from roots to routes
Design for migration:
nuove pratiche di design verso una società più inclusiva
di Matteo Moretti

Socio-design
Nel 2005, il sociologo Bruno Latour e l’artista/curatore Peter Weibel curano la mostra Making Things Public: atmospheres of democracy presso la ZKM di Karlsruhe (Weibel, Latour 2005), andando a rispondere alla domanda “Come potrebbe essere una democrazia orientata agli oggetti”. L’ipotesi apre uno scenario che lo stesso Latour definisce Dingpolitik (2005, p. 1444), una politica affrontata attraverso le cose, oggetti in grado di aprire dibattiti, contestare lo status-quo, provocare riflessioni, supportare l’emersione di contro-narrative atte a contrastare le narrazioni dominanti. La mostra del 2005 rimane un punto chiave per un certo tipo di riflessioni sul ruolo del design nella società. Un ruolo che non è del tutto nuovo: già Viktor Papanek (1972), circa quarant’anni prima, aveva reclamato la funzione sociale del design, in un periodo in cui la progettazione passava da un’economia incentrata sulla soddisfazione di bisogni e necessità, a una orientata alla produzione consumistica di oggetti in grado di proiettare stili di vita e posizionare socialmente. Apparentemente il monito di Papanek si è perso nelle pieghe della storia, almeno fino a qualche anno fa. Stiamo assistendo infatti a un ritorno dell’idea di una progettazione che contribuisca allo sviluppo sociale, superando quella visione che associava il social-design alla produzione di beni caritatevoli, o eticamente affini alle tematiche ambientali, sociali ed economiche. Una produzione di oggetti in grado di agire sulle relazioni all’interno della società. Oggetti che aprono dibattiti, guidano riflessioni, contrastano le narrazioni dominanti, supportano contro-narrazioni, contestano lo status quo. Una visione assimilabile al concetto di Socio-design, elaborato da Brock (1977): critico del design di origine tedesca, coniò tale termine per definire lo spostamento che un certo tipo di design stava attraversando, non più devoto alla progettazione di oggetti, ma a quella di interazioni sociali (Baur, Felsing 2016).
Rispetto al passato, seppur con tempi lenti, nuove pratiche di socio-design stanno emergendo sotto la spinta di bisogni diversi da quelli di prima necessità, o di posizionamento sociale. Dal surriscaldamento globale alla sostenibilità ambientale, passando per l’imprendicariato (Lo Russo, 2018) ed i fenomeni migratori: sono parecchie le questioni sulle quali la società europea si sta confrontando, tematiche che Latour chiama matters of concern, preoccupazioni attorno alle quali si sviluppano dibattiti, scontri e tensioni, ed in cui gli oggetti possono svolgere un ruolo importante, articolando e supportando posizioni antagoniste rispetto alle narrazioni dominanti, verso una più ampia cultura della diversità ad una società più inclusiva.

Il fenomeno migratorio
Fenomeno antico quanto l’essere umano, negli ultimi anni si è trovato suo malgrado a dominare discorsi pubblici e politici, arrivando persino a condizionare l’agenda politica Europea. Oggetto di strumentalizzazioni e tensioni sociali, coadiuvate anche da crisi economiche, finanziarie, e lavorative, ha facilitato la crescita di movimenti xenofobi e sovranisti su buona parte del continente europeo. Già nel lontano 2013, il World Economic Forum metteva in guardia dalle minacce di una disinformazione di massa, un monito scarsamente considerato, del quale stiamo pagando le conseguenze. Negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a una produzione di informazioni senza precedenti (Quattrociocchi, Vicini 2016), a volte poco verificate o completamente infondate. Se combinate con il significativo analfabetismo funzionale (Duffy, 2018. Pagnoncelli, 2016) che affligge parte della popolazione europea, ed amplificate dalla cassa di risonanza offerta dai social network, danno luogo a un perfetto meccanismo di propaganda. Se pensiamo come il tema migratorio sia stato tessuto nella propaganda legata alla Brexit o nelle ultime elezioni dei principali paesi membri (Austria, Germania, Francia e Italia), possiamo comprendere quanto potente sia, o forse meglio, quanto la paura legata allo sconosciuto sia potente. Una lettura più approfondita dei risultati elettorali rivela una tendenza particolare: una maggiore quantità di voti a favore dei partiti con posizioni xenofobe, è arrivata proprio da quelle zone rurali con una minore concentrazione di persone dal background migratorio[1]. Data la complessità dei fenomeni sociali, non possiamo farne un assunto, ma rimane comunque un fattore indicativo di come la cultura della diversità, insita nella dimensione urbana, possa sicuramente supportare un atteggiamento più consapevole e meno fobico nei confronti dell’alterità.

Gli inizi
A questo punto, sorge una domanda: è possibile progettare esperienze, oggetti, ambienti che facilitino l’incontro tra le persone, verso una società più inclusiva, basata proprio sulla conoscenza e coscienza dell’altro? Una domanda alla quale ho sempre cercato di rispondere attraverso il mio lavoro e la mia ricerca, e attraverso la piattaforma sul visual journalism che ho co-fondato presso la Libera Università di Bolzano. Una pratica che in qualche modo ho contribuito a ridefinire sia in ambito professionale che accademico, attraverso i progetti e le pubblicazioni collegate. Nata intorno agli anni ‘70 come attività a cavallo tra giornalismo e comunicazione visiva, riferiva a quelle forme di giornalismo mediato dalle immagini (fisse o in movimento) (Machin, Polzer 2015). A distanza di anni sta vivendo una seconda giovinezza grazie all’introduzione dei media interattivi, delle infografiche, delle animazioni, e dei video, dando vita a delle vere e proprie esperienze informative altamente immersive.
Il mio contributo metodologico riferisce da un lato all’applicazione di metodi di co-design alla produzione di esperienze informative, dall’altro all’introduzione delle scienze sociali all’interno del processo di progettazione, con l’obiettivo di restituire la complessità dei fenomeni contemporanei a un pubblico più ampio, ed in maniera più approfondita ed accessibile. Sono convinto che la complessità non possa essere affrontata e descritta attraverso un singolo punto di vista. Gli ultimi progetti pubblicati hanno affrontato il tema migratorio su scala sia locale, che europea: La Repubblica Popolare di Bolzano racconta con dati e fatti come nel capoluogo non si stia assistendo ad una “invasione cinese”, nonostante i principali media locali paventassero addirittura l’esistenza di una Chinatown. Europa Dreaming, invece, affronta la cosiddetta “crisi dei migranti”, un racconto multimediale che ha riposizionato il fenomeno su una scala temporale più ampia, spostando l’attenzione e la causa della crisi, dai migranti, all’Unione Europea. É infatti la crisi dell’Europa, un’unione economica e non ancora politica, tuttora incapace di affrontare in maniera strutturale il fenomeno migratorio, un’unione che si sta lentamente disgregando per sua stessa mano, per effetto, anche, del fenomeno migratorio. Sono progetti di comunicazione che hanno aperto un dibattito a livello locale e che hanno contribuito a quello nazionale ed europeo, fornendo nuovi punti di vista e servendo come base di conoscenza a supporto di una discussione più informata.
Ho passato gli ultimi due anni a raccontare questi progetti e le metodologie messe in atto davanti a pubblici specifici e non, sia in Italia che in Europa. Spesso, ho incontrato altre persone che con i propri strumenti hanno provato a rispondere alla domanda di inizio paragrafo: come progettare esperienze, oggetti, ambienti che facilitino l’incontro tra le persone, verso una società più inclusiva? Designer, architetti, attivisti, operatori sociali e cittadini, hanno dato luogo a nuove pratiche, nate spesso all’ombra dei dibattiti e delle narrazioni dominanti; progetti che stanno mostrando un approccio differente alla convivenza, spesso mediato attraverso gli oggetti.

Rifùgiati, Casette per bambini | "Talking Hands" Fabrizio Urettini

Il progetto Talking Hands, ad esempio, fondato da Fabrizio Urettini a Treviso, ha dato vita a un atelier artigianale all’interno del quale migranti e designer collaborano verso la produzione di prodotti come elementi d’arredo, abiti, tappeti, oggetti che appunto non appartengono al mondo della produzione caritatevole ma sono veri e propri abilitatori di relazioni sociali. Quello ideato da Urettini è infatti un sistema che motiva i ragazzi a recarsi in ferramenta ad acquistare i materiali, sforzandosi di comunicare in italiano e rompendo quel muro invisibile che separa noi e loro. I prodotti, una volta venduti, vengono recapitati a mano, sempre da chi, quel prodotto, l’ha fabbricato, esponendo di fatto i ragazzi alla conoscenza della città e viceversa.

Un obiettivo comune al progetto Lampedusa Cruises, ideato da Teun Castellein ad Amsterdam: un’imbarcazione di 12 metri, la Alhadj Djumaa, partita dall’Egitto il 25 Luglio 2013 e sbarcata a Lampedusa con 282 migranti. Trasportata fino nei Paesi Bassi, è stata restaurata e trasformata in un natante elettrico con il quale far scoprire la città ed il ruolo che i migranti hanno avuto nella sua storia, sviluppo, e crescita, ad un pubblico di cittadini e turisti. Il racconto è a sua volta mediato da alcuni migranti che, su quelle imbarcazioni hanno attraversato il mediterraneo, dando vita ad un’esperienza narrativa fortemente immersiva.

Di diversa concezione il progetto della sartoria Senza Peli sulla Lingua, ideata dal gruppo Landscape Choreography e condotta da Maddalena Fragnito, un laboratorio di cucito che si rivolge alle donne immigrate. L’attività sartoriale, oltre ad essere un elemento di forte comunanza tra le diverse culture delle partecipanti, si rivela anche un ottimo espediente per far emergere i nodi interiori, facilitare il confronto e la riflessione su temi personali e sociali. Durante le sessioni di cucito sono così emerse preoccupazioni, ansie e speranze che sono state a loro volta ricamate su alcune t-shirt, messe infine in vendita per finanziare il progetto stesso. Anche qui, nuovamente, non si tratta di design caritatevole, quando invece di una produzione di artefatti dal forte valore simbolico e comunicativo, che portano alla ribalta questioni urgenti come non mai.

L’Alhadj Djumaa e il suo equipaggio | "Lampedusa Cruises" Teun Castelein
"Senza peli sulla lingua", Landscape Choreography | Maddalena Fragnito

Il presente
Nel giro di due anni, ho raccolto molte esperienze progettuali che non potevano rimanere nell’ombra, ma che meritavano di essere portate alla ribalta, raccontate, rese visibili. Per questo motivo ho deciso di dare vita alla piattaforma online Design for migration, con l’intenzione di radunare in un singolo luogo le pratiche di socio-design più significative sul territorio europeo a racconto/supporto del fenomeno migratorio. Nel giro di un anno ho raccolto venti esperienze progettuali, che spaziano dalla produzione di libri a quella di prodotti, passando per la produzione musicale. Progetti in cui la produzione dell’artefatto non è il fine, ma il mezzo attraverso il quale vengono attivate nuove relazioni all’interno del tessuto urbano, verso la decostruzione di quei muri invisibili che spesso ci separano dagli altri. Design for migration è un progetto nato spontaneamente, senza scopo di lucro, che ultimamente è stato trasformato in un progetto di ricerca, con l’obiettivo di far emergere possibili metodologie o strategie progettuali comuni ai vari casi studio collezionati.
La raccolta dei progetti avviene sia attraverso la piattaforma stessa che invita potenziali contributori a inviare i propri materiali, sia attraverso la rete di conoscenze che ho sviluppato negli ultimi anni, sia a livello nazionale che europeo. Non tutti i progetti ricevuti sono stati pubblicati: particolare rilievo è stato dato agli aspetti di socio-design connessi al progetto: come questo agisce a livello sociale e contribuisce al dibattito, oltre agli aspetti più formali legati alla dimensione del design. La raccolta e conseguente pubblicazione delle esperienze di socio-design più significative si articola su tre obiettivi primari:

  • Dare o ri-dare maggiore visibilità ai progetti;
  • Connettere tra di loro i progettisti coinvolti;
  • Ispirare il pubblico del design su nuove pratiche e modelli di lavoro.

Infine, un effetto secondario è ovviamente quello di raccontare in maniera positiva la migrazione e l’integrazione, verso nuove forme di convivenza e collaborazione.

Dare o ri-dare maggiore visibilità ai progetti
Progetti così importanti meriterebbero molto più spazio da parte dei canali informativi tradizionali e, anche quando questo avviene, è purtroppo per un tempo molto limitato dato il veloce ciclo di vita delle notizie online. Spesso i progetti pubblicati non dispongono di supporti informativi, non hanno, ad esempio, un vero e proprio sito internet: la promozione online non viene spesso contemplata nel momento in cui si opera in situazioni localizzate. Le necessità primarie non sono quelle di comunicazione verso l’esterno, ma probabilmente di sostenibilità economica e di comunicazione interna. Design for migration serve così anche da amplificatore informativo, dando maggiore visibilità ai progetti, attraverso la propria piattaforma e la pagina Facebook, che ha una portata di più di 7000 persone raggiunte. Nel caso dei tre progetti presentati sopra, la piattaforma è servita da tramite per consentire a media, centri ricerca ed istituzioni culturali di entrare in contatto con i designer dietro ai progetti[2].

Connettere tra di loro i progettisti coinvolti
Uno degli aspetti più importanti, inoltre, è quello di connettere le diverse realtà sul territorio europeo. Data la specificità e la freschezza della pratica, è fondamentale creare un network di socio-designer, che lavorano e si scontrano quotidianamente con tutte le questioni che gravitano attorno al tema della migrazione e dell’integrazione. Da un lato c’è l’ambizione di supportare la fertilizzazione di nuove collaborazioni, dall’altro quello di facilitare il lavoro dei socio-designer, mostrando quello che è già stato fatto, come e dove, così da migliorare la pratica stessa, verso l’emersione di possibili best-practices. Nonostante la complessità insita nelle dinamiche sociali che difficilmente ne permetterà la replicabilità, ci sono comunque fattori comuni a tutti i progetti, che indicano strategie piuttosto precise per avviare e sostenere nel tempo un progetto di socio-design con i migranti.

Ispirare il pubblico del design su nuove pratiche e modelli di lavoro
Infine Design for migration si rivolge a tutti quei progettisti, studenti di design, cittadini, attivisti ed operatori sociali che cercano nuovi sguardi alla questione migratoria, sia ispirando nuove pratiche, sia servendo come base di conoscenza per tutte le persone che intendono confrontarsi con la progettazione attorno al tema migratorio.

Il futuro
Inaugurato un anno fa con 6 progetti sul territorio nazionale, attualmente ne conta 20, con contributi da tutta Europa, nonostante la maggioranza italiana. L’ultimo aggiornamento risale a Gennaio 2019, ma la crescita dei progetti non è paragonabile ai ritmi iniziali. C’è sempre più bisogno di pratiche del genere, ma non è così semplice metterle in piedi. Quello che sta emergendo, dopo una serie di interviste con i designer coinvolti, è la dimensione quasi alchemica che permette a certi progetti di affermarsi e sostenersi nel lungo termine. Trovare finanziamenti, relazionarsi con un gruppo di migranti con necessità e culture differenti, sviluppare un sistema circolare che permetta il sostentamento del progetto, relazionarsi con tutti gli stakeholder che ne facciano parte e non (amministrazioni, prefetture, etc.) ed infine essere sempre pronti a rimodellare il processo in base ai cambiamenti legislativi, politici, i nuovi arrivi e le nuove partenze: non è affatto facile.
Il prossimo passo sarà quello di analizzare più in profondità le pratiche raccolte, attraverso una loro mappatura e confronto, verso la compilazione di una serie di linee-guida, best-practices, o più semplicemente strategie che si sono rivelate efficaci per il raggiungimento di obiettivi precisi. Non si tratta solamente di questioni centrali alle pratiche i design, ma anche questioni apparentemente banali e date per scontate come il concetto di “puntualità”, che rischiano di ostacolare o rallentare il lavoro di gruppo, soprattutto in quei progetti che prevedono la partecipazione dei migranti. Legato alla concezione del tempo e dei ritmi di vita, è un aspetto strettamente culturale, che varia di paese in paese e che rischia di inficiare il flusso di lavoro se dato per scontato e non preventivamente affrontato e negoziato. Analogamente anche l’apprendimento della lingua, che è fondamentale per il processo di integrazione, è un’altra di quelle attività che vanno sostenute con forza e tessute all’interno della pratica progettuale.
Anche per questo motivo Design for migration si pone come portatore del nuovo modo di progettare per la società: un contenitore di buone pratiche su come anche gli artefatti possano essere portatori di un’informazione trasparente, facilitatori di relazioni e di incontri, sostenitori di una accezione assolutamente positiva di diversità.

Note
[1] https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/dec/12/trump-brexit-cities-countryside-rural-voters
https://orf.at/wahlergebnisse/nr17/#globus
https://www.reuters.com/article/uk-austria-election-kurz/kurzs-fresh-face-may-keep-austrias-old-conservatives-in-power-idUKKBN1CG1PW
https://www.ft.com/content/e7c7d918-a17e-11e7-b797-b61809486fe2
[2] Design for migration non è e non sarà mai un’agenzia o un ufficio di collocamento per designer che lavorano con i migranti, i riferimenti per contattare i designer sono pubblici proprio per questo motivo.

Bibliografia

Baur R., Felsing U., Researching Visual Application Respectful of Cultural Diversity.
Brock B., Ästhetik als Vermittlung. Arbeitsbiographien eines Generalisten, hg. von K. Fohrbeck. Köln, 1977.
Duffy B., Perils of Perception: Why We’re Wrong About Nearly Everything, Atlantic Books 2018.
Lorusso S., Enterprecariat. Krisis Publishing 2018.
Machin D., Polzer, L., Visual journalism, Macmillan International Higher Education 2015.
Pagnoncelli N., Dare i numeri. EDB 2016.
Papanek V.,Fuller, R.B., Design for the real worl, Thames and Hudson, London 1972.
Quattrociocchi W., Vicini A., Misinformation: Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli 2016.
Weibel P., Latour, B., Making things public, 2005.

Matteo Moretti works as researcher and lecturer at the Faculty of Design and Art of the Free University of Bolzano where he co-founded the Visual Journalism research platform and the Visual Journalism Summer school, the first in Italy. Presently he is a Ph.D. candidate at the Inter-Action Department of Computer Science of Trento. Matteo Moretti explores innovative methods to inform and researches on visual journalism methods and practices working with transdisciplinary teams, to return the complexity of social phenomena in a more transparent and engaging information to a broader audience. He is a TEDx speaker, World Press Photo Jury member, Visualized.io speaker, awarded with the Data Journalism Award and European Design Award.