§archivio è potere
Da before- ad after- images.
Gli oggetti orfani e la mostra come archivio
di Stefano Mudu

 «Objects plural.
One everywhere.
Relics of our time,
needs the other to have any relevance»
L. Prouvost, 2019

Oggetti plurali, ovunque
Delle tante e incrociate narrazioni che affollano le performance e i video di Laure Prouvost rimane un’abbondanza di oggetti che, come impressioni della memoria, intrappolano uno o più frammenti di una storia ampia, mai conclusa. Attraversare AM-BIG-YOU-US LEGSICON (2019), Grand Dad’s Visitor Center (2016-17), o immergersi nel Deep See Blue [1] al Padiglione Francia dell’ultima Biennale di Venezia (2019), significava entrare in grandi costellazioni mediali i cui oggetti di scena apparivano al pubblico come superstiti del momento performativo che li aveva generati. Tra parrucche afro e poltrone di un salone di bellezza, ad esempio, l’installazione The Wander (God First Hairdresser) [2] (2013) era costruita come una dilatazione dello spazio scenico in cui era stato registrato il video al suo interno e, per dirla con Prouvost, lo spettatore stesso «was to become the seat it was sat on» [3]; il suo sguardo si immergeva in una realtà espansa in grado di ri-arrangiare i ruoli e rendere ogni oggetto una traccia della narrazione che lo aveva generato.
Spesso accompagnate da targhe che specificano il loro carattere residuale, queste reliquie [4] sono addirittura posizionate in piccole mensole o costrette (come reperti) in colate di resina e, mentre ribadiscono la loro autonomia spesso provvisoria, già trattengono la tensione che le trasformerà in qualcos’altro.
A prescindere dalla veridicità dei contenuti che veicolano – sempre intessuta di realtà e finzione –, lo statuto di questi oggetti coincide proprio con la loro partecipazione a un flusso che ne risignificherà costantemente la natura e/o l’ordine di apparizione. Alcuni sono ready-made già memori di una precedente condizione, altri sono materiali deperibili – scarti di cibi destinati a non vedere nuova vita –, altri ancora sono prodotti artigianali, artefatti pronti a sopravvivere al tempo e al luogo dell’installazione in cui sono inseriti o alla narrazione di cui sono stati “accessori”. A dispetto dell’erranza che li impegna in preziose operazioni di aggiornamento e meticciato, questi props talvolta si fermano e sedimentano in configurazioni fisiche che li traducono in “oggetti discreti” [5] o li fanno convivere con altro materiale sincronico secondo un modello assolutamente archivistico: gli oggetti che appaiono nella mostra They Are Waiting For You, ad esempio, rivendicano, immobili, una provvisoria emancipazione dal video Dit Learn (2017), prima di essere riutilizzati nell’omonimo spin-off performativo pochi mesi più tardi [6].
In generale, queste immagini – e con buona approssimazione quelle implicate nella maggioranza delle esperienze time-based – sono materiali costitutivamente migranti nel tempo e nello spazio: una caratteristica che li rende ubiqui o, interpretando Prouvost, “oggetti plurali” in grado di posizionarsi nella storia come materiale inesausto in continua circolazione.
In via del tutto teorica, infatti, applicando al nomadismo di queste immagini un modello temporale prima-dopo (before-after), emerge con assoluta evidenza come ogni oggetto interpreti un ruolo di riferimento (before-image) per qualsiasi messa-in-scena e sopravviva a quest’ultima rivelando una versione aggiornata di sé: un momento inedito in cui, pur portando memoria del processo che lo ha generato, dichiarerà la propria indipendenza come after-image. Bloccato in questa sua forma, sarà consegnato alla mostra o all’archivio che ne gestirà il periodo di “inattività” fino al momento in cui non ritornerà before-image per ulteriori aperture.  Anche per Prouvost, si può dire, il momento di “archiviazione” rappresenta una fase del ciclo di questi oggetti e, sia che si materializzi in luoghi fisici, sia che si esprima come paradigma discorsivo che ne governa l’apparizione, coincide con la possibilità di trasformare qualsiasi «repertorio irrigidito di immagini normalizzate» (Montani, 2010, p. 69) in una serie di materiali perpetuamente impegnati in un processo migratorio.
Se la funzione delle before-images non sembra creare grossi problemi – anche grazie all’idea secondo cui l’archivio è un deposito di esperienze pregresse che, dunque, “vengono prima” – la loro resistenza, il loro essere after-images, richiede qualche specifica e forse chiarisce l’utilizzo degli inglesismi.
Con il termine afterimages, le neuroscienze descrivono il fenomeno per il quale l’impressione di un’immagine rimane nell’occhio di un osservatore per un tempo considerevole, anche dopo la rimozione della causa originaria. Tralasciata la positività o negatività dei risvolti clinici [7], questi spettri allucinatori sono facilmente assumibili come metafora culturale di persistenza e durata, tanto che, nella teoria delle immagini, il termine è stato talvolta associato a una produzione visuale in grado di testimoniare i traumi della storia [8] o la memoria della stessa. Senza snaturare il senso originale di questi “fantasmi sensoriali” [9] – i cui tratti, va detto, ben si associano alla phantasia [10] o ai phantasmata [11] warbughiani –, l’utilizzo del termine after-images [12] ha qui un senso prima di tutto strutturale, letterale forse: indica una categoria di prodotti visivi che “arriva dopo” e che, in virtù del modello temporale frammentato basato sulla ri-circolazione delle immagini, “rimane” materiale occorrente anche quando l’esperienza che li ha prodotti sarà trascorsa.
Nonostante after-image indichi l’evidenza di una sopravvivenza, e non, per dirla ancora con Warburg, la sopravvivenza stessa – Nachleben –, sarà inevitabile far emergere come, all’interno del ciclo descritto, qualsiasi immagine porti memoria della sua precedente manifestazione o dell’esperienza che l’ha creata. L’accezione data al termine in questa occasione dunque, è solo apparentemente didascalica e impone invece una riflessione sul ruolo specifico che le immagini assumono su due mutui fronti: in relazione al processo archivistico che li gestisce – il loro ‘venir dopo’ nel ciclo migratorio –, ma anche, e soprattutto, rispetto all’organizzazione interna dell’oggetto artistico, o al loro esserne residui.

Installation view of Laure Prouvost, "They Are Waiting for You", Walker Art Center, October 12, 2017–February 11, 2018. Photo: Gene Pittman, courtesy Walker Art Center.

Gli oggetti orfani
Secondo Sven Lütticken, la possibilità di resistere al tempo specifico della propria messa-in-scena ha coinvolto qualsiasi esperienza time-based successiva all’avvento del cinema. Fin dai primi esperimenti sul montaggio, il mezzo filmico ha contribuito a rendere le sue immagini accumulabili e riutilizzabili (Cfr. Lütticken, 2013, p. 7) – still da video ma anche interi set e oggetti di scena – e ha esteso il medesimo potenziale anche a eventi, azioni, performance, o a qualsiasi esperienza artistica la cui condizione fisica possa dirsi influenzata da una dimensione temporale.
Sotto questa luce, anche la regola aurea della performance contemporanea, la cui unica autenticità coincide con il momento della sua messinscena [13], dovrebbe far i conti con l’abbondanza di materiale prodotto dall’atto performativo e destinato a rimanere come “documento” o “testimone”.
La differenza tra questi due termini non è secondaria, anche se entrambi rientrano nel reame delle after-images o, per usare i termini di Peggy Phelan, rappresentano l’afterlife della performance: sono investiti del suo significato ma diventano altro rispetto a essa [14]. Il “documento” – solitamente ottenuto con il mezzo fotografico o filmico – registra un evento allontanandosi dallo spazio scenico e (spesso) generando un livello enunciativo ulteriore rispetto a quello della sua esecuzione [15]. Proprio il carattere ‘probatorio’ ne ha spesso risolto l’ambiguità permettendo a questi materiali una più facile ricongiunzione con l’archivio a cui sono subito destinati.
La vita del “testimone”, invece, che spesso risiede in oggetti funzionali all’esecuzione dello script o è indissolubilmente legata alla scena dell’azione, fino a coincidere con essa, crea molta più difficoltà nei processi di archiviazione. Ponendo nuovamente la questione su un piano enunciativo, il materiale riconducibile a questa categoria sarebbe l’unico a rimanere come reliquia, stabilendo, anche in termini autoriali, un regime di filiazione diretta con la performance. Questi “oggetti orfani” – tanto del corpo performante quanto dell’evento che li ha generati – resistono al tempo che li separa dalla loro prima manifestazione e sono destinati a rimanere costantemente in circolazione trattenendo l’impronta del loro ultimo autore. In questo senso sono da considerarsi come la più importante espressione del concetto di after-images, non solo in quanto evidenza di una sopravvivenza, ma anche per la loro attitudine a dilatare la vita dell’esperienza artistica congelandone la sensazione in una rappresentazione fisica. Quest’ultima, di per sé, rimane come segno artistico riconducibile al mondo delle arti visive e, come in Prouvost, può essere una scultura, una pittura, un’installazione o, più in generale, un materiale visivo dotato di presenza.
D’accordo con Mike Kelley, questi oggetti possiedono una sensazione inquietante – “uncanny quality” –, difficile da descrivere ma abbinabile a una qualità intrappolata in una condizione fisica e legata al ricordo [16]. La mostra che deriva da queste riflessioni – o le mostre, dati i successivi re-staging della prima occasione a Sonsbeek nel 1993 [17] – rende l’ambizioso progetto The Uncanny un esempio imprescindibile per comprendere il senso delle after-images. Da un lato, trattandosi di una collezione di sculture prodotte dalla cultura visuale non solo contemporanea, l’esposizione richiama la ciclicità before-after con cui le immagini sopravvivono e ri-circolano attraverso il tempo – in una prospettiva che informa anche il re-enactment della mostra stessa; dall’altro, radunando queste centinaia di immagini in sezioni (Harems) che mantengono inalterata l’uncanniness del singolo oggetto, Kelley ne amplifica il potenziale abbozzando un principio ordinatore anarchivistico (Derrida, 1995, p. 21-22), che fa dell’intera messinscena una collezione inesausta di materiale sincronico.
Come suggerisce nel suo testo introduttivo al catalogo, l’artista intende “giocare con questi oggetti morti” [18] raggiungendo esattamente l’opposto di una necrologia: a ognuno di loro garantisce una nuova prospettiva di vita, il cui evolversi è ovviamente fermato dall’inserimento in mostra. Oltre a essere una caratteristica esaustiva delle after-images, infatti, l’inquietudine mascherata dietro The Uncanny è anche il filtro che ne ordina i materiali e non è dissimile da quello descritto nelle pagine dell’omonimo saggio di Freud (1919), da cui tutto il progetto prende il nome. Per lo psicanalista, il termine è associato alla possibilità di riportare in vita qualcosa che ci è spaventosamente familiare. Fatto salvo per i risvolti terrifici, si tratta di una definizione molto simile ai già citati “fantasmi sensoriali” evocati dalle afterimages scientifiche e, con un leggero slittamento, riconduce alle possibilità che qualsiasi immagine ha di diventare qualcos’altro o, prima ancora, rimanere nel tempo.
In un testo apparso su Flash Art International nel 2016, la storica dell’arte e curatrice Marie de Brugerolle si interroga sul valore di questo materiale e, già dal titolo Next to performance, sembra riconoscergli una posizione rispetto all’occasione che l’ha impiegato. Con il concetto di “oggetto scenico” [19], de Brugerolle intende dei prodotti capaci di mantenere la propria fisicità; anche dopo l’atto performativo li investe di un ruolo versatile: da attori ad agiti, da direttori di scena a testi [20]. La loro vita può dunque essere parallela (next to) all’azione di cui saranno partecipi, tanto che pur essendo «accessori, testi e personaggi durante l’azione, possono essere messi in scena a prescindere». In fin dei conti, continua Brugerolle, «questi props compongono una narrazione rivelata in frammenti» che, nel senso delle after-images, sono destinati a sopravviverle.

Archiviare le after-images
Ricapitolando, al momento live di un generico atto performativo sopravvivono – con le dovute specifiche – al massimo tre cose: le immagini, uno script e gli oggetti. Se i primi due rientrano in una categoria documentale naturalmente riconducibile all’archivio, gli oggetti rappresentano un lascito fisico dell’esperienza stessa e, come espressione più complessa delle after-images, sono fino a questo momento stati definiti: testimoni, reliquie, oggetti orfani, ‘cose morte’ (dead things) e infine oggetti scenici.
Rimane da analizzare il loro carattere archiviabile o la possibilità di ricongiungerli a un ordine postumo.
Nel testo originale di Playing with dead things, a proposito del carattere scalare con cui sono ordinate le immagini selezionate in mostra, Mike Kelley imposta una similitudine tra la collezione di memorabilia cinematografici radunati nella casa di Forest J. Ackerman – editor del magazine Famous Monsters of Filmland – e la sintassi utilizzata fin dal primo allestimento di The Uncanny. Nonostante la sovrabbondanza di after-images ricongiunga entrambe a un “obitorio” (Kelley, 2004, p. 28), la differenza sostanziale tra le due forme di display risiede nell’organizzazione dei frammenti della narrazione: nel primo caso si tratta di un arrangiamento molto simile alla cacofonia di una stanza per bambini [21], nel secondo le ‘cose morte’ sono disposte rispettando una logica apparente.
L’organizzazione di questa sintassi coincide presumibilmente con la sola possibilità ordinatrice di questo materiale inerte o after-images. La forma prevista per i loro archivi infatti, non corrisponde a un deposito impolverato più o meno organizzato, ma a una configurazione discorsiva ampiamente rappresentata dall’esposizione. Come anticipato precedentemente, il modello anarchivistico definisce il paradigma dietro un simile approccio e la costruzione di mostra, insieme al suo display, possono esserne il caso esemplare.
Nel 2008 Marie de Brugerolle cura, insieme a Eric Magion, l’esposizione Ne pas jouer avec les choses mortesNot to play with dead things –, una versione aggiornata della mostra di Mike Kelley. Proprio nella negazione del titolo originale risiede il senso di un processo di archiviazione non tautologico: la mostra radunava una serie di oggetti prodotti durante significative performance e li presentava al pubblico come sculture autonome, ormai orfane dell’aurea della performance che li aveva generati. Nelle parole di Magion, tutti questi oggetti – set, spartiti, accessori, costumi – sono diventati segni autonomi: «la loro origine formale non ha più importanza. Il loro unico senso è che hanno partecipato a una performance» [22] e pur essendone in qualche modo traccia, sono memoria fatta ad oggetto, immobilizzata nella mostra. Questo stato di ‘morte’, la loro manifestazione come reliquia non riattivabile, è tutt’altro che definitivo ed è piuttosto riferibile al momento di latenza previsto dal loro essere esposti; all’istante compreso tra il loro essere stati vivi e la possibilità di esserlo ancora.
È la prova definitiva del loro essere after-images fino a nuova apertura.
Ancora una volta, infatti, e per concludere, nei termini del ricorrente modello temporale before-after, l’interesse dell’artista contemporaneo non è quello di considerare la produzione artistica pregressa – la sua archiviazione – come «un vangelo o un santuario, bensì un ricordo vivo e un copione aperto» (Canet, de Brugerolle, Wood, 2014, p.167). Gli oggetti dell’arte sono resistenti e autonomi e, come nel flusso di Prouvost, appaiono o scompaiono dentro e fuori i processi che li hanno immaginati: molti di essi sono destinato a rientrare nel ciclo delle immagini, altri andranno persi o sopravvivranno inanimati per il resto della loro vita. La mostra pertanto, con la sua sintassi espositiva e l’ordine logico-compositivo, è lo spazio per eccellenza in cui esercitare un modello anarchivistico; non (solo) per la possibilità di accumulare, neppure (esclusivamente) per la vocazione a ordinare, ma soprattutto per essere la rappresentazione di un dispositivo «vivo e instabile» (Dekker, 2017, pp. 11-26) capace di riflettere i materiali di un evento, e, di quest’ultimo, mostrare la sopravvivenza delle after-images illuminandone le traiettorie passate e future.

NOTE

[1] Il titolo completo è Deep See Blue Surrounding You.
[2] L’installazione è una delle tante presentate per la retrospettiva milanese Grand Dad’s Visitor Center (Hangar Bicocca, 2017). È uno dei sei capitoli in cui è organizzato il progetto The Wanderer.
[3] «Diventa la sedia in cui è seduto». Leggermente modificata dall’introduzione del video Dit Learn (2017), poi recuperata nella performance They Are Waiting For You (2017-18).
[4] RELIQUES è una serie di oggetti che hanno trascorso una propria vita e ora rimangono in mensole come sintomi di quel che è stato. Nelle parole dell’artista: «Being used to help/ Believing in nature,/ in miracles./ Used to prove something,/ get the imagination going./ Proof of reality./ A small part of a bigger thing,/ often used by religions». Dal Legsicon di Laure Provoust (2019), p. 245.
[5] Nel linguaggio matematico e fisico è considerato discreto un oggetto che può essere isolato dal suo insieme
[6] Entrambe prodotte per il Walker Art Center di Minneapolis (2017-18), poi adattate in altri spazi espositivi e teatri (per esempio al Kaai Theatre di Bruxelles nell’ambito di Performatik 2019).
[7] Il fenomeno può essere legato a condizioni del tutto normali (afterimage fisiologica) o patologiche (palinopsia).
[8] Per un approfondimento in merito: Hirsch J., 2004, pp. 140-162
[9] La definizione è del neurologo americano Silas Weir Mitchell e raccontata da Sacks O., 2018, p. 171.
[10] «Attraverso la phantasia […] le immagini delle cose assenti sono presenti al punto che ci sembra di vederle con i nostri occhi come se fossero presenti». Ciceri Via C., 2016, p. 344.
[11] Momenti in cui le formule di pathos sono immobilizzate diventando parte di un gioco mnestico.
[12] La scrittura after-images è volutamente composta e si differenzia dal termine scientifico afterimages a cui si associa solo metaforicamente. Da questo momento in poi verrà utilizzato il termine composto (after-images) per indicare le immagini inserite nel ciclo descritto, mentre si continuerà a far riferimento al termine afterimage qualora si desideri evocare la scientificità del fenomeno.
[13] «Performance’s only life is in the present» Phelan P., 1993, p. 146.
[14] «Performance cannot be saved, recorded, documented, or otherwise participate in the circulation of representations of representations: once it does so, it becomes something other than performance». Ibid.
[15] Ne sono esempio i tanti lavori documentaristici a firma di autori di pari fama.
[16] «What I am after is a group of objects that, like the original collection of images I pinned to my wall, share an “uncanny” quality. What this quality is, precisely, and how it functions, are difficult to describe. The uncanny is apprehended as a physical sensation, like the one I have always associated with an “art” experience – especially we interact with an object or film. This sensation is tied to the act of remembering ». Corsivi miei. Kelley M., 2004, p. 26.
[17] Dopo la prima esposizione al Gemeentemuseum di Arnhem, parte di ‘Sonsbeek 93’ (1993), The Uncanny è stato presentato altre volte alla Tate Liverpool (2001) e al Museum of Modern Art di Vienna – MUMOK (2004).
[18] Il titolo del saggio firmato da Mike Kelley è Playing With Dead Things. On The Uncanny ed è presente fin dalla prima edizione del catalogo (1993).
[19] Marie de Brugerolle (2010) utilizza il termine in riferimento a Guy de Cointet.
[20] Ibid.
[21] «A child’s bedroom [where] things are piled everywhere in a cacophony of fil history». Kelley M., 2004, p. 28.
[22] «Leur origine formelle n’a plus d’importance. Leur seul ‘sens’ est qu’ils ont participé à une performance». Traduzione mia da un’intervista a Eric Magion  LINK 

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Stefano Mudu (Cagliari, 1990) è critico e ricercatore d’arte contemporanea. Dopo una prima formazione in architettura e una specializzazione in arti visive, attualmente svolge un Dottorato in Cultura Visuale e Teorie Critiche presso l’Università IUAV di Venezia. Scrive per alcune riviste di settore, tra cui “Flash Art Italia”. Tra le altre pubblicazioni accademiche è autore di Spazi Critici. I luoghi della scrittura d’arte contemporanea (Mimesis, 2018).