§Memorie Sottopelle
che cosa sa un corpo
Corpi in lotta: la fotografia di Muholi come forma di resistenza.
di Aicha Traore

Muholi nasce nel 1972 a Umlazi, in Sudafrica, e si definisce “visual activist”, termine che sintetizza efficacemente la natura ibrida del suo lavoro, collocato all’incrocio tra arte e attivismo. Questo neologismo riflette una sensibilità contemporanea, esprimendo un concetto complesso che richiede inedite modalità di espressione, un nuovo linguaggio e un nuovo lessico che possano sostituire modelli linguistici ormai inadeguati per descrivere una realtà in continua evoluzione.

In un contesto in cui le comunità emarginate lottano quotidianamente per ottenere visibilità e riconoscimento, l’artista si distingue come una figura cruciale nella documentazione e celebrazione delle vite delle persone queer nere. Attraverso il suo lavoro, Muholi ha intrapreso un percorso di attivismo visivo, utilizzando il proprio corpo come strumento per confrontarsi direttamente con la violenza, incarnando oppressioni e abusi. La sua risposta a queste ingiustizie è performativa: il corpo diventa il mezzo attraverso cui si immerge nella lotta.
Questo approccio rappresenta un’espressione di un’identità “fuori forma”, un tentativo di affrontare ciò che è inesprimibile, oltre i canoni e le convenzioni.

«Spetta a voi decidere se volete restare dalla parte dei discorsi patriarcali e coloniali e riaffermare l’universalità della differenza sessuale e della riproduzione eterosessuale oppure entrare con noi, i mutanti e i mostri di questo mondo, in un processo di critica e di invenzione di una nuova epistemologia che consenta la redistribuzione della sovranità e il riconoscimento di altre forme di soggettività politica»
(Preciado, 2021, p.100).

L’artista sviluppa un percorso creativo caratterizzato da un’ossessiva attenzione alla serialità e alla fase preparatoria dell’opera, che diventano elementi centrali della sua visione. Le sue fotografie, che a un primo sguardo evocano lo sguardo esotizzante sull’Africa, celano in realtà anche un chiaro intento di denuncia, strettamente legato alle violenze subite dalle comunità nere LGBTQIA+. In questo contesto, Muholi intraprende un viaggio di esplorazione e protesta, dando voce alle identità emarginate, svelando l’orrore della violenza di genere e di ogni forma di ghettizzazione (Corley, 2016).

Zanele Muholi Ntozakhe II, Parktown 2016 Photograph, gelatin silver print on paper 1000 x 720 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

Nata durante l’era dell’apartheid, un periodo dominato dalla violenza del regime e dalle aspre battaglie per la sua abolizione, Muholi si trova fin da giovane ad affrontare le ulteriori brutalità inflitte alla comunità LGBTQIA+ di cui fa parte. Per un decennio, si dedica a contrastare il tentativo di occultare questi crimini, immortalando con la fotografia gli orrori e gli omicidi di persone innocenti perseguitate a causa del loro orientamento sessuale.

La sua prima serie di fotografie artistiche mette in luce le persone sopravvissute a crimini d’odio, diffuse in tutto il Sudafrica, comprese le township. Sotto l’apartheid, infatti, vennero create township segregate, aree residenziali riservate alla popolazione non bianca, esclusa dalle zone destinate esclusivamente alle persone bianche. In questi luoghi si perpetravano violenze di ogni tipo, tra cui lo “stupro correttivo” (Griot, 2023).

Negli anni Novanta, il Sudafrica attraversò una significativa trasformazione politica, Con l’elezione di Nelson Mandela a Presidente nel 1994, che segnò la fine dell’apartheid. Due anni dopo, nel 1996, fu adottata una nuova costituzione, la prima al mondo a proibire la discriminazione basata sull’orientamento sessuale.

Corpi che si raccontano

Adottando una prospettiva intersezionale radicata nel femminismo nero, Muholi esplora come diverse forme di oppressione si sovrappongano e influenzino reciprocamente. Questo approccio svela le molteplici discriminazioni di genere, che variano a seconda del contesto in cui una persona nasce e vive, mettendo in luce come ogni esperienza di vita sia modellata da tali intersezioni. Tali riflessioni trovano risonanza nelle opere di bell hooks, che ha analizzato come i corpi delle donne nere siano stati storicamente sfruttati, controllati e ridotti a stereotipi.

Zanele Muholi Bona, Charlottesville 2015 Photograph, gelatin silver print on paper 800 x 506 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

bell hooks ha esaminato l’oggettificazione dei corpi delle donne nere, un fenomeno radicato nell’epoca della riduzione in schiavitù di alcune popolazioni africane, quando i loro corpi erano trattati come proprietà, sottoposti a violenze e abusi senza alcun riconoscimento della loro umanità. Questo processo di disumanizzazione delle persone schiavizzate non si è concluso con l’abolizione della schiavitù, ma ha continuato a manifestarsi attraverso nuove forme di oppressione, come la rappresentazione mediatica delle donne nere, spesso ridotte a figure ipersessualizzate. hooks sottolinea quanto sia cruciale per le donne nere riappropriarsi dei propri corpi, un gesto di profonda ribellione contro le storiche dinamiche di sfruttamento e controllo.

«Amare la nerezza come forma di resistenza politica trasforma il nostro modo di considerare la realtà e di essere nel mondo e dunque crea le condizioni necessarie per batterci contro le forze del dominio e della morte allo scopo di rivendicare la vita nera»      
(hooks, 2024, p.35).

Muholi risponde a questa chiamata con la sua serie fotografica “Faces and Phases”, un’opera che rappresenta un esempio potente della sua missione artistica e sociale. 

In questa serie in particolare, lo sguardo gioca un ruolo centrale. Muholi realizza circa 200 ritratti che sfidano lo stigma, affermando visivamente la presenza e la dignità di queste donne, appartenenti alla comunità nera queer sudafricana, rendendo tangibile il loro vissuto di lotta e sopravvivenza. Questi ritratti non si limitano a mostrare le persone ritratte, ma affermano con forza la loro esistenza, ribaltando l’immagine stereotipata della vittima.

Muholi non si limita a documentare l’esistenza della comunità queer nera, ma celebra la corporeità e l’individualità di ciascun soggetto. Queste immagini non costituiscono solo una raccolta visiva, ma una narrazione che esprime il dolore collettivo di una comunità emarginata, trasformando il personale in politico (Muholi, 2009).

Zanele Muholi ID Crisis 2003 Photograph, gelatin silver print on paper 325 x 485 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

Dal 2001 si dedica alla rappresentazione delle persone queer nere, con un’attenzione particolare alle donne lesbiche. Questi individui, un tempo invisibili oppure visti come oggetti passivi di rappresentazione, diventano ora soggetti attivi che controllano e raccontano la propria storia.

Muholi scrive:
«I wished for us to stare back as black lesbian-identified women, to resist and challenge the idea that our bodies can be researched, understood, displayed for heterosexual and western consumption. My objective was to produce work for the very same subjects I would capture, in order for them/us/me to see our likenesses, and for the future generations to have a point of reference in our collective memories, in the archives, and beyond»      
(Muholi, 2009, p.5).

Questa dichiarazione sottolinea il divario tra le leggi e la realtà quotidiana, tra i diritti riconosciuti dalla costituzione e le persistenti pratiche di discriminazione e violenza.

Zanele Muholi Yaya Mavundla, Parktown, Johannesburg 2014 2000 x 1333 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

Muholi descrive l’effetto che spera di ottenere con il suo lavoro:
«The viewers are also forced to engage with the question of what does a lesbian look like? Is there a lesbian aesthetic or do we express our gendered, racialized, and classed selves in rich and diverse ways? I wanted the viewer to ask herself is this lesbian more authentic than that lesbian because one wears a tie and the other not? Is this a man or a woman, or a transman? Can you identify a rape survivor by the clothes she wears? Leaving the viewer to wonder is one strategy of disorganizing the gendering and the sexualizing that goes into the heterosexual script» (Muholi, 2009, p.27). 

Con questo approccio, Muholi costringe il pubblico a confrontarsi con la complessità dell’identità, e delle categorie del genere e della razza, sfidando stereotipi e percezioni consolidate.

Dall’oggetto al soggetto

Per comprendere a fondo il lavoro di Muholi, è essenziale considerare il passaggio dalla rappresentazione dell’essere umano come semplice oggetto a una rappresentazione visiva che ne riconosce la soggettività. Questo cambiamento si inserisce in un contesto storico più ampio, in cui l’Ottocento ha giocato un ruolo cruciale nella storia della rappresentazione del mondo. Durante questo periodo di colonizzazione, la fotografia emerse come una nuova tecnologia per rappresentare la realtà.

In tale contesto, la fotografia si rivelò un potente strumento di dominio, trasformando il mondo in un archivio sistematico di immagini.

Zanele Muholi Julie I, Parktown, Johannesburg 2016 Photograph, gelatin silver print on paper 660 x 1000 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

«Il dispositivo fotografico consentì alla borghesia europea di rivolgere uno sguardo verso sé stessa, di sperimentare la propria identità e di appropriarsi del mondo attraverso le immagini fotografiche e il potere di rappresentare» (Grechi, 2016, p.83).

Le esposizioni universali dell’Ottocento e Novecento furono luoghi privilegiati per la presentazione dei cosiddetti “tipi umani”, contribuendo a costruire un’immagine gerarchica del mondo che rifletteva la dicotomia tra i centri metropolitani e le colonie, tra modernità e alterità. L’esposizione del corpo umano “altro”, non occidentale, rimase una pratica persistente fino all’Esposizione di Bruxelles del 1958. Un esempio emblematico è quello di Saartjie Baartman, nota come la “Venere ottentotta”, la cui esibizione tra il 1810 e il 1815 dimostrò come l’antropologia fosse parte integrante di quel “complesso espositivo” che l’Occidente utilizzava per costruire un’immagine dell’alterità.

«Clifford osserva che ogni collezione implica un complesso generale di regole tassonomiche, classificatorie ed estetiche, ma anche un caotico e smodato desiderio di possedere, che attraverso la collezione viene tradotto in significazione, governato e codificato in un rituale di incanalamento delle ossessioni, un esercizio su come appropriarsi del mondo» (Grechi, 2016, p.91).

Zanele Muholi Qiniso, The Sails, Durban 2019 Photograph, gelatin silver print on paper 399 x 260 mm Courtesy of the Artist and Yancey Richardson, New York © Zanele Muholi

Il lavoro di Muholi si inserisce in una tradizione di resistenza contro la storia di oggettificazione e spettacolarizzazione dei corpi neri, sfidando le strutture di potere che hanno alimentato visioni distorte e oppressive.

Attraverso la sua opera, Muholi non solo documenta, ma trasforma le esperienze in una potente dichiarazione di identità e dignità, opponendosi a secoli di rappresentazioni disumanizzanti.

I corpi delle donne nere sono stati sistematicamente svalutati rispetto agli standard di bellezza eurocentrici, che hanno imposto modelli irraggiungibili, alimentando sentimenti di inferiorità e auto-disprezzo. Questo ha portato a una forma di colonizzazione psicologica, spingendo molte donne nere a desiderare caratteristiche fisiche lontane dalle proprie, come la pelle più chiara o i capelli lisci.

L’opera di Muholi suscita una profonda inquietudine, in particolare per l’uso del bianco e nero, che sembra intenzionalmente svelare il profondo contrasto del nostro tempo, segnato da logiche predatorie e meccanismi ripetitivi. Questo approccio invita l’Occidente a riflettere sulle proprie responsabilità, sui vuoti che persistono e su un’identità che fatica a rielaborare, ma la mia impressione è che si rivolga a questo secondariamente. Piuttosto, l’artista parla a un pubblico africano e afroamericano, spingendolo a riflettere sulle eredità coloniali. Questo include, a mio avviso, anche quei leader africani che discriminano l’omosessualità come “malattia/perversione importata dall’Occidente” in base a un’idea della sessualità africana (machista e etero) che a ben vedere è molto vicina a quella emersa nelle rappresentazioni di epoca coloniale. Tra questi c’è anche l’ex presidente del Sudafrica Jacob Zuma, che Muholi sicuramente prende di mira. 

L’artista opera una contronarrazione, riscrivendo significati attraverso lo sguardo, la nudità e il rifiuto della vergogna. Muholi porta alla luce ciò che è inquietante proprio per la sua natura sovversiva, trasformando l’oggetto osservato in un soggetto capace di generare sapere e consapevolezza.

Bibliografia

Corley Í., An Interview with Zanele Muholi, Wasafiri, No. 31(1), 2016, pp. 22–29.
Davis A., Donne, razza e classe, Alegre, Roma, 2018.
Fanon F.Pelle nera maschere bianche, ETS, Pisa, 2015.
Grechi G., La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea, Mimesis, Milano, 2016.
Griot, Muholi. A visual activist. In mostra oltre 60ritratti nella prima retrospettiva italiana di Muholi, 2023. 
hooks b., Sguardi neri. Nerezza e rappresentazione, Meltemi, Milano, 2024.
Muholi Z., Faces and Phases, Transition, No. 107, Blending Borders, 2012, pp. 113-124.
Muholi Z., Mapping Our Histories: A Visual History of Black Lesbians in Post-Apartheid South Africa, 2009.
Newbury D., Rizzo L., Thomas K., Women and Photography in Africa. Creative Practices and Feminist Challenges, Routledge, Oxon, 2021.
Preciado P.B.Sono un mostro che vi parla, Fandango, Roma, 2021.

Aicha Traore è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Napoli e attualmente sta frequentando la magistrale nella stessa istituzione, specializzandosi in didattica e mediazione culturale del patrimonio artistico. La sua ricerca si concentra sulla rappresentazione del corpo nelle arti visive e performative, con un focus particolare sulla prospettiva decoloniale.