In un dibattito tenutosi nell’ottobre di quest’anno[1], quello che fu il ministro della cultura più progressista del Brasile e uno dei maggior esponenti della cultura del suo paese, Gilberto Gill ha detto: «In Brasile le cose stanno peggiorando e migliorando allo stesso tempo. Migliorano nella misura in cui chi vuole che peggiorino sta facendo così tanto (male) da creare le condizioni perché coloro che vogliono che migliorino si mettano in azione». In questi termini parlerei dei due festival di arte urbana che hanno occupato le strade di São Paulo (Vozes Contra o Racismo) e di Belo Horizonte (CURA) nel 2020. L’articolo con un approccio etnografico, descrive alcuni selezionati lavori presenti nelle due esposizioni attraverso i quali si evidenzia l’urgenza di alcune tematiche e la denuncia politica che questi lavori e curatele assumono. La presentazione dei lavori è accompagnata dalla traduzione di commenti degli artisti e curatori raccolti nelle pagine social dei due eventi. L’articolo non intende farsi portavoce di questi artisti e curatori. Come sottolineato da Bonaventure (2019), la retorica del ‘dar voce’ potrebbe, in modo fuorviante, sottintendere una loro incapacità di formulare, per sé stessi, le proprie osservazioni. Più che riportare teorie, più o meno note, l’articolo ha come obiettivo quello di tradurre esperienze che raramente riescono ad oltrepassare i confini europei intendendo questo gesto come una pratica concreta decoloniale. Le immagini sono state estratte da post pubblici di divulgazione presenti nelle pagine Instagram e Facebook di/delle artisti/e e e di/delle curatori/trici e nei siti degli eventi. Tutte le traduzioni sono dell’autrice.
CURA – circuito urbano de arte, Belo Horizonte
Il festival di arte urbana CURA – circuito urbano de arte, ha riunito a Belo Horizonte 18 lavori la maggior parte dei quali situati in aree centrali della città, ma anche in zone periferiche. Si tratta di pitture di grandi dimensioni che attribuiscono una visibilità imponente ad ogni opera e creano la più grande collezione di arte murale su larga scala mai prodotta in un unico evento di street art. Il festival ha una forte impronta femminile. Ideata da tre donne, Janaína Macruz, Juliana Flores e Priscila Amoni, l’edizione 2020 invita Arissana Pataxó e Domitila de Paulo come curatrici aggiunte e assume uno slogan che nella sua ovvietà 2020 Tem CURA (2020 ha cura) vuole lanciare un messaggio di speranza, ma anche di determinazione, a che ognuna/o assuma la propria responsabilità per cambiare lo stato delle cose.
«La CURA che vogliamo è collegata alla conoscenza femminile. La maggior parte delle guaritrici (benzeiras e curandeiras) ancestrali sono donne. I paesi guidati da donne sono in primo piano nella lotta alla pandemia. Gaia, la terra, è la massima rappresentazione del femminile» affermano le curatrici. La maggior parte dei murales della edizione 2020 sono infatti realizzati da artiste donne. Si tratta di lavori tra i 400 e i 2000 metri quadrati di dimensione.
Fra queste, l’artista indigena Daiara Figueroa Tukano dipinge Selva Mãe do Menino Rio, una grande madre della foresta che tiene in braccio il bambino Rio (fiume in portoghese). Nelle parole di Daiara: «I fiumi sono i nonni, ogni nonno è stato un bambino, e ogni fiume ha una madre, e quella madre è la natura».
Durante il 2020, il fuoco è rimasto incontrollato e incustodito dal governo brasiliano per quasi tre mesi e, dopo aver consumato il 30% del bioma della regione del Pantanal si è esteso all’Amazzonia e il Cerrado, consumando metà dei territori indigeni della regione, distruggendo piantagioni, aumentando i ricoveri per malattie respiratorie ed espellendo la popolazione in un momento di grave emergenza sanitaria [2]. Nel frattempo, in una città dello stesso Brasile, una donna indigena dipinge un murales di 21 metri di larghezza per 56 metri di altezza, la più grande opera d’arte indigena contemporanea al mondo. È uno smacco alla faccia di chi li umilia, manca di rispetto a lei e a tutti i suoi parenti, li vuole cancellare. Una denuncia contro le politiche genocide del governo Bolsonaro e in particolare la criminosa condotta del Ministro dell’Ambiente Riccardo Salles. Allo stesso tempo è un generoso atto di cura verso una umanità sempre più malata. Ed è un invito «perché tutti prendano una posizione e agiscano in difesa della natura e delle persone del nostro paese» si legge nella pagina Facebook del festival.
Di forma simile l’installazione Entidades dell’artista Makuxi Jaider Esbell, rappresenta due grandi serpenti posti su un cavalcavia in centro città. La Mboi-Una, cobra-grande, è un mito amazzonico con un importante valore simbolico nella cosmologia indigena.
Nelle parole di Esbell «La cobra-grande lavora sempre dietro le quinte, instancabilmente per avvertirci, proteggerci, tenerci in vita come popoli di queste terre. Rappresenta diverse simbologie, dalla fertilità all’abbondanza, perché vive nel sottosuolo, nei grandi fiumi sotterranei, mantenendo il movimento dell’acqua sempre pulsante. La cobra-grande è anche distribuita nell’universo attraverso la Via Lattea, e nel suo mezzo attraverso i fiumi volanti. L’idea della installazione è quindi quella di sacralizzare questo animale, che è tanto banalizzato anche nella stessa Amazzonia, per sottolineare la sua saggezza, la sua medicina, il suo potere e riportare questa cosmologia alla nostra realtà quotidiana e attuale. Intende inoltre evidenziare l’importanza di sostituire l’industria estrattiva con un’altra forma di economia. L’obiettivo è quello di far capire che il Minas Gerais[3], così come l’Amazzonia, rimane ancora fortemente radicato in questa base economica estrattiva». Concepita come un grande tributo alla Madre Terra e ai popoli originari l’opera è diventata un simbolo della lotta indigena e dopo pochi giorni dalla sua istallazione è stata bersaglio di attacchi razzisti da parte di un gruppo di estremisti religiosi «Opera demoniaca! I figli di Dio devono distruggere l’opera del Diavolo nel nome di Gesù». All’attacco risponde Daiara Tukano da Radio Yande[4], la prima webradio indigena del Brasile: «Gli attacchi dei fondamentalisti religiosi all’opera Entidades hanno solo portato alla luce una realtà che noi, indigeni di varie etnie, abbiamo vissuto nella città di Belo Horizonte. In questa città sperimentiamo confronti quotidiani per i diritti più elementari, come la libera espressione della cultura e l’esposizione dell’arte indigena per le strade. E la violenza che si è scagliata contro il lavoro si riflette così duramente sulla nostra anima indigena che il corpo arriva a sentirla contro il sacro che ignorano». La risposta assume un valore ancora più marcato quando rivolta alla realtà dello stato del Minas Gerais. Mentre la lotta dell’Amazzonia incontra più o meno diffusa solidarietà internazionale, non sempre lo stesso avviene quando si tratta di casi meno visibili nei media. Così era stato nel 2015 quando lo sfondamento della diga di proprietà della società mineraria Samarco / Vale / BHP Billiton, ha riversato più di 39 milioni di metri cubi di fango nel bacino del Rio Doce. Cinque anni dopo, il fiume è morto, le persone colpite continuano senza tetto mentre la società mineraria, ha chiuso il 2019 con un aumento del 20,2% dell’estrazione di minerale di ferro.
Diverso invece il lavoro dell’artista nero Robinho Santana che – secondo quanto riportato dal sito del festival – rappresenta nel suo mural, Deus è mãe (Dio è madre), “una tipica famiglia brasiliana: una madre nera e i suoi 2 figli” sottolineando allo stesso tempo una realtà intima, ma anche collettiva, come quella della famiglia monoparentale, spesso condizione di molte donne nere brasiliane. L’artista sottolinea l’importanza di una rappresentazione della famiglia nera che rimandi all’affetto e alla cura e non allo stereotipo di abbandono e carenza. Per questo ha anche ritratto, in una altra occasione su invito del MAR – Museo de Arte de Rua (museo di arte di strada) di São Paulo, una grande immagine di paternità nera.
Diego Mouro, un altro artista nero, parla invece di affetto tra uomini neri ritraendo un uomo che si prende cura dei dreadlock di un altro uomo. Così descrive il suo lavoro:
«Sento una grande responsabilità per ciò che le immagini che produco possono generare nelle persone. Sono sempre stato attento perché il mio lavoro non rafforzi stereotipi di violenza a cui siamo soggetti in quanto corpi neri, ma la poesia ordinaria che esiste in questi. Senza romanticismo, cerco di normalizzare l’affetto nero. In modo che lo stereotipo su questi corpi venga infranto. In modo che le manifestazioni di affetto siano appena questo: una dimostrazione di affetto quotidiano. Normale. Una bellezza comune».
L’artista, presente anche nella mostra Vozes contra o Racismo tenutasi a São Paulo, è mosso dalla volontá di “vedere la poesia nell’ordinario, nella bellezza quotidiana”. Lo stesso fa il fotografo Marcelo Rocha, attraverso le sue immagini, presentate in grandi wheat paste, che riproducono gesti di semplice affetto quotidiano attribuendo alle persone rappresentate l’umanità storicamente ancora troppo spesso negata sulla base di un razzismo strutturale che vuole il corpo nero associato ad un immaginario di violenza o di virilità, quando si tratta di uomini, oppure di sottomissione e oggettivazione quando si tratta di donne.
Vozes contra o Racismo, São Paulo
Contrariamente alla esortazione piuttosto elitaria Stai a casa! Fica em casa! la grande mostra collettiva ideata da Amarilis Costa, Helio Menezes, Lígia Rocha e Thamires Cordeiro occupa quaranta punti pubblici promuovendo graffiti, film, fotografie, proiezioni e installazioni diffuse all’aria aperta in tutta la città di São Paulo. La gravità del quotidiano porta l’arte fuori da gallerie e musei, luoghi che la destinano ad una piccola cerchia di “addetti ai lavori”, mettendola in diretto e aperto contatto con passanti e gente comune e permettendole, in questo momento in cui la produzione e fruizione della cultura viene ancora più limitata al mondo virtuale, e a chi ad esso ha libero accesso, di darne invece accesso a tutti. Troppo spesso infatti, durante il passato anno di pandemia, non si è dato peso a quello che emergeva alla fine degli anni ’90, proprio in Brasile durante il mandato di Gill, come un effettivo elemento su cui calibrare le differenze: il digital divide ossia il divario tra i dati demografici e le regioni che hanno accesso alle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione e quelle che non ne hanno, o hanno accesso limitato. La città diviene quindi una grande galleria a cielo aperto, ad entrata libera, il cui show non rispetta termini di scadenza, se non il decorrere del tempo. E l’arte sembra tornare ad assumere una funzione politica, oltre che empatica (Burocco, 2019b). L’intenzione dei curatori della mostra è quella di porre in evidenza questioni che sempre più violentemente si manifestano nell’attuale società brasiliana: identità, appartenenza, razzismo, pregiudizi, violenza e diseguaglianze. Sono questioni da sempre esistenti ma che l’attuale situazione politica legittima istituzionalmente permettendo che emergano in forme sempre più spudorate e feroci. Ad esse rispondono gli artisti, per la maggior parte neri e indigeni, dando vita a nuove narrative, capaci di denunciare tali violenze mantenendo viva una intenzione di cura e guarigione l’uno con l’altro che riguarda il presente ed il passato. Un passato raccontato esclusivamente dal punto di vista degli oppressori. Così il lavoro dell’artista indigena Denilson Baniwa transfigura il Monumento aos Bandeirantes, opera dell’artista italiano Brecheret per celebrare gli esploratori che durante il XVII e il XVIII secolo si arricchirono catturando schiavi fuggitivi, imprigionando popolazioni indigene. Attraverso le proiezioni realizzate dal Coletivo Coletores, in collaborazione con Baniwa, il monumento viene momentaneamente cancellato dal campo visivo.
La proiezione video inizia con una caravella portoghese distrutta dalle forze della natura. Queste forze, a loro volta, occupano il monumento, creando un dialogo con la statua di Pedro Álvarez Cabral, navigatore ed esploratore portoghese accreditato come “lo scopritore” del Brasile, situata a pochi metri dal monumento. Secondo il curatore Helio Menezes «Denilson Baniwa offre in quest’opera altri miraggi possibili alla città di San Paolo». L’artista proietta sul monumento le frasi SP TERRA INDÍGENA e BRASIL TERRA INDÍGENA per ricordare e sottolineare a chi appartenesse originariamente il territorio su cui si fonda la città di São Paulo, e l’intera nazione Brasiliana. Vengono inoltre proiettate frasi in lingue indigene, invertendo la sensazione di estraneità che per una volta verrà sperimentata da chi quelle lingue non le sa leggere.
Estremamente forte è anche la denuncia esplicitata dal lavoro Luz Negra di Mônica Ventura collocato all’uscita del metro della Praça da Liberdade, antico Largo da Forca, dove fino al XIX secolo donne e uomini ridotti in schiavitù venivano puniti e uccisi (ricordando che il Brasile è stato l’ultimo paese al mondo ad abolire la schiavitù nel 1888). L’opera presenta la frase della giornalista, attivista e femminista nera Juliana Borges: «Uma mulher negra feliz é um ato revolucionario» (una donna nera felice è un atto rivoluzionario).
Secondo Ventura la frase è un invito a riflettere su come il corpo delle donne afro-discendenti sia stato oggettivato dal periodo della schiavitù fino ad ora, e su come si possa invertire questo modo di pensare e osservare questo corpo. In questo senso l’artista dichiara «il lavoro Luz Negra è una opera affermativa che assume l’idea positiva di provare a cambiare questa visione stigmatizzata del corpo femminile nero». Con questa intenzione affermativa il lavoro diviene anche una celebrazione di tempi nuovi in cui donne nere assumono il possesso delle proprie narrazioni, e della loro espressività. La mia lettura, in quanto ordinaria passante, mi rimanda immediatamente alla quantità di donne nere, madri, sorelle, compagne, mogli, figlie di uomini neri uccisi dalla polizia in Brasile. Il rapporto A cor da violência policial: a bala não erra o alvo [5] ha dimostrato che i neri sono il 75% dei morti per mano della polizia. Mentre il tasso complessivo di omicidi in Brasile è di 28 persone ogni 100 mila abitanti, tra gli uomini di colore tra i 19 e i 24 anni questo numero sale a oltre 200, numeri che l’attuale governo brasiliano ha ulteriormente aggravato.
Con un simile intuito affermativo può essere letta la proiezione del volto della scrittrice afro-brasiliana Carolina Maria de Jesus realizzata dal Coletivo Coletores. Nata nel 1914 in una area rurale da genitori analfabeti si trasferisce a San Paolo nel ‘47 dove lavora come raccoglitrice di carta registrando la vita quotidiana della favela in cui vive. Uno di questi diari diede origine al suo primo libro, Quarto de Despejo – Diário de uma Favelada, pubblicato nel 1960[6]. L’opera divenne un best seller, fu venduta in 40 paesi e tradotta in 16 lingue. In termini di decolonizzazione della conoscenza questa semplice azione offre una importante visibilità ad una intellettuale donna e nera che, malgrado sia una delle principali scrittrici nere in Brasile, e una delle più tradotte, fino a pochi anni fa era quasi invisibile nei media e panorama letterario nazionale.
Per concludere, Deformação (deformazione) di Priscilla Rezende è una video istallazione su di un conflitto comunemente affrontato dalle donne nere che si vedono spesso sottovalutate e non rappresentate nei media perché lontane dagli standard estetici imposti dal mondo occidentale bianco, una negazione che si riflette sull’autostima di queste donne.
Seduta davanti a uno specchio, l’artista inizia con un processo di “adattamento estetico” attraverso il trucco. A poco a poco trasforma il rapporto stabilito con lo specchio e l’immagine riflessa in esso. Si percepisce una sorta di stranezza davanti a questa immagine, mentre con una spazzola i capelli vengono stirati, modellati, in modo aggressivo, disperato, provocando così una deformazione della stessa immagine che si riflette nello specchio.
Contra Colonizzazione
I lavori presentati evidenziano la ripetizione di alcune tematiche come questione di genere, razzismo strutturale, storie negate di oppressione e stigmatizzazione, ma anche una volontà positiva di affermazione, di valorizzazione, e riconoscimento, di cura e rispetto di nuove cosmologie e molteplicità, e un bisogno di normalità. Per questi/e artisti/e indigeni o neri, la propria arte è un’azione politica che vuole produrre effetti sulle strutture di potere esistenti e sulle persone che ne fruiscono. A differenza di una mostra o di un’opera d’arte, che acquistano significato perché isolati dal mondo comune in una galleria o in un museo, questi lavori fondono l’artistico con il politico adottando meno il piano estetico e più le capacità comunicative dell’arte, distruggendo il mito borghese dell’individualità dell’artista, del carattere passivo tradizionalmente attribuito all’arte, e del carattere elitario degli spazi ad essa destinati. In questo senso, Esbell afferma che il compito degli artisti indigeni non è semplicemente discutere la decolonizzazione ma decostruirla: «questa seconda opzione può darci un senso più energico e attivo rispetto alla discussione, che finisce per lasciarci solo nel campo passivo della convalida di una teorizzazione» (2020b). Di simile opinione sembra essere Daiara Tukano che in un dibattito presso il MAM di São Paulo, dichiara che più che di decolonizzazione, riferendosi ai lavori di artisti contemporanei indigeni, si dovrebbe parlare di contro-colonizzazione. Secondo l’artista ad occuparsi di decolonizzazione sono i bianchi, mentre gli indigeni e neri operano pratiche di contro-colonizzazione. Mentre i primi sembrano dover ancora fare moltissimo per decolonizzare sé stessi – infatti in Europa, e particolarmente in Italia, quanto più si sente parlare di De-Colonizing Art Institutions, meno si vedono spazi occupati da artisti, curatori e produttori culturali non bianchi (o da donne o LGBTs) che sottintenderebbe una cessione di posizione – la boccata d’aria che il mondo dell’arte indigena offre nel desolante panorama contemporaneo è il modo in cui questi artisti si avvicinano ad esso: «Per noi non c’è differenza tra arte e vita, o arte e resistenza, così come in Occidente, dove l’arte è uno strumento di potere in relazione agli altri esseri umani», afferma Baniwa in un’intervista (Rkain, 2020 ). La frontiera tra arte e politica, così come teorizzata per Ranciere (2005) e Bourriaud (2009) semplicemente non ha ragione di esistere quando, come dice Krenak in una intervista con Cesarino: «La separazione tra vivere e fare arte: non percepisco questa separazione in nessuna delle matrici di pensiero dei popoli originari che ho conosciuto. Tutti quelli che conosco ballano, cantano, dipingono, disegnano, scolpiscono, fanno tutto ciò che l’Occidente attribuisce a una categoria di persone, che sono artisti» (2016:182). Ailton Krenak, Daiara Tukano, Jaider Esbell e Denilson Baniwa spesso ripetono che la parola arte non incontra traduzione nelle loro lingue native, e che questa viene solo vista come una “arma da utilizzare per poter combattere ad armi pari con il pensiero del bianco, che attribuisce valore solo alle cose acquistabili”. La maggior parte dei lavori e esposizioni di artisti indigeni sono opere collettive. Il collettivo Movimento de Artistas Huni Kuin non ammette firma individuale, è un collettivo aperto il cui ricavato dalle vendite dei lavori viene destinato all’acquisto di terre da cui lo slogan: «Vendo tela compro terra» (Dinato, 2018:41). Non sorprende che questi “artisti” frequentemente preferiscano definirsi comunicatori prima che artisti, e come tali, la loro arte non può trovare luogo migliore che la strada, uno spazio pubblico che, attraverso le arti visive, diviene attivatore di processi di affermazione di identità e formazione di nuove immaginazioni. Come osserva Aline Motta, artista che partecipa alla mostra collettiva Vozes contra o racismo, «la nostra storia è fatta dalle immagini che ci accompagnano. Per questo, come artisti, abbiamo il compito di crearne di nuove, e creare nuove circolazioni». Questo impegno diviene esplicito nel lavoro di Denilson Baniwa sul Monumento ao Bandeirantes ma anche nella scelta della frase di Mônica Ventura. Dentro all’attuale movimento iconoclasta, Baniwa non mira a cancellare il passato, ma piuttosto a renderlo ancora più evidente, non lasciando alternativa al confronto con le storie che queste statue incorporano. Così, la “donna nera felice” di Ventura si oppone in modo radicale alla visione razzista, paternalistica e schiavista che la società brasiliana iper-conservatrice sta riaffermando. Come sottolinea Esbell: «Forse quello con cui abbiamo a che fare è un fenomeno imputabile ad una svolta transgenerazionale e non ad una moda passeggera. Non solo per l’età dei soggetti, ma anche per il contenuto, il contenuto delle loro performance, le loro voci e la crescente rivolta di artisti non indigeni (ma direi anche neri – nota dell’autrice) non binari» (Esbell, 2019a).
L’attualità delle tematiche corrisponde anche ad una dichiarazione di appartenenza al mondo moderno, che la modernità universalista occidentale vuole tenersi stretta. Così Tukano, nel denunciare il genocidio dei popoli indigeni si oppone all’immagine delle popolazioni indigene “in estinzione” che già infastidiva Krenak nel 1994 quando, nel commentare il lavoro di una fotografa inglese domanda: «Nel trattarci come popolazioni che stanno scomparendo come ci vede? Come dinosauri?» (Krenak apud Silva et all, 1994:15). Un altro aspetto è l’apparente contrasto tra una pratica considerata per definizione urbana, come quella della street art, e immagini e rappresentazioni riguardanti cosmologie indigene. È opinione diffusa, anche tra i progressisti europei accorsi in aiuto all’Amazzonia, che l’unico vero indigeno sia quello “isolato nella foresta” senza alcun contatto con altre influenze culturali. L’obiettivo è esattamente quello di sovvertire questa dicotomia rafforzando ciò che affermano questi artisti: il loro diritto ad una identità indigena, in un ambiente urbano, e in un mondo contemporaneo (Burocco, 2021). Così temi globali come femminismo, ambiente e razzismo trovano ampio spazio. La questione di genere sia per quanto riguarda i conflitti inerenti l’intreccio tra colonialismo e patriarcato, sia attraverso una forte presenza femminile tra le artiste e curatrici, e la riaffermazione del ruolo di autodeterminazione della donna. Molti lavori denunciano modelli di sviluppo esplorativi promossi da attività estrattive predatorie proprie della struttura capitalista patriarcale, universalista, moderna, coloniale, occidentale, mentre il tema del razzismo strutturale è sempre presente nei lavori di ogni artista che lo declina attraverso la propria esperienza personale.
Interessante inoltre la crescita di progetti curatoriali che riuniscono artisti neri e indigeni, donne e LGBTs. Di fronte al terribile panorama del paese, è infatti nella direzione opposta che l’universo brasiliano delle arti visive si è rivolto alla sua popolazione indigena e afro-discendente, rinforzando e valorizzando le loro produzioni, i loro modi di pensare e di vivere così come quelle delle donne e popolazione LGBTs. Uniti da una storia di esclusione sociale e di cancellazione della loro storia, le popolazioni originarie indigene e afro-discendenti brasiliane, si incontrano a rispondere alla situazione di estrema retrocessione che il paese sta attraversando in termini di diritti sociali, civili e di libertà di espressione, anche artistica. Il fatto che artisti neri e indigeni, non abbiano la stessa rappresentatività nel mondo dell’arte può essere inserito in una forma di micro aggressione in cui il razzismo è implicito nella negazione di queste produzioni (Burocco, 2011). Non è una novità. Risponde semplicemente allo specchio delle disuguali relazioni di potere che caratterizzano le produzioni culturali e artistiche nord/sud e la loro circolazione, purtroppo spesso anche quando mosse da intenzioni decoloniali (Burocco, 2018). La forza di questi progetti consiste proprio nel trattare artisti e curatori neri, indigeni, donne non più come semplici portavoce di esperienze subalterne ma come soggetti attivi e autodeterminati nella costruzione di una società più democratica e un mondo dell’arte meno autoreferenziale.
Conclusioni
Lo scopo di questo articolo è quello di presentare nuove referenze iconografiche attraverso la presentazione di lavori di arte urbana realizzata NEL sud da artisti DEL sud, la maggior parte dei quali donne nere e indigene. Il rafforzamento della circolazione delle opere di artisti indigeni e non occidentali ha un impatto in quella che spesso gli artisti nel sud definiscono come la “necessaria decolonizzazione delle immagini” e contribuisce al superamento di questo gap di visibilità e riconoscimento. Si propone di espandere i riferimenti iconografici per sovvertire il dominio delle pratiche estetiche occidentali sottolineando come una delle forme in cui la colonialidad (Quijano, 2000) si perpetua è anche attraverso le immagini che ci circondano. Ancor più in società in cui vige il primato dell’immagine. Richiamando il concetto dell’artista brasiliano Hélio Oiticica, «il museo è il mondo» (2012), in un momento di intenso dibattito sulla necessità di decolonizzazione dei musei occidentali e di re-significazione della funzione stessa dell’arte appare interessante poter vedere le strade, imbevute della propria democraticità e rappresentatività, come una estensione di questa funzione pubblica. Ancor più interessante aprirsi ad esperienze che vengono dal Sud del mondo come esempi di pratiche concrete di anti-colonizzazione all’interno di un discorso che in Europa spesso appare non superare l’agenda accademica teorica. Se discussioni riguardanti arte partecipativa, engaged art, arte politica, decolonizzazione della produzione culturale e artistica, de-istituzionalizzazione delle istituzioni di arte e cultura non sono una novità, artisti e artiste indigeni/e e neri/e del Sud in base al loro referenziale ancestrale e al loro contesto di lotta, divorano (in un movimento antropofago) l’arte contemporanea occidentale mettendo in discussione i linguaggi artistici classici, e prima di tutto il concetto stesso di arte e di contemporaneo, storicamente determinato da criteri universalistici occidentali (Baniwa e Mombaça, in Burocco 2019). Non ultimo sembra che questi artisti e artiste, neri ed indigeni, concretizzino l’idea del comune e della cura incorporando una forte componente collaborativa, in contrasto con la competitività che caratterizza il mondo dell’arte e delle produzioni accademiche e culturali occidentali, come dimostrato dalle ampie e attente collaborazioni tra di loro.
Note
[1] Transa Marieta, Episódio #7 – Gilberto Gil, 6.10.2020
[2] La maggior parte di questi incendi hanno origine dolosa e sono appiccati intenzionalmente dai proprietari terrieri (fazendeiros) per utilizzare il suolo per esplorazione agraria. Il Governo Bolsonaro non solo ha cercato di attribuire le colpe degli incendi a popolazioni indigene ma ha anche smantellando le agenzie di controllo ambientale, rispondendo agli interessi economici dei fazendeiros.
[3] Il Minas Gerais è uno stato della repubblica federale brasiliana storicamente famoso per le sue miniere di oro e di metalli preziosi. Sin dall’epoca della colonizzazione portoghese rappresentava una delle principali fonti di estrazione della corona portoghese.
[4] Radio Yandê
[5] Il rapporto prodotto dalla Rede de Observatórios da Segurança é disponibile online
[6] DE JESUS, Carolina, 1960. Quarto de despejo, Francisco Alves Editor
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Laura Buroccosi dedica all’insegnamento, ricerca e curatela nell’ambito della decolonizzazione della conoscenza degli studi urbani e culturali. I suoi temi di ricerca sono capitalismo cognitivo ed industria culturale, teoria critica e soft power, epistemologia del sud. Attualmente Postdoctoral Fellow in Visual History e Theory presso il Center for Humanities Research della University of the Western Cape, Cape Town. Ha un Post-dottorato in Linguaggi Visivi e un PhD in Comunicação e Cultura presso Universidade Federal do Rio de Janeiro, un master in Built Environment-Housing alla Wits University di Johannesburg. Prima del 2020 vive(va) tra Rio de Janeiro, Johannesburg e Milano.