Nel corso degli anni ’20 nasce in Brasile un movimento letterario e artistico composto dalla nuova generazione di intellettuali e artisti raggruppati attorno alla rivista di Antropofagia di São Paulo. Numerosi artisti, pronti ad abbattere le frontiere delle arti figurative attraverso la creazione di molteplici modalità creative, tentano una rottura risoluta con un passato opprimente, rinnovandolo. Il tentativo creativo impiega una distanza critica nei confronti dell’opprimente convinzione dell’esistenza di una identità latino-americana in un processo d’affermazione della deterritorializzazione della cultura e dell’arte: un nomadismo artistico che ha reso la realtà brasiliana un punto di partenza per uscire dal cliché latino americano. Ispirandosi direttamente all’antropofagia come pratica cannibalesca il Manifesto Antropofago redatto da Oswalde De Andrade auspica un cambiamento e una trasformazione del processo di prevaricazione culturale in una realtà brasiliana ricca di influenze e transiti culturali diversi. E’ l’epoca in cui nell’arte modernista brasiliana si assiste all’ingresso a pieno titolo di una forma di cannibalismo o antropofagia critica grazie all’opera di matrice primitivista della pittrice brasiliana Tarsila do Amaral che con La negra del 1923, dipinta a Parigi durante il periodo in cui studiava con Fernand Léger, segna l’inizio di quella trasformazione avanguardista radicale identificabile come modernismo postcoloniale e corrispondente a ciò che negli stessi anni si andava costituendo con il movimento Pau Brazil e quello di Antropofagia già menzionato, riconducibili entrambi al compagno di vita della stessa artista, Oswalde De Andrade. Il passaggio dal primitivismo europeo all’appropriazione cannibale della tradizione europea è evidente nell’opera successiva di Tarsila do Amaral, Antropofagia del 1928. Nell’appagabile avidità di ricerca di soggettività multiple il movimento antropofago celebra l’emancipazione della cultura brasiliana nell’eterogeneità delle sue sfumature, attraverso il desiderio di assimilazione e/o relazione con la figura dell’altro invasore. Come apertura creativa la strategia antropofaga comporta la capacità di essere l’altro restando sé stessi, ingerendo la cultura africana e digerendo quella occidentale del colonizzatore. Sembra trattarsi di una partecipazione e una ricerca di affezione condivisibile con altre singolarità in un processo di produzione di una soggettività collettiva ciò che Guattari intende con il termine molteplicità: al di là dell’individuo e verso il socius1. L’arte brasiliana si avvia verso un processo di produzione di soggettività collettiva, una riappropriazione etico-estetica della propria cultura e della propria storia, una resistenza critica che rimette in questione l’arte occidentale, proponendo una visione ontologica di antropofagia attraverso sia l’appropriazione di opere d’arte coloniale di matrice imperialista che attraverso una rilettura del processo di ‘costruzione’ dell’identità brasiliana, rimettendone in questione la sua rappresentazione2. D’altronde la storia della scoperta del nuovo mondo e la sua successiva invasione ed esplorazione di territori sconosciuti è raccontata attraverso un patrimonio artistico che mette in luce gli avvenimenti della vita quotidiana d’oltre mare e la bellezza dei luoghi esotici, come esperienze dello sguardo di quel desiderio di scoperta, invasione e profitto imperialista/capitalista che ha alimentato gli animi di grandi intellettuali e pittori occidentali. L’ontologia antropofaga brasiliana tenta una appropriazione critica di questo tipo di tradizione coloniale per illuminarne i lati più oscuri e le ferite ancora aperte, dando spazio a quel processo di ingestione e digestione dell’Altro auspicato da De Andrade e messo a punto in epoca più recente da diversi artisti brasiliani. Ecco che la scomoda e traumatica tradizione pittorica europea diventa uno spazio critico che ospita l’incontro con l’altro in termini di desiderio, un cannibalismo politico di vendetta contro gli usurpatori come lo definirebbe Lévi-Strauss in grado di sovvertire radicalmente la visione stereotipata della cultura brasiliana come serbatoio meticcio di danza, arte e cultura3.
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Il desiderio cannibale o cannibalismo affettivo è in tal senso attualizzato nell’opera dell’artista brasiliana Adriana Varejão che dagli anni novanta lavora sul patrimonio artistico coloniale del Brasile. Come pratica etico-estetica sul corpo e la carne, materialità viva che rivitalizza e problematizza il rapporto tra il potere controllato dell’invasore e l’accoglienza ‘conviviale’ della popolazione indigena, l’opera di Varejão si riappropria sia del concetto cannibalesco dell’antropofagia, così centrale all’arte modernista, che del patrimonio artistico coloniale del periodo barocco, creando dei paesaggi antropofagi desideranti con effetto di trompe-l’œil in cui la solidità della superficie pittorica è minacciata dal suo interno da tracce di abiezione che fuoriescono del dipinto e che sono impossibili da contenere. Varejão ‘ricopia’ le tele della tradizione pittorica occidentale, con riferimenti stilistici all’arte barocca, un’opera che per eccesso e forma irregolare sconfina poi all’esterno come un blob, fornendo versioni inedite dell’arte coloniale. Intrecciando l’analisi dei processi di potere imperialista alla tecnica pittorica dell’arte barocca coloniale, l’opera Carne a moda de Franz Post è ispirata al quadro del pittore olandese Franz Post che dimorò in Brasile durante il XVII secolo.
.L’artista estirpa pezzi del quadro e li poggia su piatti di porcellana da dessert di fattura cinese e portoghese come fossero pezzi di torta. Nel paesaggio esotico di Post le forme materiche estirpate di Varejão ricordano i contorni geografici delle Americhe, quel desiderio di mappatura dei confini dei territori conquistati. La consistenza organica, cibo offerto alla degustazione, si produce come carne macellata: brandelli di corpi, biocapitale sradicato e messo a profitto, tutto ciò che l’impero occidentale durante il periodo della conquista ha realizzato nelle Americhe del Sud.
La spirale evocativa del corpo della storia assume una consistenza critica nella rilettura della modernità coloniale rappresentata nell’opera Figura de Convite da un corpo femminile, un corpo-nazione presente e imponente: America. In molte rappresentazioni artistiche coloniali la donna rappresenta la conquista delle Americhe da parte delle varie corone europee. L’allusione al corpo femminile si riferisce in maniera propagandistica alla presenza egemonica della nuova realtà coloniale nei territori dell’America conquistata. Non si desidera mai una donna ma la donna nell’insieme dichiara Deleuze4. Varejão riesce a carnificare il desiderio d’insieme attraverso un corpo femminile che diventa paesaggio, un oggetto sessuale fagocitato in una dimensione onnivora di conquista imperialista.
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Lo sguardo che l’artista rivolge alla storia della modernità occidentale si materializza in un corpo femminile e sembra farsi carico dello scomodo passato di una cultura variegata e complessa, una realtà bi-continentale, sovraccarica e ricolma della cultura barocca occidentale5. America, una donna di carnagione chiara e dai capelli lunghi e lisci, rappresenta l’Europa, una interpretazione della presenza del corpo femminile in termini di potere e sottomissione, forza e debolezza che lascia intravedere alle sue spalle tracce di abiezione e antropofagia, uomini che mangiano altri uomini, scene di cannibalismo e di violenza crudele6.
Filho Bastardo [Bastard Son], 1992 oil on wood 110 x 140 x 10 cm
Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York
I dipinti di Varejão scompigliano la relazione tra il potere e la rappresentazione, rinegoziando anche l’equilibrio tra forza e sottomissione. Metaforizzando la storia come organismo l’artista tratta il corpo-storia partendo da “un corpo sacrificale femminile”. Come afferma Lidia Curti “non è un caso che il corpo sacrificale femminile, sia un’immagine dominante negli scenari mitologici e storici, un corpo che è diventato lo spazio – sia simbolico sia reale – del confronto tra modernità e tradizione, colonizzatori e indigeni, soggetti civilizzatori (C. Hall) e subalternità ‘barbara’”7. Due corpi di donna corredano il paesaggio desiderante dell’opera Filho Bastardo. Nel dipinto ovale, originariamente del pittore Leandro Joaquim, in uno scenario esotico di foresta si assiste a due scene di prevaricazione: lo stupro di una giovane donna nera legata ad un albero compiuto da un prete e due rappresentanti dello Stato pronti a picchiare un’altra giovane indigena appesa ad un albero. L’artista ha operato un taglio al centro del quadro aggiungendo della pittura rossa e creando così una densità materiale, la fuoriuscita di un dolore inimmaginabile, la ferita originaria di un corpo violato. L’opera riassume l’indiscutibile e indicibile violenza inferta dal colonizzatore al corpo femminile. Varejão esorcizza la violenza passata attraverso lo stupro metaforico della tela che si apre come un sesso arrossato per la violenza dell’atto. L’abiezione e lo smembramento del corpo/opera diventano anche una metafora dell’abiezione che fuoriesce da un corpo reale che ha subito violenza. Il corpo, mutilato e smembrato, rende anche giustizia alle subalternità sociali, di razza e di genere, scardinando i binarismi e conquistando lo spazio critico di produzione di soggettività collettiva.
In Comida del 1992, una delle prime opere di Adriana Varejão, il corpo di una donna indigena è appeso come nel gioco dei tarocchi, assieme ad un pollo, un cervo, un maiale, un pesce, offerti per la vendita e la degustazione. E’ l’insieme di questa immagine provocatoria che interroga direttamente lo spettatore sul valore di mercato della donna e sull’esistenza del cannibalismo affettivo. Sparse sulla superficie della tela si intravedono tracce di pittura dalla consistenza organica, pezzi di carne che ricordano la sorte della cultura indigena brasiliana assorbita dal colonizzatore. Qui il cannibalismo affettivo si annida nel punctum dell’opera, simile a quello dell’opera Varal del 1993, che vive nello sguardo femminile, uno sguardo che osserva in maniera divertita le reazioni dello spettatore. Difatti sembra esserci un forte contrasto tra la strana gaiezza del viso della donna, che accetta la sua condizione di vittima, e la brutalità della scena. L’ironia che avvolge il suo viso divertito sembra essere una presa in giro allo sguardo dello spettatore. Lo sguardo femminile è presente e fisso, guarda dritto negli occhi, non si accontenta di pungere lo spettatore ma cerca una modalità di riflettere il suo sguardo. Lo sguardo diventa macchia, la funzione-quadro dell’opera in senso lacaniano, l’elemento indispensabile da indagare per una migliore comprensione della complessità e delle modalità rappresentative che l’opera richiama8. Ma la macchia dell’opera oltre allo sguardo della donna appesa è antropofagicamente distribuita sull’intera superficie dell’opera, producendo altri affetti condivisibili.
A woman is trapped within the frontiers of her body and even of her species, and consequently always feels exiled both by the general clichés that make up a common consensus and by the very powers of generalization intrinsic to language9.
Ciò che Julia Kristeva riconosce come condizione di esilio e estraneità dal proprio corpo è in Comida espresso nel contrasto tra il liscio della tela e lo striato della carne, placenta che sembra fuoriuscire anche dall’utero della donna: un ulteriore atto soggiogante che relega la donna a mera merce riproduttiva. L’espropriazione del corpo, “l’uso del corpo femminile come merce di scambio linguistico e simbolico, oltre che materiale”, ricorda anche l’immagine, evocata dalla cineasta Trinh T. Minha nel suo film Suriname Viet: Given Name Nam, come ricorda Lidia Curti: “Ella sottolinea […] che il commercio più attivo è quello del corpo femminile” e cita:
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Sono come un pezzo di seta
ondeggiante in mezzo al mercato
ignaro di quali mani mi avranno10
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E se la leggerezza della seta, delicata e trasparente, è una straordinaria metafora per riappropriarsi di un corpo mercificato ed espropriato, il cibo, la comida, è desiderio cannibale di un corpo da ingerire e digerire, un richiamo anche al legame tra donne e cibo, alla Nourricriture, termine coniato da Trinh T. Minha, e ricordato da Curti in questi termini: “la scrittura femminile diventa carne linguistica, scrittura organica, scrittura-nutrimento”11. Anche la riscrittura visiva di Varejão è carne organica e nutrimento, una riappropriazione critica della tradizione coloniale che sembra palesarsi attraverso i tratti di animalità dell’uomo, la zona di indecisione oggettiva tra umano ed animale esperita nella sua più intima contingenza12. Non c’è alcuna differenza tra i tratti animali e quelli umani nella tela Comida, il corpo femminile è appeso come gli altri, è l’evento indiscernibile in cui le due realtà – l’animale e l’umano – appaiono assieme, sono un’unica cosa nel paesaggio desiderante d’insieme. Lo spazio materico dell’opera di Varejão diventa ‘striato’, una superficie tagliata, spessa e dalla consistenza organica, in cui gli eventi traumatici sono rimembrati e riscritti. La zona di contatto ‘tra’ i due termini oppositivi e negli interstizi delle pennellate di un rosso fulgido, tra l’irriducibile dentro e l’eccessivo fuori, si esprime attraverso la ferita, la piega. L’interno delle sue tele deborda all’esterno come un fiume in piena, un effetto barocco che suggerisce un’appropriazione della storia, del trauma o una maniera di fornire delle versioni inedite della storia.
Varejão sovverte la continuità storica e l’unicità dell’opera d’arte in Mapa de Lopo Homem, un quadro ovale delle stesse dimensioni di Filho Bastardo. L’opera ricorda la mappa Atlas Miller del 1519 del cartografo portoghese Lopo Homem che rappresenta l’Asia e l’America ancora unite. Qui i tagli sono due: uno al centro e l’altro in corrispondenza del punto di contatto tra l’Asia e l’America sul lato sinistro del quadro; la ferita centrale taglia il continente africano marcando il confine con l’Europa. L’artista interviene poi con dei punti di sutura sull’Europa ma non sul continente africano, dove la ferita è ancora aperta. In più nel quadro si scorgono tracce di sangue che simboleggiano i corpi degli schiavi dispersi in mare.
Di fronte a queste enigmatiche e drammatiche appropriazioni il corpo ‘barocco’ si presenta come un corpo sezionato e aperto, violato e mortificato. Le sue tele ripropongono una modalità tradizionale di rappresentazione, in termini di fissità, sconvolgendone al contempo i parametri. La materia fuoriesce a causa di un taglio, che più che esser considerato come sinonimo di rottura con la tradizione, si presenta come spiegamento o propriamente come piega che si addentra profondamente nella complessità dell’inquadratura storica.
Tra lo spiegare (ossia fornire una spiegazione, ma anche svolgere qualcosa di avvolto) e il piegare (avvolgere, avviluppare, incartare), emerge lo spiegamento (spiegazione, apertura dell’involucro, svolgere dell’incartamento)13.
Allora più che di taglio si tratta di piega, una piega barocca costituita da molti paesaggi e per questo molteplice, nel senso di realtà per nulla ornamentale ma al contrario piegata in un’infinità di modi14. E il punto di vista del corpo, come spiegamento del senso dell’arte barocca e come materia-piega, deborda una materialità sensibile percepita dall’osservatore come carne macellata, materia rigonfia sul tessuto liscio della tela, gonfiore organico accentuato: è propriamente carne macellata che pulsa e fuoriesce dalle tele della modernità occidentale.
Varejão mette in luce un corpo-opera come una perla mutante, una entità ibrida, una alterità che produce mutazioni e che vive di mutazioni, che ingerisce e digerisce l’invasore imperialista attraverso una pratica artistica antropofaga. Utilizzando il linguaggio dell’oppressore, l’artista crea dei paesaggi desideranti, un processo che dal desiderio verso qualcosa o qualcuno si avvia verso un desiderio più ampio, un paesaggio di insieme e via via assume la valenza ontologica di desiderio antropofago. Si tratta in effetti di un passaggio dallo spazio critico di costruzione del sé attraverso il desiderio dell’altro di matrice lacaniana ad uno spazio desiderante come paesaggio di insieme di matrice deleuziana15. L’interno delle sue tele deborda all’esterno suggerendo una sovversione della storia della conquista e una revisione del concetto di identità. Esplorando la cultura e la storia della formazione della società brasiliana, le tele ricolme di materialità organica diventano insieme di corpi mercificati da cui sgorga e deborda della materia come fosse carne viva, una materialità che riesce a mettere da parte l’astrazione dell’oggetto tipica della psicoanalisi lacaniana e diventa lo spazio di produzione delle soggettività nell’insieme dei concatenamenti tra diverse singolarità: insieme di organismi viventi, di corpi mortificati che compongono i paesaggi desideranti della storia imperialista. Inoltre la cornice delle tele di Varejão, come limite della conoscenza e simbolo di inquadratura storica, è rielaborata dall’interno della cornice stessa, dalla materia organica che deborda, che fuoriesce all’esterno suggerendo una sovversione della storia e una revisione del concetto di rappresentazione. La bellezza dei dipinti è in netto contrasto con l’atrocità dei tagli. L’estirpazione della pittura, l’effetto di tromp-l’oeil, l’abbondanza della materia, i corpi smembrati, tutto assale lo spettatore che, di fronte all’opera, è perturbato, perduto, in uno spazio dove si confondono violenza reale ed immaginaria.
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3 Claude Lévi-Strauss- « Sur Jean de Léry : entretien avec Claude Lévi-Strauss » in Jean de Léry, Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil (1578), Paris, Le livre de poche
4 G. Deleuze, L’abécédaire de Gilles Deleuze, interviste televisive con C. Parnet dirette da P. A. Boutang, Vidéo Éditions Montparnasse 1996, voce: Désir.
6 La conoscenza della storia dell’arte coloniale di Varejão ci pone di fronte l’opera di un importante incisore olandese del periodo, Theodor de Bry, una personalità molto importante nel panorama politico di conquista e colonizzazione del territorio. Infatti le illustrazioni di de Bry mostrano delle scene di cultura nativa e degli episodi di relazioni tra europei e indigeni, relazioni che mettono in evidenza tutta la crudeltà e la voglia di prevaricazione dei cattolici europei sulla gente del luogo. L’artista utilizzando le illustrazioni di de Bry, mette in relazione l’eucaristia, vero sacrificio umano antropofagico con le fantasie cannibali degli indigeni e parodia la concezione cristiana della transmutazione del corpo di Cristo.
7 Lidia Curti, « Corpi prigionieri, anime in movimento », in La nuova Shahrazad, Donne e Multiculturalismo, Liguori ed., 2004, 16.
8 Nel seminario XI Lacan localizza il desiderio nella funzione quadro dell’opera d’arte. L’analisi lacaniana tenta di definire una funzione quadro dell’opera attraverso l’individuazione dell’oggetto anamorfico, ciò che opera una rottura perturbante del familiare. Lacan si interroga sulla funzione dell’arte nel suo incontro con il reale ponendosi la domanda chiave sul vero significato del quadro. Il quadro assume una valenza irriducibilmente legata al suo incontro con il reale in cui il soggetto da abile spettatore dell’opera risulta essere l’oggetto dello sguardo, in un processo di incontro che rende possibile un abbandono dello sguardo, una deposizione dello stesso. La deposizione dello sguardo implica anche una diversa relazione tra il soggetto e la sua rappresentazione. Il soggetto estrae il suo sguardo, si abbandona alla vista altrui, al suo essere foto-grafato e al suo essere inglobato nella funzione macchia, diventando, nella sua impossibilità di partecipazione alla rappresentazione, egli stesso macchia. In tal senso questo sguardo femminile si attiva come sguardo produttivo che scruta lo spettatore.
9 Julia Kristeva, in The Kristeva reader, ed. T. Moi, New York, Columbia University press, 1986, 298; 296 op. cit da Trinh T. Min.ha in Traveller’s tale, edited by G. Robertson, M. Mash, L. Tickner, J. Bird, B. Curtis, T. Putnam, Routledge, 1994, 13.
10 Lidia Curti, “Scrittura, corpo, proprietà”, in Donne e proprietà. Un’analisi comparata tra scienze storico-sociali, letterarie, linguistiche e figurative, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1997, 306.
11 Ibid: 306.
12 Gilles Deleuze, Francis Bacon: Logique de la sensation, Paris: Seuil, 2002, trad. it., Francis Bacon Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 2002.
13 Vedi: Gilles Deleuze, La piega, Leibniz e il Barocco, op. cit., 5-23; Iain Chambers, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, (2001), Roma, Meltemi Editore, 2003, 87-88; Il concetto di piegamento e ripiegamento fa riferimento all’opera di Gilles Deleuze dedicata alla filosofia di G. W. Leibniz. Iain Chambers nel capitolo del suo libro Sulla soglia del mondo, l’altrove dell’Occidente, riprende il concetto di piega in termini di spiegamento e apertura, mettendo in evidenza l’infinita apertura barocca della filosofia di Leibniz esposta da Deleuze e in particolare il mutevole punto di vista del corpo che si dispiega all’infinito.
14 Nel primo capitolo dell’opera I ripiegamenti della materia Deleuze inizia con il delineare un concetto di Barocco dal punto di vista del suo essere molteplice, nel senso di presentarsi come insieme di pieghe che si sviluppano all’infinito. Gilles Deleuze, La piega, Leibniz e il Barocco, cit., 5-23.
15 G. Deleuze, L’abécédaire de Gilles Deleuze, interviste televisive con C. Parnet dirette da P. A. Boutang, Vidéo Éditions Montparnasse 1996, voce: Désir.