§Memorie di Famiglia
DEMERITI
di Giovanni Ferrara

«Le decorazioni al valor militare sono istituite per esaltare gli atti di eroismo militare, segnalando come degni di pubblico, onore agli autori di essi e suscitando, ad un tempo, lo spirito di emulazione negli appartenenti alle forze militari»

«[…] La concessione di dette decorazioni può aver luogo tuttavia solo quando l’atto compiuto sia tale che possa costruire, sotto ogni aspetto, un esempio degno di essere imitato»

     Regio decreto del  4 novembre 1932, n. 1423 articolo 1 e 3
(Attualmente articolo numero 1410 del codice dell’ordinamento militare)

Per anni ho guardato il quadro con occhi di stupore e di vanto.
Alle scuole elementari, durante le lezioni di storia, capitava spesso di portare con me questo oggetto mostrandolo alla classe come una reliquia sacra, come testimonianza familiare della storia.
Per anni è stato così, forse grazie anche al fatto che spesso alle memorie familiari si unisce quel sentimento di  rimozione collettiva, che enfatizza e trasla il racconto della storia stessa.

Con il tempo e con la ricerca sono emersi elementi nuovi, il racconto trovava un campo di battaglia in cui doversi scontrare con tanti altri racconti, con documentazioni, pagine di testimonianze di chi guardava la storia dall’altra parte, da un punto di vista diverso.
Gli archivi si sono aperti ed è caduto il velo che forse mascherava il vanto ed il valore.

Quando ho ereditato questo oggetto, mi sono reso conto di possedere una narrazione che non era solo familiare, forse lo era diventato nel corso degli anni. Le lettere, le diciture, le date elencate riportavano una narrazione istituzionalizzata.
Le parole in grassetto evidenziavano “Grande Invalido di guerra a vita”.

Mi sono reso conto che il valore militare, la propria autocelebrazione, il proprio potere magnetico era solo utile a fornire un ulteriore racconto, lo stesso che forse fornivo anche io alla mia classe con orgoglio.
Esisteva però qualcosa di altro, di molto più mascherato che spesso nelle famiglie non viene svelato per pudore, o semplicemente per non rispolverare vecchi e amari ricordi come ad esempio il periodo successivo ad un evento traumatico, il preciso attimo in cui terminata la guerra cade il silenzio, o forse cade il racconto.

Accanto a questo racconto, di riflesso alla decorazione militare, esistevano circa trecento pagine di cartella clinica appartenute al mio stesso familiare, che rappresentavano forse la vera testimonianza.
Il contenuto era denso e marcato, alle domande dei medici riportate nell’anamnesi, corrispondevano risposte taglienti, fiere, schiette del soldato decorato che diventava in questo contesto semplicemente  un paziente.
Tutto questo non era mai emerso, probabilmente perché questa contronarrazione scalfiva il gesto eroico, anche se entrambi i periodi erano concatenati, legati cronologicamente e riferiti allo stesso evento, la guerra sul fronte dell’Africa Settentrionale.

In entrambi casi però era evidente la mancanza, i due elementi, cartella clinica e decorazione al valor militare viaggiavano parallelamente senza mostrarsi mai insieme.
Si rimuovevano a vicenda.
In questo scenario personale e di ricerca nasce il lavoro De-meriti.

Nell’ordinamento giudiziario militare, la rimozione del grado è una punizione disciplinare di massimo rigore. Mentre in psicanalisi  il processo di rimozione è utile a rendere inconsci ricordi che altrimenti sarebbero fonte di angoscia, mettendo in atto un meccanismo di difesa.
De-meriti è un lavoro che oscilla fra queste due pratiche, partendo proprio dalle decorazioni militari e dalle cartelle cliniche, documenti ereditati ed appartenuti ad un familiare che nel 1940 prese parte alle azioni militari in Africa Settentrionale.

Lo spazio del soggetto erede, e quindi il mio spazio, diviene un elemento ambiguo, in cui il rapporto distanza/vicinanza storica, sociale o anche temporale risulta complessa.
Nel lavoro presentato l’erede sono io, ma cerco di attribuire a questo “diritto” il dovere morale di confrontarmi con una memoria collettiva che riecheggia negli stessi oggetti.
Tecnicamente colui che accetta la chiamata all’eredità, compie un processo di accettazione di beni o crediti, ma anche di eventuali mancanze.

Si può ereditare una medaglia? Si può ereditare la mancanza?

Questo lavoro risulta essere quindi un tentativo di analizzare quel complesso rapporto fra l’ erede e l’assenza che si genera.
Il concetto di eredità viene traslato opponendosi alla definizione giuridica del singolo, per divenire fattore di condivisione culturale e spazio di conflitto che investe la questione dei processi di attribuzione di valore.
Quest’ultimo elemento è parte fondamentale del lavoro, che si presenta come un’ opera di traduzione non fedele, nutrita dalla necessità di “profanare” un oggetto che emotivamente e concettualmente possiede una grande carica sacra, familiare e di appartenenza.

Il bisogno di comprendere l’ingiustizia permette di cercare con ogni mezzo di togliere il velo emotivo che normalizza il personale rapporto con gli oggetti, con lo scopo di entrare in quell’ideologia falsa e quella superficialità istituzionalizzata che lega gli elementi del lavoro.
La medaglia che scompare, lasciando posto al linguaggio medico della cartella clinica proietta una forma di rimozione che appunto oscilla fra pratica terapeutica e ordinamento militare.
In fondo le memorie di famiglia possono rappresentare proprio questo, delle rimozioni o eredità composte da piccoli traumi collettivi. Ed è in questa condensata e consolidata rappresentazione sociale che il lavoro si insedia e si compie.

La profanazione della reliquia o in questo caso della rappresentazione, è un controdispositivo che restituisce all’uso comune ciò che il sacrificio ha creato (Agamben,2006) ed ha reso quindi sacro.
Questo concetto può diventare parte attiva di un’immagine che, dismessa dal suo stesso passato e dalla sfera dell’individualità, si colloca in uno scenario collettivo sotto forma di esperienza o di pratica (Mauri, 2012).
Questa esperienza è composta da tanti passati, da tante narrazioni che inciampano nella storia, spalancando la possibilità di un dialogo rinnovato, di una rilettura che rende la storia sempre contemporanea e non immobile nel tempo.

Esiste il passato di  tutti, ed il passato degli altri.

Bibliografia

Mauri F., Ideologia e Memoria, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Milano 2006.

Giovanni Ferrara nasce a Napoli nel 1991, si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli con un lavoro dal titolo Cas-sa, analisi nata all’interno dello spazio-limite dei centri di accoglienza straordinaria. Il personale lavoro di ricerca si sviluppa attraverso l’analisi e l’indagine sul rapporto dell’uomo con gli accadimenti storici, utilizzando mezzi disciplinari vari con l’obiettivo di azionare meccanismi minimi utili a fornire una nuova lettura del reale.