La scuola.
Counterproduction è la Summer School ideata a Palermo da Stefania Galegati, Daria Filardo e Davide Ricco nel 2016 nel contesto del Caffè Internazionale, allora bar e spazio culturale (attivo a Palermo dal 2015 al 2018) aperto da Stefania Galegati Shines, Darrel Shines e Davide Ricco. Dal 2019 Counterproduction si tiene in spazi istituzionali e non.
Il Caffè Internazionale e le attività lì sviluppate sono state il contesto in cui la scuola è cresciuta, con l’idea di lavorare dentro processi collettivi di apprendimento attraverso pratiche di unlearning.
La scuola è nata come collaborazione fra Daria Filardo e Stefania Galegati, che hanno deciso di offrire a sé stesse e ad altri uno spazio di sperimentazione aperta, anti gerarchica, anti accademica e fuori dalle logiche di interessi particolari espressi dalle istituzioni educative e culturali. È stata un’alternativa a una relazione curatore/artista che si esprime in un progetto di mostra, è stato un modo di rinsaldare un legame esistente attraverso la pratica ricorrente di lavorare insieme a un progetto che ogni anno ha avuto un esito diverso. La collaborazione ha incluso Davide Ricco, da subito presente come barman-curatore del Caffè Internazionale e che già dal secondo anno è diventato parte del progetto.
La scuola rientra in una storia di pedagogia radicale che ha precedenti italiani e internazionali importanti e si pone come momento di riflessione sulla produzione artistica e sul lavoro collettivo che il gruppo di partecipanti fa con gli artisti e curatori chiamati come visiting professor.
Prima di attraversare le diverse edizioni di Counterproduction e di raccontarne i suoi passaggi fondamentali è importante situare l’esperienza didattica orizzontale ed esperienziale che proponiamo, per chiarirne la cornice concettuale.
Siamo dentro un discorso critico
Il campo delle esperienze educative che si intrecciano con le pratiche artistiche è ormai un territorio noto e studiato che ha radici ottocentesche di ripensamento delle teorie pedagogiche in senso antiautoritario e libertario che si sono sviluppate e differenziate in tutto il Novecento. Queste ‘scuole’ sono stati piccoli o grandi esperimenti più meno istituzionali (dal Bauhaus, al Black Mountain College alla Catèdra Arte de Conducta di Tania Bruguera, solo per citare tre momenti diversi e noti [1]) e sono ormai parte di una letteratura italiana e internazionale articolata [2]
Ormai chiaramente teorizzato è il pedagogical turn, significativo slittamento nelle pratiche artistiche e curatoriali che dai tardi anni Novanta ha virato verso l’adozione di metodologie pedagogiche ed educative che costruiscono il processo creativo come lavoro di gruppo processuale e aperto a molteplici esiti.
La svolta pedagogica è anche il risultato di una critica istituzionale alla produzione del sapere ufficiale nelle società del capitalismo cognitivo e un tentativo di proporre costruzioni che si insinuino nelle maglie del racconto ufficiale. L’uso di approcci educativi si intreccia con le pratiche partecipative che ripensano l’opera in un contesto di produzione autoriale allargata attraverso un processo condiviso fra comunità e artista, largamente sperimentato sia in contesti museali sia più in generale nella sfera pubblica.
La produzione del sapere accademico è considerata un territorio da scardinare e riformulare anche per l’effettiva presenza di molti artisti che, insieme ad un percorso di mostre consolidato negli anni, non rinunciano ad un’attività legata all’insegnamento che diventa, esplicitamente, un campo allargato di sperimentazione condivisa con i gruppi di studenti.
Il recupero di una dimensione sociale dell’azione artistica è, soprattutto in questi anni, un motivo di riflessione fondamentale nel più ampio campo di ridefinizione e partecipazione collettiva del cittadino al benessere ultimo delle comunità alle quali appartiene. Questa rientra in una ridiscussione democratica e orizzontale che coinvolge le pratiche artistiche e il loro ruolo non relegato ad un ambito separato ed estetico.
Il pedagogical turn è un’occasione per molti di noi che di educazione e arte si occupano nelle scuole, nelle accademie, nelle università, per ragionare sulla relazione fra i due campi (quello dell’arte e quello dell’educazione) e sull’osmosi tra le metodologie di costruzione e trasmissione del sapere e il lavoro artistico. In questo contesto infatti, il lavoro è costruito in gruppo ed è sempre di più un ragionamento collettivo dagli esiti finali aperti e non più determinati dall’artista.
La letteratura sulla pedagogia radicale, da Paulo Freire a Ivan Illich a Il maestro ignorante di Rancière [3], agli autori più recenti, si intreccia sempre di più con il ruolo della ricerca artistica contemporanea e mette in discussione sia la costruzione del sapere ufficiale, sia sé stessa nella critica alla figura autoriale del ‘maestro’.
Il maestro e l’artista (nei progetti artistici pedagogici) che guidano il percorso educativo, diventano il centro della critica all’autorialità e il luogo della sperimentazione. Il dialogo che avviene nel gruppo e la partecipazione di tutti al processo di costruzione del sapere, propongono una conoscenza non verticale e gerarchica, ma al contrario radicata nell’esperienza, condivisa, patrimonio comune.
Questi temi sono elementi vivi dell’approccio pedagogico di Counterproduction.
Sin dall’inizio della nostra esperienza abbiamo lavorato a un processo aperto che è avvenuto nel tempo del suo farsi e nelle cose che succedevano. Non c’è stato un controllo sull’esito finale e ogni anno il gruppo ha trovato una sintesi diversa fra i singoli che vi hanno preso parte. Abbiamo sicuramente fatto molta attenzione a che il processo e la relazione educativa avvenisse in una dimensione collettiva più che individuale, gli incontri con noi, con gli artisti e i curatori invitati come visiting professor hanno avuto una dimensione dialogica e esperienziale.
La sperimentazione pedagogica che abbiamo agito in questi anni ha a che fare con la presenza del corpo nel processo di elaborazione didattica e con lo sviluppo di un’azione collettiva. La presenza dei corpi che portano la loro esperienza, gli esercizi fatti insieme, i movimenti nello spazio, la flessibilità delle discussioni che nella loro accidentalità lasciano scaturire forme complesse di conoscenza, tutte queste cose sono parti di una trasversalità dei processi attraverso i quali si insegna non insegnando ma seguendo un processo guidato ed intuitivo allo stesso tempo.
La scuola ha una ‘base’ dove i partecipanti e i visiting professor a volte si riuniscono, e si espande nei luoghi della città di Palermo, attraversando i quartieri, i giardini, le strade, le spiagge. In ognuno di questi luoghi si compiono esercizi di gruppo, dialoghi, attraversamenti fatti individualmente, in piccoli gruppi o tutti insieme. I processi sono guidati e allo stesso molto aperti e rispettosi delle dinamiche che si creano sul momento e che prendono forma nell’esperienza, senza un’intenzione precostituita. Si tratta di guidare l’inatteso e non essere chiusi alla trasformazione anche conflittuale che il gruppo e il visiting professor propongono.
Fulcro della scuola resta una riflessione sull’idea di contro-produzione. I partecipanti insieme ai tutor scelti e ai curatori si interrogano attraverso i linguaggi dell’arte sulle possibili strategie e sulla necessità di un costante lavoro di ripensamento dell’oggetto, del processo, del ruolo dell’artista e della sua funzione.
Contro-produzione vuol dire riflettere sulle necessità essenziali del processo culturale, sulla sua circolazione, sulla sua risonanza nel pubblico dei singoli, delle piccole e grandi comunità che del processo creativo ed educativo diventano parte attiva.
Contro-produzione vuol dire continuare a interrogarci mantenendo una concezione viva del processo artistico, un orizzonte ecologico e inclusivo, un dialogo aperto con chi è altro da noi in un processo di reciproca conoscenza e rispetto.
Counterproduction ha carattere di workshop; propone il contributo di incontri aggiuntivi aperti anche al pubblico; di solito presenta una restituzione finale, che può essere una attività collettiva, una mostra (il secondo anno fu al museo MAXXI di Roma, dentro il progetto The Independent), un’azione performativa, una festa.
Le edizioni passate hanno visto la partecipazione come visiting professor/tutor di importanti figure della scena artistica internazionale che riflettono criticamente sui meccanismi di produzione [4].
Il racconto degli anni
Anno dopo anno ci siamo resi conto sempre di più che, sebbene la pratica degli artisti invitati come visiting professor potesse spaziare dalla scultura, al film, al lavoro fortemente concettuale, all’installazione, alla performance, ognuno di questi linguaggi, portati al centro del dialogo con gli studenti della scuola, sono stati trasformati in azioni in cui il corpo era comunque al centro.
Non è facile riportare ognuno dei laboratori e degli incontri che abbiamo avuto in questi anni; in alcuni è più chiaramente visibile la forma della nostra azione pedagogica.
Il primo anno, il 2016, Diego Perrone ha deciso di usare la città come campo di azione e ha dato agli studenti una sola regola nel pensare i loro attraversamenti: l’uso dello scotch. Questo è diventato il tramite per rendere evidente il corpo fisico delle sculture, ricoperte, in parte, da strati di scotch di carta da Irene Coppola che ha realizzato una seconda pelle, un frammento di un monumento, realizzando un oggetto che vive in simbiosi o separato da esso (e da qual momento ha sviluppato un corpo di lavori e riflessioni importanti sul corpo e sulla memoria trasmessa dai monumenti). Strisce di scotch giallo sono diventate la segnaletica di parcheggi inventati che, un minuto dopo essere fatti, sono stati usati da automobilisti palermitani sotto gli occhi meravigliati di Rosie Reed, rendendo così visibile il corpo sociale vivo degli abitanti della città. Piccolissimi pezzettini di scotch nero hanno coperto buchi nelle pietre di un palazzo storico malandato, nell’intervento di Silvia Farina, e sono diventati buchi neri che hanno reso più visibile il ruolo del tempo e la (forse) mancanza di cura di parte del patrimonio architettonico.
Alcune parole-chiave possono sintetizzarne la complessità dell’azione portata avanti con gli artisti, i curatori, i partecipanti. Queste sono: antiautoritarismo, unlearning, relazione peer to peer, apprendimento fondato sull’esperienza.
Questo primo esempio sottolinea come la nostra idea di contro-produzione sia stata sviscerata con gli artisti, i curatori, i partecipanti, abitando lo spazio della discussione sulla produzione culturale con i nostri corpi che, a partire da concetti, materiali, diverse metodologie, si sono mossi nello spazio fisico trasformando quella iniziale conoscenza in un’esperienza individuale e collettiva insieme.
Quell’anno c’è stato un violento incendio a monte Pellegrino (meta di escursioni naturalistiche come religiose dei cittadini palermitani, lì si trova il santuario di Santa Rosalia). Due studentesse sud coreane, Seeun Kim e Mooni Perry, hanno proposto una camminata al monte per raccogliere dei legni che le aiutassero a scavare un buco che dalla spiaggia di Mondello spuntasse dall’altro lato della Terra.
La camminata a monte Pellegrino è stata il motore per un’azione che ha determinato la restituzione finale, avvenuta nello spazio espositivo del Caffè Internazionale, una stanza bianca che dava sul cortile del bar, chiusa da una saracinesca grigia metallica, che è diventata il teatro di un disegno collettivo sui muri realizzato da tutti noi con i rami degli alberi carbonizzati raccolti sul monte.
Un movimento libero di corpi che ci ha visto protagonisti collettivamente; un gesto agito in maniera spontanea e non controllata, una profonda risonanza di un corpo collettivo.
Quell’ultima sera abbiamo realizzato anche una performance – pensata da Carla Adra e Rosie Reed – che ha raccontato ognuno di noi attraverso una frase e un movimento. Abbiamo disposto i nostri corpi in una lunga linea che dal cortile del Caffè Internazionale si snodava fuori da esso e, uno dopo l’altro, come in un telefono senza fili, ci siamo passati i movimenti e le parole facendole diventare un legame invisibile tra di noi.
Da quel primo anno di attività abbiamo capito che la relazione di gruppo era fondamentale per la riuscita della scuola e che il tempo passato insieme nello spazio a fare e parlare era essenziale al processo pedagogico, e che senza quello la trasformazione delle competenze di tutti gli attori in campo (studenti e docenti) non sarebbe avvenuta.
Il corpo, la parola, i luoghi della città erano parti essenziali e non rinunciabili.
La consapevolezza con la quale abbiamo affrontato i successivi anni della scuola si è basata sull’esperienza concreta di guidare l’andamento non prevedibile di una conoscenza collettiva che scaturiva dall’incontro delle esperienze singolari dei diversi partecipanti e dei docenti, invitati a proporre la loro pratica artistica come motore di questa trasformazione.
L’equilibrio fra tutti questi elementi è molto delicato. Gli artisti non sono invitati a realizzare una loro opera con gli studenti, e gli studenti dal canto loro non sono lì per usare i materiali a loro consoni per produrre un lavoro alla fine della scuola. Così pure gli interventi esterni di curatori, altri artisti, intellettuali non offrono una lettura frontale dell’apprendimento, quanto più un’occasione di dialogo. Tutti questi elementi sono punti di partenza di una trasformazione che diventa corpo comune.
Lo scardinamento dei ruoli pedagogici che cerchiamo di mettere in atto in Counterproduction, propone una produzione di conoscenza che si basa sulla costruzione dell’esperienza e che coinvolge la parola, il corpo e lo spazio come elementi in continua simbiosi e trasformazione. Lo spazio fisico dove i corpi si incontrano è ogni anno diverso e alterna spazi al chiuso e all’aperto. La città è il nostro orizzonte e il suo continuo attraversamento è parte di un approccio fisico e nomade di corpi che conoscono proprio attraverso questo movimento. Non c’è un’aula, una lezione frontale, dei compiti assegnati; ci sono corpi in cerchio che dialogano, camminate che si snodano lungo i quartieri, momenti solitari e esperienze collettive, conflitti e condivisioni.
Non viene richiesta la produzione di un lavoro finale, ma spesso c’è stato un momento di sintesi, un’azione oggettuale/performativa o una festa che libera attraverso la danza le energie creative accumulate.
La piccola magia che ogni anno si compie è un organismo delicatissimo, in cui ognuno ha un ruolo. La vivacità dell’apprendimento e la mutualità delle esperienze scambiate fanno sì che il processo educativo sia un flusso di scambio continuo che genera una conoscenza altra dalle singole conoscenze coinvolte inizialmente.
Counterproduction è a tutti gli effetti un luogo di sperimentazione di pedagogia libertaria (non uno spazio di produzione di progetti di artisti che lavorano con l’educazione) dove si ragiona sulla formazione del processo di apprendimento, sul ruolo delle diverse autorialità che ne fanno parte, sulla relazione dialogica tra gli artisti invitati come guida, i giovani artisti studenti della scuola, e noi che siamo parte del discorso, mediamo le dinamiche del gruppo, conosciamo la città.
Contro-produzione, nel nostro intento, è la riflessione sulla necessità e l’urgenza del gesto artistico e sul suo radicamento nel corpo singolo e nel corpo sociale. Il dialogo orizzontale, guidato ma aperto a esiti imprevisti fra i docenti e gli studenti, non mira al passaggio di una competenza o di una tecnica, quanto più propone la percezione di sé e del gruppo nello spazio abitato, nella durata della scuola, attraverso l’uso di diversi strumenti concettuali e materiali. L’esito è la trasformazione di sé, la produzione di conoscenza individuale e collettiva e la creazione di un legame radicato nell’esperienza vissuta insieme.
Nel 2017, quasi come un’antica tribù, abbiamo costruito un forno per cuocere la terracotta, che abbiamo lavorato insieme a Chiara Camoni. La creta è da diversi anni un materiale che Chiara usa anche come momento di coinvolgimento collettivo, una pratica di costruzione che non esclude il contemporaneo parlare e riflettere sulla commistione fra arte e vita, sul lavoro femminile collettivo che usa anche luoghi non convenzionali per creare a pensare. Noi ci siamo seduti sull’erba di un giardino che frequentiamo ogni anno della scuola, Villa Garibaldi a Piazza Marina. Lì abbiamo imparato a fare dei fischietti di terracotta, a dare forma a questi piccoli oggetti, a fendere la materia in modo che davvero possa emettere un suono. Il tempo passato al giardino insieme è stato un momento di confronto con una materia che in molti non maneggiavano, e il processo di dare forma a qualcosa è stato vissuto attraverso le mani e insieme sviscerato con le parole che prendevano corpo attraverso la percezione fisica. Abbiamo cotto i fischietti il giorno dopo averli fatti, abbiamo costruito un forno artigianale, come un piccolo vulcano, nel giardino della casa al mare di un amico (Paolo Falcone) in una giornata di luglio rovente.
La costruzione del pensiero che si forma in un corpo che si muove è stato anche il fulcro delle giornate passate con Raimundas Malašauskas, autore e curatore i cui progetti sono spesso fuori dagli schemi consueti della produzione culturale. Con Raimundas abbiamo ballato al ritmo di una playlist scelta da lui, abbiamo usato lo spazio del Caffè Internazionale e risuonato come corpi singoli e uniti, abbiamo imparato ritmi diversi che sono diventati ritmi anche di dialogo. La conoscenza si incarna, il pensiero si fa corpo, e in questo processo di formazione e costruzione noi cerchiamo di essere presenti, agirlo dal di dentro, mettendo in crisi i modelli di apprendimento verticali e unidirezionali.
Nel 2018 il corpo si è fatto parola attraverso il lavoro che abbiamo fatto con Cesare Viel, che ci ha portato ad essere completamente consapevoli di noi stessi e dello spazio che stavamo occupando. Movimenti semplici, pochi oggetti trovati nello spazio come tavoli o libri ci hanno aiutato a costruire un’azione e a trasmettere con il corpo il concetto di “Tirarsi in disparte il più possibile, cacciarsi il più possibile in un punto nascosto” (da Natalia Ginzburg). La ripetizione, il lavoro lento e profondo sulla percezione di sé nello spazio in cui abbiamo mosso i passi, i gesti che abbiamo fatto ci hanno aiutato ad acquisire un senso di appartenenza ai concetti che abbiamo espresso.
Helen Cammock ci ha accompagnato nel 2019 con un gruppo di partecipanti molto numeroso. Helen usa il corpo nella sua pratica, un racconto performativo che si confronta con diverse comunità, ed è stato naturale lavorare con lei sul rapporto fra il sé e gli altri con esercizi che ci hanno visto raggruppati in piccoli e grandi gruppi per immaginare cambiamenti che avessero effetto su almeno altre due persone al di fuori di noi. I pensieri che hanno preso corpo ci hanno fatto capire quanto la relazione fra i nostri comportamenti influenzi la vita dei corpi singoli e collettivi, e quanto questo spazio sociale sia necessario a tutti.
Nello stesso anno, il corpo politico e sociale della città è stato sviscerato con Driant Zeneli e Valentina Bonizzi attraverso il lavoro collettivo su un edificio architettonico fondamentale nella storia della città di Palermo quale il tribunale. Discussioni e azioni dentro e fuori lo spazio hanno portato a galla diverse sensibilità e appartenenze che hanno trovato spazio nelle azioni performative realizzate. La relazione fra la politica e l’azione artistica nello sfera pubblica sono state un campo di intervento che ci ha posto importanti interrogativi sul ruolo sociale che l’azione artistica riveste che abbiamo affrontato collettivamente lasciando spazio a posizioni diverse.
Counterproduction basa il suo approccio pedagogico sullo scardinamento di un approccio verticale, frontale ed esclusivamente verbale; si propone altresì di produrre conoscenza attraverso l’uso critico dello spazio pubblico, della relazione fra parola e corpo, della percezione del corpo singolo, collettivo, sociale. In questo scenario è una scelta precisa usare la città nel suo complesso, non avere un unico luogo dove avviene l’esperienza educativa, ma assimilare e comprendere lo spazio attraversato a piedi, abitato per ore o giorni. L’architettura, l’urbanistica dei quartieri, la densità dei mercati, il verde ordinato o selvaggio dei giardini e delle aree più o meno abbandonate della città, il mare e l’orizzonte, il nostro approccio nomade e inclusivo ci porta ogni anno a guidare intuitivamente, e allo stesso tempo con consapevolezza, le dinamiche di gruppo che si determinano ogni volta diverse e imprevedibili. La forza dell’esperienza di Counterproduction sta nella sua apertura, nel suo farsi nel tempo presente che abita, nel suo essere poco normata o definita da schemi educativi, nella naturalezza (anche conflittuale) con la quale ogni anno impariamo facendo, essendone tutti partecipi.
Note
[1] Consiglio l’approfondimento del progetto curatoriale Bauhaus Imaginista che racconta, a partire dall’esperienza del Bauhaus, un contesto educativo fondato sull’unlearning e su una comunanza di idee di principi pedagogici sviluppati in contesti extra europei in dialogo fra loro.
[2] A questo proposito suggerisco: Claire Bishop, Artificial Hells. Participatory Art and the politics of Spectatorship, Verso, Londra- New York, 2012; Pietro Gaglianò La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia, Gli Ori, 2020; Silvia Franceschini (a cura di), The Politics of Affinity. Experiements in Art, Education and the Social Sphere, ed. Fondazione Pistoletto Città dell’arte, 2018, che racconta molte delle attività portate avanti da Cecilia Guida come direttrice del programma Unidee 2015/17 alla Fondazione Pistoletto che ha coerentemente sviluppato sul campo una ricerca e una pratica su modelli educativi radicali.
[3] Paulo Freire, Pedagogia de Oprimido, 1979 (trad. it La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, 2002); Ivan Illich, Deschooling society, Harper and Row, New york, 1971 (trad. it. Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis Edizioni, Milano – Udine, 2010; Jacques Rancière, Le maître ignorant, Fayard, Parigi 1987 (trad. it. Il maestro ignorante, MImesis, Milano-Udine, 2008
Per ulteriori approfondimenti sull’argomento rimando a: Pietro Gaglianò La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia, Gli Ori, 2020
[4] Visiting professor/tutor: Jesal Kapadia (artista, NY/Bombay), Diego Perrone (artista, Milano), Aneta Mona Chisa (artista, Repubblica Ceca/Berlino), Chiara Camoni (artista, Fabbiano), Julieta Aranda (artista, NY/Berlino), Raimundas Malašauskas (curatore, Lituania, Brusselles), Dora Garcia (artista, Spagna), Cesare Viel (artista, Genova), Driant Zeneli e Valentina Bonizzi (artisti, Tirana) e Helen Cammock (artista, Londra). Quest’anno abbiamo invitato Luigi Coppola (artista, Lecce, Brussels).
Inoltre hanno portato il loro contributo con interventi e lectures durante il periodo della scuola: Maria Rosa Sossai (critica, Roma/Palermo), Giulia Crisci (curatrice, Palermo), Fabio Ciaravella (architetto Studio++, Palermo/Firenze), Alessandro Librio (artista/musicista/compositore, Palermo), Luca Cinquemani (artista/filosofo, Palermo), Marcello Carriero (critico/docente, Palermo), Antonio Catelani (artista, Berlino/Milano), Domenico Mangano e Marieke Van Roij (artisti, Palermo/Amsterdam), Cecilia Guida (critica/direttrice public program Art Line, Milano), Leone Contini (artista, Firenze), Simone Frangi (curatore, Milano), Clelia Bartoli (docente, Palermo) e il collettivo Femminote (artiste, Palermo).
Daria Filardo Nata a Palermo nel 1971, storica dell’arte, educatrice, curatrice indipendente, è coordinatrice e docente al Master in Curatorial Practice e Arts Management dello IED di Firenze. Fondatrice e curatrice (con Stefania Galegati e Davide Ricco) di Counterproduction, Palermo, è stata curatrice dal 1998 al 2000 al Palazzo delle Papesse di Siena. Dal 2001 collabora con istituzioni pubbliche e private. Si occupa di progetti a lungo termine che si articolano in scrittura, mostre, attività collettive.