Long Lasting Landscapes è un progetto di Dance Makers presentato all’Accademia delle Belle Arti di Brera lo scorso novembre. Curato da ZONA K e Stanze, questo itinerario coreografico site-specific ha visto la partecipazione di un gruppo di studenti del biennio specialistico di Scenografia teatrale e di Costume per lo spettacolo. I danzatori hanno abitato il cortile d’onore, il loggiato, le gradinate, i corridoi, i sotterranei e la gipsoteca di Brera.
Lo spettacolo consisteva in una serie di momenti, ora molto collettivi e solari, altri intimi e sussurrati, caratterizzati dalla presenza del movimento come filtro attraverso cui leggere le architetture e le collezioni. Un ulteriore flusso era quello costituito dagli spettatori in movimento fra un punto e l’altro di questa nuova mappa sensibile.
Noi, pubblico, indossavamo delle cuffie ed eravamo goffissimi, come spesso gli adulti quando escono dalla parte, e perciò anche indifesi e disponibili alla scoperta. Per questo, e perché il lavoro metteva in luce le energie sottili di spazi tanto noti, feriali eppure fascinosi fino allo struggimento (a saperli guardare), ho intervistato i Dance Makers, che qui rispondono collettivamente attraverso la voce di Ilaria Marcolin. Ringrazio particolarmente anche Ilaria Campagnolo per le conversazioni e gli scambi intorno allo spettacolo.
Questo numero della rivista è dedicato alla relazione fra roots e routes, fra radici e strade. Se la macro-cornice è data da questa tensione, in che modo avete affrontato la relazione con il monumento? Per voi era principalmente un edificio storico, un museo, una scuola d’arte o che altro? Mobilizzarlo, scuoterlo, farlo echeggiare nella sua secolare staticità, offrire punti di vista inediti: quale di queste tracce – o forse altre ancora – hanno guidato la vostra progettazione?
La relazione fra radici e strade ci fa pensare all’arte pittorica di Hopper (penso soprattutto a Gas/ Benzina) in cui il paesaggio costruito dall’uomo e il paesaggio naturale trovano il punto di incontro delle loro dimensioni nello spazio stesso che disegnano insieme e in cui sono dipinte. Spazio in questo caso inteso come volumi, linee, direzioni, architetture che si incrociano e si adattano tra loro per creare un’immagine comune e condivisa, per raccontare la storia e l’evoluzione del paesaggio stesso.
Long Lasting Landscapes è un progetto che, in un certo senso, parte dalla consapevolezza che lo spazio urbano e architettonico costituisce il risultato di studi secolari che l’uomo ha affrontato a partire dallo spazio del suo stesso corpo. I monumenti sono naturali emanazioni dello spazio interno ed esterno di chi li ha progettati. Il primo passo, pertanto, che abbiamo compiuto una volta arrivati a Brera è stato quello di osservare e ascoltare ciò che lo stesso spazio aveva da dirci e raccontarci. Alcuni di noi erano arrivati già con un’idea in embrione, ricercando tra le opere e le architetture la cornice più adatta alla sua realizzazione; altri hanno preferito lasciare che fosse l’edificio stesso a evocare, a suggerire la nascita dell’azione performativa. Qualcuno di noi è più incline a farsi ispirare dall’architettura in sé e allo studio dello spazio che se ne ricava, altri si affidano alle sensazioni più intime ed emotive che quello spazio suggerisce e alla loro traduzione in linguaggio corporeo. Nel risultato finale, il corpo viene posto al centro di uno spazio architettonico inteso nella completezza della sua essenza: un luogo “esterno” nelle sue geometrie di strutture, di spazi pieni e spazi vuoti, ampiezze e chiusure ma anche luogo interno di memorie, di sensazioni e di storie che lo spazio racconta.
In questo senso abbiamo voluto proporre allo spettatore diverse possibilità di vivere i luoghi dell’Accademia, rendendolo partecipe di un percorso esperienziale e sensoriale diversificato. Il principio di base che lo ha animato è stato “osservare come vengono incorporati gli spazi che attraversiamo” e “come possano condurre a stessa sensazione/senso una collettività”.
Si potrebbe dire che, più che offrire punti di vista inediti, il lavoro porta in superficie e fa echeggiare ciò che già c’è ed esiste negli spazi che abitiamo: dobbiamo solo porci in una condizione di ascolto e di apertura sensoriale nei confronti del luogo stesso e dei mille dettagli che lo compongono.
Da spettatrice, ho vissuto Long Lasting Landscapes come una forma di respirazione dilatata: momenti aerei e altri quasi di apnea, vedute dall’alto come in certi dipinti delle avanguardie e immersioni nei sotterranei come nelle storie gotiche o in un certo immaginario degli Scapigliati (quelle di cui scriveva Aby Warburg: la storia dell’arte come una “storia di fantasmi per adulti”). La vicinanza ai performer e la possibilità, a tratti, di sentirne il respiro ha aumentato questa percezione. Di fondo, mi è parso soprattutto un viaggio interiore, nelle proprie viscere. Voleva essere (anche) questo, o voleva essere piuttosto un momento pubblico, corale? Quali reazioni avete raccolto, in generale, dagli spettatori? Danzare in spazi pubblici – il cortile di Brera è aperto a tutti, anche a passanti e turisti – vuol dire esporsi allo sguardo di quei tutti, e all’imprevedibilità delle loro reazioni.
Il rischio, nello spazio pubblico, dell’imprevedibilità delle reazioni dei passanti a un’azione performativa in corso, è un elemento mutevole di cui non si può non tener conto. Noi consideriamo l’imprevedibilità non come un qualcosa che possa impedire la realizzazione di un’idea, bensì come forza generatrice di novità, in quanto può costringerti a rivedere i piani e a trovare soluzioni, nella maggior parte dei casi, sorprendenti. Nel caso specifico di LLL, l’imprevedibilità delle reazioni dei passanti è l’ingrediente segreto di tutta l’operazione. Pone il performer in una condizione di continuo riadattamento della sua azione scenica ma soprattutto permette di metter luce sul concetto di spazio come luogo di costante trasformazione. Ogni passante e loro reazione cambia il disegno dello spazio e la relazione fra i suoi elementi. È compito del performer creare un collegamento (spaziale, temporale e di relazione) con il nuovo elemento e dichiararlo come parte integrante dello spazio.
In ambito performativo in spazi urbani, la prossimità degli spettatori diventa inevitabilmente elemento di valutazione e di discussione, ancor di più se questi entrano attivamente nella scena, contribuendo alla sua realizzazione. Noi Dance Makers abbiamo dedicato una grossa parte del tempo a nostra disposizione a studiare e testare, tappa per tappa, quali fossero le condizioni ideali per il pubblico, affinché potesse fruire al meglio dell’esperienza. Quando si parla di paesaggio, la distanza e la prospettiva da cui si decide di osservarlo sono elementi necessari al tipo di reazione che abbiamo del paesaggio stesso. Pertanto, una delle domande più essenziali che ci poniamo è il luogo/la distanza/il punto di vista in cui vogliamo porre il pubblico rispetto alle varie tappe dell’itinerario. Il pubblico assume un ruolo fondamentale perché esso stesso determina e disegna lo spazio stesso di azione (per noi) e di osservazione (per loro). Da qui deriva sicuramente una doppia dimensione di viaggio personale e corale dell’itinerario, in cui il pubblico non è sganciato dall’opera ma ne è parte esso stesso.
Come sentirsi confortevoli, ma allo stesso tempo partecipanti all’azione? La vista, l’udito, il tatto, l’olfatto, tutti strumenti a disposizione degli spettatori, che abbiamo voluto fossero per loro utili lungo il percorso. Abbiamo, infatti, alternato momenti di vicinanza a momenti di lontananza, spostandoci da proposte in cui si chiedeva semplicemente di contemplare la scena in movimento, ad altre in cui si invitava la partecipazione attiva e l’interazione tra le persone.
Come avete lavorato con gli studenti dell’Accademia di Brera? Avete affrontato con loro la pratica corporea o c’è stata una separazione fra chi danzava e chi progettava? Pensate che l’elemento dell’esperienza fisica e sensibile dei luoghi possa essere un suggerimento che verrà accolto, in Accademia, dal punto di vista educativo? Raccontateci il processo e il metodo.
Il lavoro con gli studenti è stato entusiasmante. Fin da subito abbiamo proposto loro le nostre pratiche corporee, come strumento per noi di presentazione, e per dar loro un assaggio di come possono essere visti e attraversati gli spazi, in vista del lavoro collettivo di costruzione dell’itinerario. Alcuni di loro hanno anche accolto il nostro invito a prendere parte fisicamente alla performance finale. In un secondo momento abbiamo presentato loro le nostre prime bozze di ricerca. Da lì è iniziata una conversazione collettiva intorno alle specifiche degli spazi scelti. Man mano che le visioni di ognuno di noi si andavano a delineare, ogni Dance Makers è stato affiancato da un gruppo di scenografi e costumisti, in un lavoro che ha lasciato spazio di esistenza a tutte le parti in gioco. Non c’è stata separazione, ci è sembrata la situazione ideale in cui professionalità diverse contribuiscono a una stessa azione, con la grande consapevolezza di nutrirsi a vicenda. Il processo sembra essere arrivato nella sua intensità anche al corpo docenti dell’Accademia. Sul futuro non si sa. Si semina con speranza.
Alcuni di voi vengono dall’esperienza di Dance Well, una pratica innovativa rivolta ai malati di Parkinson che in Italia ha trovato spazio, ormai diversi anni fa, nei musei di Bassano del Grappa. Che relazione, anche in quell’occasione, avete stabilito con il museo, come dispositivo culturale e come spazio fisico? Perché danzare nel museo?
La scelta di danzare nel museo scaturisce dall’intuizione di Roberto Casarotto rispetto alla percezione che abbiamo dei luoghi museali: arte e museo sono naturalmente e immediatamente associate nella percezione comune.
Muoverci o anche solo “essere” fisicamente in una sala museale ci porta in un luogo “altro” e conferisce al nostro gesto una valenza artistica, indipendentemente dal fatto che tale gesto sia eseguito da un danzatore professionista o da un danzatore Dance Well. Molto spesso noi insegnanti ci lasciamo ispirare e suggestionare dall’enorme generosità dei nostri, ormai affezionati, frequentatori delle classi nei musei, trovando arricchimento per le nostre pratiche di artisti e studiosi del corpo.
Per chi è affetto da malattia di Parkinson, ma di fatto per ognuno di noi, la pervasività della bellezza in cui si è immersi e la ricchezza di memorie e di immaginari consentono di attivare molteplici stimoli sensoriali e, opportunamente guidati, trovare, o ritrovare, nuove possibilità di movimento espressivo.
Allo stesso tempo, una pratica di danza consente una fruizione delle opere d’arte da prospettive e punti di vista inconsueti e inaspettati.
Dance Makers è un gruppo di artisti della danza nato nel 2017 in seguito alla partecipazione a Dance Makers1, progetto organizzato dal CSC – Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa. Il gruppo è composto da danzatori, insegnanti, insegnanti Dance Well – movement research for Parkinson e coreografi. I Dance Makers hanno pensato e realizzato itinerari coreografici in spazi non convenzionali, attività di ricerca sulle pratiche coreografiche e restituzioni di spettacoli in occasione di B.Motion Danza Operaestate – Festival Veneto, Festival Ammutinamenti – Cantieri Danza e Gender Bender Festival. Hanno danzato in progetti a cura di Iván Pérez, James Batchelor e Silvia Gribaudi, e attualmente sono impegnati in una nuova creazione con il coreografo Andrea Costanzo Martini. Parallelamente continuano a realizzare spettacoli site-specific in musei e spazi urbani, e sono attivi nell’organizzazione di workshops per professionisti e non-professionisti.