetto-opera nell’arte contemporanea. È chiaro uno slittamento di prospettiva: all’oggetto vengono attribuite caratteristiche proprie dell’umano. Per Rosenberg, in particolare, nominare l’oggetto ansioso significa richiamare l’attenzione sull’ansia di definizione in cui erano incorse le opere d’arte degli ultimi decenni; significa gettare nell’agone semantico qualcosa che per secoli è stato proprio della rappresentazione, catalogabile a sua volta in base alla tipologia di supporto attraverso la quale la stessa si esprimeva; significa catapultare, infine, lo statuto dell’opera d’arte definitivamente in quel campo linguistico inerente all’umano piuttosto che alla cosa o al divino. Questa è o non è un’opera d’arte: da Duchamp in poi è diventata una questione di definizione. E allora chi definisce cosa? La critica, gli artisti, i collezionisti?

Questo scivolamento di valori da una sfera a un’altra non è evidentemente solo una questione di storia dell’arte o estetica. Studi sul collezionismo, piuttosto che di psicanalisi o sociologia, hanno gettato luce su questo fenomeno di transfert oggettivante come soggettivante. Non solo, infatti, le cose si possono umanizzare, ma anche gli uomini reificare, ovvero divenire cose.

Pablo Picasso, Le chat

L’oggetto insincero
Prima che ansioso, l’oggetto diventò insincero.

Già nel cuore del XIX secolo le illustrazioni di Grandville avevano animato gli oggetti, rendendoli mostruosi, perché destinati ad una seconda vita come una sorta di «natura trasformata in apocalisse» (Agamben, 2011). Walter Benjamin nei Passages aveva ben colto quest’erranza dei significati, mentre i significanti, ridotti a pura figura, vagavano per l’aere luminosi e illuminanti come le insegne dei negozi da guardare con il naso all’in su per le megalopoli. Del resto, era in atto da tempo una rivoluzione nell’ambito del rapporto uomo-oggetto: ciò che prima aveva un carattere semplicemente funzionale, all’indomani della produzione in serie, acquisiva un’ambiguità tale per cui il suo valore dal piano dell’uso veniva spostato a quello del consumo, mentre la funzione diveniva secondaria rispetto ad un codice estetico dominante, dettato dal gusto, dal cattivo gusto o – si potrebbe a ragione dire – dal kitsch.

Quest’atmosfera di disagio, in cui i significati delle cose mutavano al ritmo vertiginoso della produzione industriale, che pulsava oggetti di ogni forma e misura al di là di ogni principio funzionalista, si riscontra anche negli scritti di Charles Baudelaire, ma anche in alcuni racconti di Edgar Allan Poe e di Hugo von Hofmannsthal. «La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno immutabile», scrive Baudelaire (Baudelaire, 2004), intuendo che gli elementi che porteranno alla crisi della modernità saranno, in realtà, i suoi stessi fondamenti.

Il poeta maudit è stato infatti uno dei più puntuali osservatori della società in cambiamento, e le sue analisi così lucide e magnificamente precorritrici prendevano corpo anche grazie alla riflessione su uno dei maggiori eventi del suo secolo: l’Esposizione Universale. All’epoca, come giornalista, scrive tre articoli sulla seconda edizione che si tenne a Parigi nel 1855: l’Exposition Universelle des produits de l’Agriculture, de l’Industrie et des Beaux-Arts. Dai suoi testi emerge la fascinazione per questa manifestazione e per gli oggetti, in particolare, che da ogni parte del mondo erano giunti per essere esposti per la prima volta tutti in insieme, in un unico spazio, sotto gli occhi di chiunque volesse vederli. La bizzarria fonte di ogni bellezza, il mistero principio generatore di ogni fascino sinistro, la fede nel progresso che «getta tenebre sopra ogni oggetto della conoscenza», possibile mai – si chiede l’autore – che una simile infatuazione fosse «il segno diagnostico di una decadenza oramai più che visibile?» (Baudelaire, 2011). La verità era che tutti quegli oggetti esposti in vetrina, mischiando arte e artigianato, mobilia e accessori, prodotti di lusso e prodotti in serie alla portata di tutti, avevano mostrato ad un occhio attento come il suo la fine dell’oggetto innocente «il cui godimento e il cui senso si esaurivano nel suo uso pratico, per caricarsi di quell’inquietante ambiguità a cui Marx doveva alludere dodici anni più tardi parlando del suo “carattere di feticcio”» (Agamben, 2011).

L’inquietante ambiguità lasciava posto alle proprietà più volatili e nebulose dell’oggetto, rendendo visibile la sua ombra, delocalizzando il segno e conducendo alla crisi del linguaggio. Da Mallarmé in poi la poesia si costruirà difatti per frammenti come parti di un qualcosa che non c’è più: un assoluto e finito poema-mondo che non potrà mai più essere evocato integralmente, ma solo reso presente attraverso la sua negazione. Il vuoto della pagina e le parole entro questo vuoto aprono lo sguardo a una nuova spazialità.

Epifania dell’inafferrabile chiama tutto ciò il filosofo italiano Giorgio Agamben (Agamben, 2011). Questa espressione, che ha inizio proprio con le Esposizioni Universali, si traduce in un rinvenimento inatteso – malinconico e angosciante a volte, ironico e dissacrante delle altre – di un nuovo mondo di corrispondere, combinare ed associare i significati alle parole e i nomi alle cose. Questa sensazione di soglia tra due universi sospesi in un’atmosfera non necessariamente apocalittica ma anche di gioco, fatta di grafemi e oggetti ridotti a figura, farà da incubatrice alle spinte innovatrici che porteranno alla rivoluzione visiva del XX secolo, sancendo l’entrata del testuale nell’arte.

L’oggetto menzognero
Quanto più posseggo tanto più aumenta il mio valore nella società.

[…] se la menzogna presuppone, come sembra, l’invenzione deliberata di una finzione, ogni finzione o ogni favola non rimanda per questo a una menzogna. (Derrida, 2006)

Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello che dicesse il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un campo indefinito. (Montaigne, 1992)

«L’ipocrisia della virtù appartiene ad ogni età, ma l’ipocrisia del lusso è peculiare dei secoli democratici. Per soddisfare queste nuove brame dell’umana vanità le arti ricorrono a ogni specie d’impostura», così scriveva Alexis de Tocqueville all’indomani del suo viaggio in America: l’ansia di possesso non solo allontanava l’oggetto dal suo valore autentico ma anche rendeva il proprietario di quell’oggetto «qualcosa che non è», sancendo il fittizio legame tra gerarchie sociali e gerarchie estetiche che da allora in avanti si andrà sempre più consolidando (Tocqueville, 2007).

L’oggetto divenuto ormai opera-merce inizia ad essere percepito come menzognero, poiché il suo valore non è più direttamente connesso né al suo uso men che meno alle caratteristiche materiali che lo determinano in quanto tale. Piuttosto esso diviene immagine di uno status sociale, ostaggio di un meccanismo volitivo articolato in decoro e convenzione, che sancisce le norme di comportamento e del “giusto vivere” di una comunità. Nel secolo delle rivoluzioni, in cui si assiste sì all’ascesa della classe borghese, ma oltremodo anche alla democratizzazione di un certo tipo di benessere, quanto accade pone l’individuo acuto di fronte ad un fenomeno estetico e sociale illusivo e ingannatore. L’oggetto latore di menzogne diventa parte integrante di un processo di distorsione della realtà attraverso una pratica di mise en abyme che apre verso il dubbio, il mistero, l’ambiguo, il doppio e il molteplice: l’abisso.

L’oggetto ansioso

Nel 1964 esce in America L’oggetto ansioso, una raccolta di saggi di Harold Rosenberg. Il critico americano, mettendo in risalto la particolare posizione assunta da artisti e opere all’interno dell’industria culturale, riflette sull’arte in relazione alla società, ed evidenzia che con l’abbandono della bohème e la nascita dello status di artista, la natura stessa dell’arte si è trasformata. Divenuta dichiarativa, essa risulta strettamente legata al suo riconoscimento in quanto tale da parte di una comunità di esperti e, successivamente, di un pubblico. A partire dal ready-made, l’enunciato «questa è un’opera d’arte» legittima lo statuto, collocando l’oggetto artistico in un agone ambiguo di esistenza al pari della merce e di un qualunque altro oggetto di consumo. Intrecciando la sua storia sempre più a quella del suo significato, l’oggetto gravita leggero su di un’orbita priva di identità; esso è diventato opaco, incerto, in continua ansia di definizione: «L’arte non esiste. Dichiara se stessa» sostiene Rosenberg (Rosenberg, 1967).

Nonostante l’arguzia delle intuizioni, la fortuna del critico è relativamente breve, circoscritta agli anni Sessanta/Settanta, cadrà nell’oblio subito dopo perché troppo legata al movimento dell’action painting e a un metodo sostanzialmente formalista. Oggi, probabilmente, ormai parimenti lontani dal fragore del moderno come del post-moderno, si possono cogliere i dovuti distinguo che rendono il suo pensiero felicemente attuale, orientandolo all’interno di una dimensione soggettiva.

Quando l’oggetto comune diventa ready-made1, lo slittamento su un piano nominale della sua esistenza si accompagna ad un’origine antiestetica, performativa, da includersi all’interno di una dimensione soggettiva legata al tempo e al gesto che la produce. Proprio in virtù di quest’ultimo aspetto, l’opera si può definire ansiosa, perché investita di quell’angoscia tutta umana che ne frastaglia i contorni rendendola misteriosa, spettrale, a tratti persino mostruosa. L’opera d’arte sbalordisce e inquieta al punto che Rosenberg ne sottolinea la parentela con l’esistenzialismo e il Teatro dell’assurdo.

Egli ritiene, inoltre, che l’ansia dell’oggetto non si circoscriva alla sola erranza semantica, ma che sia da imputarsi anche a una volontà di affermazione dell’artista («ultra-definizione dell’artista»): una componente troppo umana che rende l’ansia una sorta di “qualità filosofica” che si libra durante l’atto creativo, come fosse un motus frutto di una tensione generatrice di energia2.

Il destino dell’opera sembra pertanto destinato a collimare con quello dell’uomo stesso che, quanto più si mostra incapace di definire la funzione dell’arte nella società rispetto alle altre forme di comunicazione, tanto più ne aumenta l’ansia. Questo stato d’animo, in quanto tale anche se di pertinenza oggettuale, non è perenne o sempre uguale a sé stesso ma, soggetto al tempo, ha un inizio e una fine, da cui quell’estetica del caduto di cui Kurt Schwitters è l’iniziatore: il Merzbau è un’opera-ambiente fatta di residui di realtà, deteriorabili, quotidiani, effimeri, arrendevoli alla pioggia come al vento, al sole come alla luna. E la sua storia ce lo ha dimostrato.

Giunto sulla fine del decennio, nella prefazione italiana al libro del 1967, Rosenberg si chiede in verità se si possa parlare ancora di oggetto ansioso in riferimento all’arte strettamente attuale, dal momento che i suoi saggi si concentravano in particolare sulle pratiche di Arshile Gorky, Willem De Kooning, Hans Hofmann, Saul Steinberg, Barnett Newman, Jasper Johns. Egli sa che le cose cambiano velocemente e le trasformazioni diventano sempre più rapide e irreversibili.

La normalizzazione dell’arte all’interno dei media e dell’artista in quanto professionista all’interno della società, avevano infatti ormai raffreddando quello stato d’ansia, fonte controversa di attrazione e repulsione, indefinizione e tentativo di definizione insieme, sfida al tempo e alla sua durata, energia che si innervava dall’artista all’oggetto e viceversa, secondo un principio similare all’osmosi. Congedandosi dal suo aspetto spettrale, l’opera sembrava essere ormai pronta per essere accolta nel grembo creato a posta per lei dalle norme statutarie e disciplinanti di un sistema che ne aveva a sua volta legittimato la definizione; ma con un occhio proiettato in avanti sappiamo che la perentorietà di questa riflessione non ha avuto gli esiti previsti e, probabilmente, il limite di Rosenberg è stato proprio quello di non aver oltrepassato la linea di confine tra formalismo e nuova oggettualità.

Il Cosmo di Gombrowicz e le Cose di Perec

Così come il XIX secolo ha avuto i suoi scrittori degli oggetti disagiati dal linguaggio tentennante, anche il Novecento ha i suoi investigatori su carta. Ancora una volta il carico di ambiguità e mistero delle cose è protagonista di molti romanzi venuti al mondo in un’epoca in cui -come scrive Jean Baudrillard- l’uomo era circondato per la prima volta più da oggetti che da altri uomini (Baudrillard., 2003). Gli oggetti muovono le vite e le identità degli individui in pieno boom economico, sublimando il loro potenziale inorganico.

«1962 – Che cos’è un romanzo giallo? Un tentativo di organizzare il caos. Per questo il mio Cosmo, che mi piace chiamare un “romanzo sulla formazione della realtà” sarà una specie di racconto giallo» (Gombrowicz, 2004). Lo sguardo del protagonista, Witold, quello del fedele compagno, Fucsio, e sullo sfondo le annoiate conversazioni e i tediosi movimenti di Leo, Gina, Lena, Caterina, il prete, Pallina e Luigi che finisce impiccato con le sue scarpe gialle come prima di lui l’uccello, il bastoncino, il gatto: questa è la combinazione che sorregge l’intreccio di Cosmo, l’ultimo romanzo di Witold Gombrowicz, lo scrittore polacco già autore di Pornografia, pubblicato nel 1965 e che gli valse il prestigioso Prix International de Littérature nel 1967. Una combinazione di personaggi che si muove nel mezzo di una combinatoria di oggetti in un luogo abbandonato, dove «il vuoto della nostra noia s’incontrava con il vuoto di questi presunti segni, indizi, che non erano indizi, con tutta questa buffonata: due vuoti e noi tra di essi» (Gombrowicz, 2004). All’indifferenza dei personaggi corrisponde l’indifferenza degli oggetti: gli uomini non hanno una storia al di fuori dell’angosciante perimetro che le parole iscrivono all’interno della pagina bianca e, similmente, gli oggetti non hanno una funzione, non hanno un peso specifico, non sembra neanche siano fatti di una qualche materia nello spazio che li contiene. Uomini e cose si ritrovano uniti in un unico grande cosmo governato dalla noia e dal caos. Il ruolo di investigatori, ricoperto in una prima parte da Wintold e Fucsio, sembra essere l’unico motore d’azione per una scena che altrimenti collasserebbe per la sua stessa astenia. Sulla scia di un indizio, per quanto bizzarro e inusuale – come l’impiccagione di un uccello e ancor più di un bastoncino -, prende le mosse la quête, la domanda che interroga il mondo. La risposta però non arriva e tutto resta sospeso sulla soglia di un buco nero appena un attimo prima del risucchio finale.

In questa sequela di assurdità che svela una cosmogonia priva di logica, il punto nevralgico che capovolge la situazione e dà inizio alla seconda parte del romanzo, è quando Wintold, vagante alla ricerca di indizi che lo portino a svelare il colpevole delle impiccagioni, si dirige verso la stanza di Lena e dalla finestra la scorge in compagnia del marito Luigi. Lei ha un asciugamano da bagno sulle spalle, lui un gilet e tiene in mano una teiera…

[…] mi aspettavo di tutto. Ma non una teiera. bisogna capire che cos’è una goccia che fa traboccare il vaso. Che cosa sia “il troppo”. Esiste qualcosa come un eccesso di realtà, il suo ingrandirsi che non è più sopportabile. Dopo tanti oggetti, che non potrei nemmeno enumerare, gli aghi, le rane, il passero, il bastoncino, la stanga, il pennino, la buccia di limone, il cartone eccetera, il camino, il tappo, la spaccatura, la grondaia, la mano, le palline, il pane ecc.ecc., le zolle, la rete, il fil di ferro, il letto, le pietruzze, lo stuzzicadenti, il pollo, i brufoli, i golfi, le isole, l’ago e così via e via e via, fino alla noia, alla saturazione, e ora questa teiera, cascata come un capello nella minestra, come la quinta ruota di un carro, a sé, gratis, come il lusso del caos. Basta. Mi si stringeva la gola. Questa non la inghiottirò. Non ce la faccio. È già abbastanza. Tornarsene a casa. […]. (Gombrowicz, 2004)

Allora lei si toglie la camicetta, lui le si approssima, Wintold continua a spiare dalla finestra, la luce si spegne, c’è buio, eppure nella sua testa rimane sempre e solo fissa l’immagine della teiera. Un’ossessione visiva priva di ogni scopo, ogni funzione, ogni spiegazione. Si allontana ma da lontano scorge il gatto di Lena, gli si avvicina, lo afferra come in preda ad un raptus e lo strangola.

La quête ha fine, l’investigatore diventa l’indiziato, la teiera-cosa diviene la cosa-gatto e la stessa forza che aveva avviato i primi movimenti diventa centripeta e vortica su se stessa. Il protagonista davanti a questo eccesso di realtà, distoglie le sue attenzioni dall’indagine e si immerge in questo eccesso, ne diventa parte, diventa caos, diventa cosa, perché in fondo l’idea che un’azione potesse interferire e mutare i disequilibri in equilibri, lo terrorizza.

Solipsismo, onanismo, voyeurismo: sono i tratti della personalità del protagonista e sono propri di un disagio davanti agli oggetti che si moltiplicano, pullulano dentro e fuori dalle case. E se nel XIX secolo i disegni di Grandville e la penna di Poe avevano animato, rendendoli mostruosi, questi oggetti, in piena società dei consumi il fenomeno si esaspera e si capovolge, non sono le cose ad umanizzarsi ma gli uomini a trasformarsi in cose.

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.Nello stesso anno d’uscita di Cosmo, Georges Perec pubblica il suo romanzo di esordio, Les Choses, ottenendo immediatamente un grande successo. Il libro narra la storia di una giovane coppia parigina che adatta la sua quotidianità, compresa la sua carriera, ai dettami della società dei consumi. Jérome e Sylvie, i due protagonisti, vivono noiosamente la loro condizione di studenti e sognano di cambiare vita diventando ricchi. Vogliono essere felici e per loro la felicità coincide con il benessere materiale e con una vita agiata medio-borghese. Travolti dal boom economico, decidono di dare seguito ai loro desideri, lasciano l’università e partono per la Tunisia. Contrariamente alle loro aspettative, la vita a Sfax risulta essere ancora più monotona e mediocre di quella a Parigi, il senso di solitudine si amplia davanti al deserto ed in una città straniera dove sono solo due individui qualunque destinati a guardare da lontano lo sfavillio delle metropoli e per cui il lusso, quello vero, rimarrà sempre inaccessibile. Così lasciano l’Africa e fanno ritorno nella ville lumière, mestamente consapevoli e placidamente rassegnati a condurre una vita essenzialmente vuota.

Nella storia di questa giovane coppia, i desideri di Jerome e Sylvie si focalizzano non tanto sul modo in cui raggiungere la felicità, ma quanto sugli oggetti che fanno questa felicità. La penna di Perec con freddezza ed ironia offre una fotografia esemplare degli esseri umani ormai ineluttabilmente reificati.

Ils auraient aimé être riches. Ils croyaient qu’ils auraient su l’ être. Ils auraient su s’habiller, regarder, sourire comme des gens riches. Ils auraient eu le tact, la discrétion nécessaires. […] ils auraient aimé vivre. Leur vie aurait été un art de vivre. (Perec, 1965)

Les Temps Modernes, la rivista letteraria fondata da Jean-Paul Sartre, etichetta Les choses come un documento di accettazione di una vita regolata dal lavoro e dalla macchina sociale, un libro pornografico, voyeuristico e onanista (Perec, 2011), difendendo come era nella sua tradizione il tipo di intellettuale e di scrittura impegnata che Sartre, in primo luogo, e poi Camus, per altri versi, avevano rappresentato per molto tempo. Les choses, del resto, non attacca palesemente le strutture del capitale, né offre un profilo psicologico di personaggi dalla “resistenza” intellettuale, ma mostra piuttosto il bieco asservimento ai desideri indotti dall’illusione di una nuova e felice vita, apparentemente alla portata di tutti. Tuttavia, la superficie sulla quale si muovono le cose di Perec non è così sottile come sembra, vi è un gioco di rimandi e citazioni che ne traccia lo spessore e gli stessi oggetti sono intrisi di significati che prendono corpo non tanto se osservati uno per uno, quanto piuttosto all’interno di una combinazione che si inserisce in un determinato contesto sociale, tanto da delineare non un realismo del dettaglio ma della situazione, dirà Barthes (Perec, 2011).

La metafisica del quotidiano.

La dimensione soggettiva e performativa a cui è ricondotta l’origine delle opere, il sex appeal dell’inorganico, la dispersione della funzione-autore3: sono questi gli elementi caratterizzanti un disagio che nell’arte come nella letteratura ha colpito gli oggetti fin dal XIX secolo. Come se l’uomo avesse perso la facoltà di relazionarsi a loro, essi si muovono ambigui e misteriosi, con il loro carico di bizzarria e fascinazione rendendo l’atmosfera satura della loro presenza. Gombrowitz, o meglio Wintold, parla ad un punto preciso della sua solipsistica ricerca (prima di commette il reato, prima di strangolare il gatto) di un eccesso di realtà, poiché è essa stessa la sua fonte di disturbo, di angoscia, ammettendo parimenti di non voler e non poter far nulla per creare un equilibrio. La realtà e gli oggetti che la popolano lo strattonano, ed egli è da loro attratto oltre ogni controllo, tanto che qualunque azione volta a mettere ordine al caos è esclusa. È un combattimento ottico tra ciò che è e ciò che non è, nonostante il punto di partenza sia sempre la medesima realtà. Ma come diceva Kafka, la parola realtà non può essere più scritta ormai se non tra virgolette.

«Se l’ambiguità può ritrovarsi ovunque, la sua dimensione privilegiata è quella dell’estetico, luogo deputato alla violazione immaginaria». Così scrive Franco Solmi nel testo in apertura al catalogo della mostra Metafisica del quotidiano, allestita nel 1974 negli spazi della GAM di Bologna. Il pregevole volume si costruisce in maniera eterogenea: non solo riporta le diverse sezioni in cui sono divise le opere in mostra, ma anche taluni progetti realizzati in altri tempi e in altri luoghi sparsi per l’Italia secondo un principio di «distribuzione nomade», come la sezione nella Chiesa di Santa Lucia sempre a Bologna, dove trova posto Ebrea di Fabio Mauri, performance realizzata per la prima volta nel 1971, in cui intorno ad una donna nuda che prima si taglia i capelli per poi con essi configurare una Stella di Davide allo specchio, stesso simbolo che le viene successivamente disegnato sul corpo, vengono disposti una serie di oggetti-sculture che richiamano una gestualità e un «rito del quotidiano»; o la sezione «Incontri ravvicinati di Architettura» presso il Palazzo dei Diamanti a Ferrara o ancora «Cara Morte», stralci di un’esposizione organizzata da Tommaso Trini durante i Seminari di Gavirate in provincia di Varese; mentre tra i numerosi saggi si possono ricordare quelli di Achille Bonito Oliva su Fluxus e Pierre Restany su L’avventura dell’oggetto.

Ad un primo sguardo tutto sembra potersi includere e al contempo escludere da queste pagine. Non c’è un centro, il museo, non c’è un elenco di opere esposte ma piuttosto un fluire di situazioni e di tracce lasciate accidentalmente su un macro-ambiente (indefinito, visto che gli altri satelliti alla mostra – oltre a quelli già citati – si trovano ad Alessandria, Capurso (BA), Milano e Treviso) per segnalare una presenza troppo umana.

Copertina catalogo Metafisica del quotidiano

Solmi spiega che la metodologia seguita coincide con il massimo di improbabilità operativa, «gettando al rischio di un insostenibile quadro metaforico – quale è quello di una Metafisica del quotidiano – non soltanto artisti, critici ed opere ma lo stesso spazio del museo, correntemente considerato luogo dei canoni e della specificità. L’ipotesi di lavoro, per escludere ogni valore che non sia inquinato da un flusso di contrari e convergenze, si fonda sull’unico criterio immaginabile di valutazione non normativa: il criterio dell’ambiguità» (Solmi, 1974).

La rivoluzione estetica permanente iniziata da Duchamp non ha solo stravolto i canoni della significazione, ma anche aggredito l’immaginario al punto di autorizzarne un’altrettanta permanente trasgressione. Questa violenza coatta, questa rottura di ogni margine ha condotto artisti e opere, scrittori e parole su di un terreno scivoloso e comune. Estetica del caduco, estetica del negativo, estetica dell’inafferabile, estetica del quotidiano si potrebbero coniare tante estetiche quanti sono i modi di interagire con quella soglia di irrealtà, faccia di una moneta deturpata dai suoi segni specifici, simbolo di scambio ed interazione tra sfere differenti. L’ambiguità che trova posto nella vita di un uomo qualunque, una volta trasportata nel milieu artistico come letterario assume irreversibilmente forme ancora più radicali, spettacolari e illusionistiche, perturbanti e indifferenti, fittizie e veraci, precipue di un disagio degli oggetti che in queste pagine si è cercato di esemplificare nei suoi passaggi chiave e che tutt’oggi non risulta certo esaurito.

1 Scrive Patrizia Cappellini nel suo saggio Harold Rosenberg: oggetto ansioso e sdefinizione dell’arte: «Ho pensato a questi oggetti comuni – l’orinatoio, lo scolabottiglie, la vanga – come ad oggetti performativi, poiché si muovono verso il soggetto, lo aggrediscono e liberano una potenza drammaturgica alla quale seguono sbigottimento, riso, avvertimento di vacuo nonsense, e si impongono di schernire – prendendosi quasi un’ipotetica rivincita – il senso per eccellenza, la vista, oramai sopraffatta da una fluida, incorporea, idiosincrasica reazione degli altri senso, della ragione alterata, della memoria o talvolta cruentemente annientata dalla lama di un rasoio, come nel film Un chien andalou di Luis Buñuel» (Desideri, Matteucci, 2006, pp.249-250).
2 In questa concezione dell’ansia si avverte chiaramente la sua vicinanza alla pratica dell’action painting.
3 Essendoci mossi sul crinale degli anni Sessanta, non si può omettere che è del 1969 il saggio Che cos’è un autore di Michel Foucault, testo che mina organicamente dalla base ogni qualsivoglia possibilità di definire in maniera univoca e puntuale, come tanta filologia aveva fatta fino ad allora, la paternità di un testo. «Che importa chi parla? Qualcuno lo ha detto», la frase pronunciata da Beckett è difatti il punto di partenza di uno dei saggi più esemplificativi riguardo la funzione-autore, risultato di un’operazione complessa e «caratteristica – come scrive Foucault – di un modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno di una società». La dispersione dell’autore non rimanda pertanto all’idea di un soggetto originario, ma piuttosto alle dipendenze di quello stesso soggetto, visto come una funzione variabile e complessa del discorso. (Foucault, 2010, p. 9)

Bibliografia generale

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Baudelaire C., Scritti sull’arte (1992), Einaudi, Torino, 2004
Baudrillard J., Il sistema degli oggetti (1968), Bompiani, Milano, 2003
Derrida J., Breve storia della menzogna. Prolegomeni (2005), Roma, Castelvecchi Editore, 2006
Desideri F., Matteucci G. (a cura di), Dall’oggetto estetico all’oggetto artistico, Firenze University Press, Firenze 2006
Foster H., Il ritorno al reale. L’avanguardia alla fine del Novecento (1996), Postmedia, Milano, 2006
Foucault M., Scritti letterari (1994), Feltrinelli, Milano, 2010
Gombrowicz W., Cosmo (1965), Feltrinelli, Milano, 2004
Hofmannshal von H., Lettera di Lord Chandos (1902), Bur, Milano, 1991
Poe E.A., L’angelo del bizzaro in Edgar Allan Poe. I racconti, ET Biblioteca 46, Einaudi, 2009
Montaigne M., Dei Bugiardi in Graravini F. (a cura di), Montaigne.Saggi,Adelphi, Milano, 1992
Perec G., Les choses. Une Histoire des années soixante, Julliard, Paris, 1965
Perec G., Le cose. Una storia degli anni Sessanta (1965), Einaudi, Torino, 2011
Perniola M., Sex appeal dell’inorganico (1994), Torino, Einaudi, 2004
Rosenberg H., L’oggetto ansioso (1964), Bompiani, Milano, 1967
Rosenberg H., La s-definizione dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1975
Solmi F. (a cura di), Metafisica del quotidiano, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, 1974
Tiedemann R. (a cura di), I Passages di Parigi. Walter Benjamin, ed. italiana a cura di Ganni E., Einaudi, Torino 2010
Tocqueville de A., La democrazia in America (1830), Torino, UTET 2007

 

Serena Carbone si occupa di storia e critica d’arte contemporanea, con particolare riguardo alla relazione che intercorre tra arte, storia e società. Ph.D in Studi Culturali Europei, la sua ricerca ha trattato il décor nell’arte contemporanea, in particolare nell’artista belga Marcel Broodthaers, durante il dottorato è stata visiting researcher presso Paris 3-Nouvelle Sorbonne al LIRA (Laboratoire International de Recherches en Arts). É collaboratrice di Alfabeta2 e cura la rubrica Marginalia su Exibart.