Improvvisamente ci siamo chiesti come svolgere le lezioni in remoto.
Era stato tutto predisposto perché potesse avvenire da casa, avvalendosi di nuovi strumenti, eppure lo sgomento era la sensazione prevalente.
Nella stessa identica condizione – del tutto inedita – si sono trovati gli studenti: obbligati a seguire le lezioni secondo la regolare calendarizzazione, ma per lo più nel chiuso degli appartamenti, come la maggior parte degli italiani: convivendo con le proprie famiglie, o in alternativa con i propri compagni di stanze, e confidando nell’efficienza della rete e delle tecnologie a disposizione.
Dopo qualche mese di didattica da casa abbiamo compilato dei questionari per esprimere un’opinione sull’andamento dei corsi ed eventualmente suggerire modalità alternative di insegnamento (blended, tradizionali, totalmente digitali) in un immediato futuro, alquanto più incerto. Ci stavamo già chiedendo se le nostre scelte fossero opportune, se dovessero prevalere le ragioni dei contenuti, o le esigenze degli studenti rapportate al nuovo medium. Più realisticamente, sperimentavamo volta per volta, lezione per lezione, cercando di contenere le frustrazioni e lo stress. E comunque, il confronto quotidiano con gli studenti riguardava inevitabilmente più il come impostare lo svolgimento che il contenuto vero e proprio delle lezioni.
Sì, la novità è che si erano attivati altri canali di comunicazione, più agili e vicini alle abitudini dei ventenni, e continuamente aperti – compresi i fine settimana e le ore serali – mentre sul web e sui social si era riversata la miriade di esperienze, proposte e informazioni, non vivibili in presenza, che ho cominciato a selezionare e condividere con loro. Un impegno a tempo pieno, che mi ha ricordato la realtà comunitaria e volutamente sperimentale di alcune istituzioni formative dei primi decenni del secolo scorso. Confermata dalla successiva lettura de La signora Bauhaus (Revedin J., 2020), che ricostruisce letterariamente la figura di Ise Frank, seconda moglie di Walter Gropius, e rappresenta sia uno sguardo critico e inedito sul Bauhaus di Dessau, sia una possibile ricostruzione degli ambienti avanguardistici degli anni Venti, con tutto il portato di una nuova didattica e progettualità.
Dove eravamo rimasti? Dove stavamo andando?
Insegno da molti anni a livello universitario, continuativamente in varie istituzioni pubbliche, nelle Marche e poi a Roma, alla Sapienza e all’Isia Roma Design (Istituto Superiore delle Industrie Artistiche). Già da qualche tempo – prima della pandemia – mi era stato offerto di svolgere le lezioni anche on-line. Soprattutto mi era stato proposto di immaginare delle lezioni per una platea di studenti più vasta: dei moduli preregistrati su diversi argomenti sulla storia dell’arte contemporanea, e più di recente sulla storia e critica del design. Sono andata in rete, per vedere di cosa si trattasse, e ho imbastito un programma, per poi decidere di lasciar perdere. Non mi riconoscevo in quel modo di insegnare. Non avrei saputo contenere un particolare disagio: il mio. Quel disagio che, in tre decenni di insegnamento, si è ricomposto via via nella relazione con gli studenti, e che oggi mi avrebbe restituito una certa serenità; o, per meglio dire, un ruolo a servizio di una generazione, nel tempo sempre più lontana dalla mia, ma nella quale continuo a rispecchiarmi.
Avevo rifiutato queste proposte nella consapevolezza che, durante una lezione, la condivisione riguarda specifiche conoscenze (i documenti storici, l’analisi critica, le metodologie interpretative), ma affidate all’imponderabile dinamica dei rapporti che si stabiliscono all’interno dello spazio di un’aula, e che determinano lo svolgersi di una lezione in una forma partecipata, non condotta ex cathedra come ormai da tempo io stessa vado sperimentando.
Già all’esterno, come è accaduto spesso in occasione di visite a musei, spazi espositivi, o luoghi di interesse storico, la lezione si configura diversamente. E non di rado la dimensione peripatetica attiva forme più libere di espressione – per il docente come per gli studenti – facilitando lo scambio personale, anche intimo, e una maggiore e vicendevole conoscenza.
Senza contare che i tempi, all’interno e all’esterno, mutano completamente. Diversi possono essere gli stimoli: si rivolge l’attenzione a una totalità, rappresentata dalle caratteristiche di uno spazio urbano e architettonico, oltre che circoscritto e confinato; si incontra continuamente lo sguardo dell’altro, quasi come diaframma tra se stessi e ciò che si osserva, a diverse scale di percezione e valutazione.
Come è stato già detto da tanti – che hanno ragionato sulle opportunità e differenze tra didattica digitale e in presenza – le lezioni analogiche[1] sono determinate dalla prossimità tra docente e studenti. Sguardi, forme empatiche e dinamiche di partecipazione e collaborazione, assensi e dissensi, possono rendere unici gli incontri, al limite di una irriducibilità dell’esperienza relazionale e una impossibilità di replicare le riflessioni e i contenuti che occasionalmente sono messi in campo, dagli studenti e dal docente.
Per questo sono grata a coloro che partecipano attivamente alle mie lezioni, anche prendendo appunti, e in sede d’esame restituiscono una personale narrazione di ciò che si è condiviso in aula. Il loro contributo rappresenta un fattore imprescindibile per il buon andamento di una lezione: per l’elaborazione di nuove idee, per la definizione e il chiarimento di concetti; per l’apporto critico e interpretativo.
Cosa ha invece determinato la didattica in lontananza?
La DAD fin qui praticata ha significato – per studenti che frequentano un’istituzione pubblica universitaria, con corsi specifici per la formazione dei designer (Isia Roma Design) – non poter progettare nelle condizioni auspicate, non potersi confrontare quotidianamente con i colleghi e i docenti; non poter avere accesso ai laboratori e alla biblioteca, e dover ovviare alla consuetudine produttiva del lavoro in gruppo e dello svolgimento delle revisioni in presenza.
Per quanto mi riguarda, questi mesi di docenza da casa hanno determinato una ridefinizione dei corsi e del rapporto con gli studenti, e l’assestarsi di una condizione di costante autoriflessività: un esercizio quotidiano di verifica di azioni e comportamenti, prima appartenenti a ritmi consuetudinari, o comunque assestati su procedimenti consolidati. Sto scrivendo questo articolo e da un paio di giorni sono state previste caute aperture che coinvolgeranno anche il comparto universitario. La notizia non mi ha rassicurata, anzi; nel contempo ho cominciato a chiedermi, non senza una certa ansietà, come potrà essere il ritorno in sede. L’ho chiesto anche ai miei studenti: tranne quelli del primo anno, per i quali prevale la curiosità riguardo a un’attività non ancora sperimentata in presenza, gli altri sono in ambascia forse più di me. Del resto, la situazione sanitaria non è ancora a un livello rassicurante. E poi, in che modo dopo più di un anno si ricomincerà a fare lezione? Si potrà parlare di un ritorno alla normalità?
Durante le lezioni in DAD ho osservato me stessa e i miei studenti, complice la dimensione in video, frontale, a mezzo busto; e il vantaggio di una miopia pluridecennale, non ancora del tutto mitigata dalla presbiopia. Ci si approssima allo schermo per meglio utilizzare il mouse e agire sullo schermo, e in ogni caso la postura non è quella composta e distante che contraddistingue in televisione o sui social chi si collega in remoto ospite di una trasmissione.
Forse per compensare una evidente mancanza, ho osservato maggiormente i corpi e gli atteggiamenti dei miei studenti: una prossemica inscritta nello spazio definito dello schermo; una curiosa omologazione imposta dal mezzo, con le varianti dei relativi paesaggi domestici. Il tutto immerso nella luminosa immaterialità del digitale.
Ne ho tratto delle informazioni, ritenendo che potendo osservarli all’interno degli spazi abitativi – in posizione altrettanto frontale, o di profilo, a seconda dell’utilizzo di un unico o più dispositivi – i loro corpi raccontassero più di quanto accadesse in presenza. Questo in realtà può avvenire quando non si è in fase di condivisione di immagini o materiali video. Per buona parte delle lezioni, infatti, ciò che si proietta copre la vista degli studenti, e loro stessi vedono del docente un piccolo francobollo, in alto a destra. Sempre che, attivata la condivisione, decidano effettivamente di partecipare alla lezione oppure, come può purtroppo accadere, non scelgano di assentarsi, lasciando acceso il computer con il microfono spento e l’immagine fissa dell’icona/fotografia che hanno selezionato per rappresentarsi (che a sua volta li racconta).
Le inquadrature del computer mi hanno ricordato le fotografie dell’artista americana Francesca Woodman (Denver, 1958 – New York, 1981), coetanea dei miei studenti quando si autoritraeva, e della quale mi occupo da decenni.
L’impegno nei loro confronti si era intanto spostato da una condizione meramente didattico-conoscitiva, a una costante riflessione sul vissuto durante il confinamento, e su quali opportunità dovessi assumere per loro.
In particolare, un saggio seminale di Rosalind Krauss su Francesca Woodman si è come sovrapposto ai miei pensieri, accompagnandomi per tutto il primo semestre di docenza a distanza. Krauss analizza una serie di scatti relativi agli anni di frequenza alla Rhode Island School of Design di Providence (Krauss R., 1986), nella seconda metà degli anni settanta, stabilendo una significativa connessione tra il lavoro della giovane artista e le esercitazioni scolastiche di uno dei migliori percorsi formativi degli Stati Uniti per la fotografia, esemplato su quella didattica modernista che il Bauhaus aveva felicemente inaugurato.
La natura intrinseca di queste fotografie riguarda proprio la rappresentazione del corpo della fotografa in spazi confinati, costretti, inusitati. E l’interiorizzazione di dimensioni spaziali originariamente finalizzate all’apprendimento della tecnica fotografica, poi diventate modalità espressive di Woodman. Profondità di campo, Punto di visione, Spazio2 (figg.1,3,4), Charlie il modello, sono proprio alcuni dei titoli, autografati sui supporti, che rimandano alle esercitazioni del primo anno di corso alla RISD.
In particolare, nella serie Spazio2 (figg.1,3,4), il corpo nudo (messo a nudo) dell’artista mostra parti di sé all’interno di vetrine espositive di forma parallelepipeda, in posture aptiche, compresse e innaturali. Una mano aderisce alla superficie trasparente (diaframma tra dentro e fuori); un’altra accompagna la pressione del fianco e della coscia. Lo scatto fotografico mette in luce un’azione performativa; i limiti scatolari della teca in legno e vetro intercettano misure, volumi e anatomie di un corpo in movimento (fig.1).
La nutrita letteratura critica su Francesca Woodman associa quasi unanimemente al suo lavoro artistico un irrisolto e forte malessere esistenziale, sostenuto dall’impiego reiterato del corpo autofotografato, disgregato, spesso acefalo, e da ambientazioni costruite sui temi dell’assenza, della sottrazione e di una peculiare cessione alla fallibilità. La sfocatura e il movimento prolungato nello spazio (ottenuti riducendo il diaframma e allungando i tempi di posa) contribuiscono a definire un’estetica rovinista, presente in forme diverse anche nei video dell’artista; e nella personale scelta di abiti retrò, non propriamente vintage –, enunciata attraverso set fotografici e sequenze di scatti, vere e proprie serie e percorsi cinematici [2].
Luoghi abbandonati, segnati da un imprecisato trascorrere del tempo, dove anche l’immagine del corpo dell’autrice subisce l’aporia e l’obnubilamento. In un processo di cosizzazione, che restituisce qualità fotografica alla superficie degli oggetti e ai valori tettonici delle ambientazioni.
C’è sempre qualcosa che si lascia intravedere o potrebbe sparire alla vista, e l’oggettualità corporea è inevitabilmente frammentata: un foglio di carta strappato, un velo di plastica, una porta scardinata (fig.2), un’ampia porzione di rivestimento da parati, sbiadito, si frappongono alla vista, rendendo surreale ed epifanico il vuoto e ciò che si sottrae alla perspicuità della visione (fig.3). Mentre la definizione prospettica degli spazi (le vetrine museali, il pavimento a scacchi, l’ingombro dei serramenti e del mobilio) e la stabilità del formato quadrato, è in relazione ossimorica con l’indefinitezza dei soggetti umani. Fino alla resa ectoplasmatica di corpi e arti: diafane presenze in dissoluzione, che lasciano di sé scie luminescenti come flussi di coscienza reificata.
Quando Rosalind Krauss analizza queste fotografie – in alcune compaiono anche altri soggetti, come il modello corpulento della Rhode Island School of Design, Charlie (serie Charlie the Model, Providence 1976-77) – immette, nella storia critica di Woodman, non soltanto i puntelli interpretativi di una vicenda artistica breve quanto densa, tragica nell’epilogo e connessa a un iter formativo ben individuato, quanto l’opportunità metodologica di prendere in considerazione una pluralità di strumenti indagativi. Viceversa: «L’idea che un artista abbia una responsabilità da dichiarare attraverso un’esplicita spiegazione del significato del proprio lavoro sembra curiosa almeno quanto l’idea che l’unico modo per offrire questa lettura – dovendo l’artista visivo desiderare di farlo – sia attraverso le parole» (Krauss, 1993, p.164).
Le foto prese in esame sono l’esito documentato di un’esercitazione universitaria, e appartengono nel contempo a una determinata fase del percorso artistico e di autoconoscenza di un’artista per la quale l’adolescenza era stata un’età artisticamente adulta (come direbbe Erri De Luca). È ormai accertato, infatti, che Francesca Woodman aveva cominciato a fotografare intorno ai tredici anni, con una macchina che le era stata regalata dal padre George, artista egli stesso. Coincidono invece proprio agli anni di frequenza alla School of Design di Providence i primi esperimenti con la videocamera (autunno 1976), che apparteneva alle attrezzature in dotazione all’istituto.
In tal senso, gli scatti di Providence (1975-78) vanno a rappresentare – forzando l’analisi di Rosalind Krauss, che collocherebbe la fase matura di questa processualità al successivo soggiorno romano – «un mezzo attraverso cui pensare, e all’interno del quale lavorare» (Krauss R., 1986, p.185). Iscrivendosi nella parabola esistenziale di una giovane studentessa che rispondeva, incarnandoli, a compiti assegnati dai docenti della classe di fotografia: «serie di problemi» proposti quale metodologia d’insegnamento delle discipline artistiche e progettuali. O anche esercizi per affrancarsi dalla propria soggettività, come avrebbe previsto un sistema d’insegnamento esemplato su quello bauhausiano, ma aggiornato a una didattica più libera e articolata: proprio verso la fine degli anni ʹ60 la fotografia era diventata una disciplina universitaria dipartimentale, con il moltiplicarsi di corsi specifici avanzati. E Francesca Woodman apparteneva proprio alla prima generazione di studenti che negli Stati Uniti aveva avuto l’opportunità di formarsi nel campo specifico della fotografia, con corsi autonomi sia undergraduate che graduate (Keller C., 2011).
Il portfolio mostrato per le revisioni – che rivela un’eccezionale maturità espressiva, nutrita di determinazione e precoce intuitività – aveva sorpreso i docenti, che probabilmente si sarebbero aspettati qualcosa di meno personale, maturo e letterale, al limite del tautologico: la quadratura dello spazio mediante l’autorappresentazione, e un «costante riferimento alle leggi della fotografia» (Krauss R., 1986, p. 173) (obiettività, definizione, messa a fuoco, proiezione; finanche le caratteristiche del campo visivo del mezzo fotografico: una Rolleiflex, macchina fotografica che produceva negativi quadrati). Anche i colleghi di corso, che ne condividevano le esperienze (fig.4) e lo studio-abitazione nell’edificio industriale Pilgrim Mills a Providence, erano spiazzati dal temperamento di Woodman, dal suo livello di consapevolezza, mediati da una reiterata e disinvolta sovraesposizione [3].
Più in particolare, l’impegno scolastico di Francesca si caricava di ulteriori pressioni nel confronto ineludibile con i genitori, entrambi artisti, e i loro amici: una comunità di accademici, critici e artisti visivi, frequentati sia negli Stati Uniti sia in Italia, dove dalla fine degli anni sessanta i Woodman avevano vicino Firenze (Antella) la seconda residenza e il duplicato dei loro atelier. E così consapevoli, ognuno a proprio modo, della mission creativa, da aver scelto per entrambi i figli le migliori scuole di formazione sin dai tempi delle medie (Junior High School).
Senza escludere, in questa valutazione a posteriori delle fotografie della RISD, le riflessioni di genere. Non certo un’adesione dichiarata di Francesca Woodman al femminismo, quanto un’esposizione del proprio corpo molto lontana dagli stereotipi, anche nelle successive fashion photographs. Semmai l’aver introiettato diversi linguaggi espressivi, appartenenti all’avanguardia storica come a specifici modelli autoriali femminili: un bagaglio di conoscenze coltivato nei musei, e attraverso i libri, sin da piccola; e da intendersi come necessità di una incessante ricerca, una continua automimesi rapportabile sia all’età, sia alla tensione identitaria e artistica. Con la precisazione che, negli anni settanta, nelle istituzioni formative statunitensi, poteva registrarsi una significativa rappresentanza femminile nel corpo docente, e la stessa Woodman molto doveva alla possibilità di incontrare professioniste dell’arte, come la fotografa Wendy Snyder MacNeil, sua insegnante all’Abbot Academy quando era adolescente.
Questo corpus di fotografie, che pure originano in un contesto didattico-esperienziale così connotato – e segnano, nella loro compiutezza espressiva gli esordi di un’artista straordinaria – hanno influenzato a loro volta generazioni di studenti e aspiranti creativi, nel perpetuarsi di una fascinazione che non ha subito flessioni, e oggi si è moltiplicata nella fruibilità social.
Gli scatti di Woodman sono diventati nel tempo – almeno dagli anni Novanta – copertine di libri di filosofia, psicologia, psicanalisi, sociologia, oltre che immagini di riferimento di mostre collettive sui temi del corpo nell’arte contemporanea. E poi soggetti teatrali e filmici, con un’accentuazione degli aspetti morbosi di una biografia che purtroppo si era volutamente conclusa con un allontanamento dalla vita. Effettivamente, sulle fotografie di Francesca Woodman generazioni di post-adolescenti hanno proiettato i loro turbamenti e le loro aspirazioni. Questo riguarderebbe i processi empatici di immedesimazione: la condivisione di una condizione esistenziale, nutrita di incertezze per il futuro, ma rapportata alla ricerca di un baricentro espressivo che potesse essere riconosciuto in termini di autoriale originalità.
Di più, in questa fase delle nostre vite – accomunate globalmente da paure e limitazioni delle libertà individuali (anche nel chiuso delle abitazioni) –, le fotografie di Woodman si prestano alla rappresentazione di un’esistenza spesa al di qua e al di là degli schermi. Alludono, liricamente, alla mancata messa a fuoco dei nostri obiettivi (pre e post pandemici), e ne raccontano la costrizione, l’adattamento forzato, la mancanza di libertà nei movimenti, la precarietà, finanche la scatolarità dei nostri orizzonti visivi.
Senza nulla togliere alla pregnanza del loro valore artistico, sembrano inscenare una pedagogia dell’errore, prefigurando scenari distopici di solitudine e incertezze profonde. E involontariamente esemplificano, ancora una volta, condizioni esistenziali associate al male di vivere; che ora sappiamo hanno danneggiato in particolar modo i bambini e i giovani.
Se Francesca Woodman ha portato a compimento un’espressione del sé, in un’età di dubbi e forti pulsioni, e questo è avvenuto in un contesto formativo, probabilmente una delle strade da praticare per noi docenti è stata individuata. In questo senso, il suo lavoro fotografico è testimonianza dell’efficacia di una prassi didattico-pedagogica – che affonda le radici nei primi decenni del secolo scorso, in un «fare con arte» (Argan, 1951) aperto a molte istanze, funzionali e spirituali -; e può costituire un punto di riflessione, un modo di insegnare aggiornato ai nuovi mezzi a disposizione. In un’ottica di ripensamento del come, che già da tempo sarebbe dovuta avvenire, e che in un certo senso la pandemia ha reso necessario quanto urgente.
Se non altro possiamo partire da un qui e ora che sia anche superamento degli specialismi, degli sterili individualismi che in questo periodo probabilmente si sono accentuati, non soltanto nei docenti. Avvalendoci di strumenti interpretativi che ci consentano di rovesciare la situazione che stiamo inevitabilmente subendo, che continua a privare i nostri studenti di stimoli e di quella dimensione esperienziale necessaria per il configurarsi di personali capacità progettuali ed espressive.
E ai quali stiamo chiedendo di progettare nuovi mondi e nuove realtà sostenibili.
Note
[1] Uso questa espressione, in alternativa a lezioni digitali, anche in riferimento al valore della voce nelle lezioni in presenza. Negli anni, ho spesso evitato l’uso del microfono, potendo avvalermi di tecniche di emissione acquisite in passato, studiando canto lirico ed esibendomi in pubblico.
[2] Categoria critica da me introdotta: Caruso R., Percorsi cinematici nel lavoro fotografico di Francesca Woodman/Cinematic Paths in the Photographic Work of Francesca Woodman, in Donna: avanguardia femminista negli anni ’70, Electa, Milano 2010, pp. 214 – 239.
[3] Ricordo bene l’ammirazione mista a invidia di un paio di compagni che incontrai a New York alla fine degli anni novanta, mentre lavoravo alla mostra retrospettiva che si sarebbe inaugurata al Palazzo delle Esposizioni di Roma (2 febbraio – 27 marzo 2000). Cfr. inoltre Caruso R., Riflessioni nell’ombra. Ritratti e camouflage nell’opera fotografica di Francesca Woodman, in Autobiografia/Autoritratto, catalogo della mostra a cura di Iamurri L., Palombi, Roma 2007, pp. 70-78 e ill..
Bibliografia
Argan G.C., Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1982.
Keller C., A Portrait of the Artist as a Young Woman, in Francesca Woodman, catalogo della mostra, San Francisco Museum of Modern Art (SFMoMA), D.A.P./Distributed Art Publishers, Inc, New York 2011, pp. 169-185.
Krauss R., Francesca Woodman: esercitazioni (tit. orig. Francesca Woodman: Problem Sets, New York 1986), in Celibi, Codice edizioni, Torino 2004, pp. 169-185.
Krauss R., Cindy Sherman: senza titolo (tit. orig. Cindy Sherman 1975-1993, New York, 1993), in Celibi, Codice edizioni, Torino 2004.
Caruso R., Riflessioni nell’ombra. Ritratti e camouflage nell’opera fotografica di Francesca Woodman, in Autobiografia/Autoritratto, catalogo della mostra a cura di Iamurri L., Palombi, Roma 2007.
Caruso R., Percorsi cinematici nel lavoro fotografico di Francesca Woodman/Cinematic Paths in the Photographic Work of Francesca Woodman, in Donna: avanguardia femminista negli anni ’70, Electa, Milano 2010.
Revedin J., La signora Bauhaus, Neri Pozza, Vicenza 2020.
Rossella Caruso. Storica dell’arte specializzata alla Sapienza, è critica e ricercatrice indipendente. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche (isiaroma.academia.edu/) sui temi storici dell’allestimento e dell’arte contemporanea, insegna a livello universitario dal 1996 (Università di Macerata; Università Sapienza), e attualmente all’ISIA ROMA DESIGN.
È membro dell’ICOM, dell’AICA (già vice-presidente) e dell’ADI (dal 2020 componente della commissione selezionatrice dei prodotti editoriali e della ricerca).