AC: C’è un titolo che mi frulla in testa da diversi giorni. È il titolo che Broomberg e Chanarin hanno scelto per il loro ultimo lavoro (2018) ed è una citazione dall’opera di Joseph Beuys Bandage the knife not the wound, ovvero “Benda il coltello, non la ferita”. Nelle nostre conversazioni su alcuni dei fondamenti teorici che danno corso alle nostre lezioni o ai lavori/ricerche che produciamo, il concetto, l’idea di ferita, ha per entrambi un ruolo preponderante. Soprattutto in funzione di temi quali il trauma e il rimosso collettivo, come nel caso del colonialismo italiano. Cosa ti fa venire in mente, o quali ragionamenti fa scaturire, in relazione al tuo progetto Rimosso d’oltremare la citazione di Broomberg e Chanarin che muove da Beuys?
LC: Dietro al loro desiderio di riflettere sul ruolo ambiguo e pericoloso delle immagini nella società contemporanea e al tentativo di svelarne i meccanismi e gli automatismi nei processi di costruzione e di consumo i due artisti, e in questo si collegano apertamente alle riflessioni di Joseph Beuys, ci avvertono della necessità di prestare attenzione alle cause più che agli effetti della violenza o di un sistema di “potere” che la esercita, passato o presente che sia. «Le nostre vite sono così consumate dalle immagini che è importante capire il loro modo di lavorare: emotivamente, politicamente, culturalmente, economicamente», racconta Broomberg in un’intervista al Daily Telegraph. Coprire la ferita significherebbe quindi sotterrare e nascondere, creare rimozione e amnesia. Dimenticare e non “bendare” la lama del coltello, invece, porterebbe solo a generare e moltiplicare nuovi “spettacoli” e drammaturgie di massa. Se non lo facciamo, le cause che generano un evento traumatico, i fattori stimolanti come i moventi si trasformano in “fantasmi”, come quei fantasmi di cui ci parla Georges Didi-Huberman riferendosi alle immagini – possiamo capire come al contrario delle cose che, nelle rinascite, si trasmettono pure – puri fantasmi, ben inteso – le cose che si trasmettono nelle sopravvivenze diventano, e ridiventano, sempre più impure. Queste cose non esistono che nella vocazione a decomporsi sempre di più e i fantasmi stessi possono diventare sempre più ingannevoli e contaminati. Quando incontro i monumenti nelle nostre piazze, un obelisco come Garibaldi a cavallo, penso a loro come a degli spettri che il tempo ha allontanato dal loro significato originale, trasformandoli in ombre, in contorni, in semplici cornici vuote e depoliticizzate. Forse è proprio attraverso questa zona di semioscurità che ci vediamo e percepiamo, scriveva Ian Buruma nel Il potere dei Monumenti in un articolo tradotto e pubblicato su “La Repubblica” del 11 settembre 2017. «Il modo in cui raccontiamo il passato e teniamo vivi i ricordi attraverso alcuni manufatti culturali riflette in gran parte il modo in cui una società, collettivamente, si vede».
AC: Nella sua biografia, Jung racconta un sogno, un episodio onirico a partire dal quale costruirà il discorso sull’ombra, un tema che non solo attraversa la letteratura di fine Ottocento, ma diventa archetipo di una condizione polarizzata della coscienza, individuale e soprattutto collettiva, in cui una scissione progressivamente più marcata produce l’autonomia della figura fantasmatica. Sempre più lontana dalla consapevolezza si nasconde e la minaccia.
LC: A proposito di semioscurità mi viene in mente proprio l’ombra che è proiettata dalla rimozione di una parte della nostra storia, quella imperialista e colonialista di fine Ottocento e della prima metà del Novecento. La rimozione credo sia coincisa con una strategia, un ripiegamento o meglio una “diserzione” dalle proprie responsabilità storiche-politiche, ma cosa ancora più grave credo sia la sua dimensione e condizione “collettiva”, quindi culturale. Questa sottrazione, oblio, furto di luce, non solo produce la desolazione dell’amnesia ma agisce sulla memoria, quindi sull’identità e falsifica la possibilità di comprensione del reale, distorcendo le narrazioni e le rappresentazioni della storia e del presente, rendendole isteriche, tendenziose e dissociate – gli isterici semplicemente non sanno quello che non vogliono sapere, diceva Freud – ma soprattutto generando un copione contraffatto e sotterraneo, un testo o una recita bugiarda, attraverso la quale si definiscono gli strumenti per interpretare il mondo che ci circonda. In questo terreno si manifesta l’aspetto pragmatico e crudele della rimozione, la lama del coltello: l’amnesia lascia nello spazio intorno a noi dei “residui” – che siano politici, ideologici, culturali – delle rovine, degli spettri che tornano in vita nel contemporaneo con una forza ancora più aggressiva e destabilizzante. La rimozione è un processo psichico, che definirei clinico, al quale si oppone, come dicevo, il lavoro analitico e se a questa condizione aggiungiamo l’azione corrosiva del tempo, citando ancora Georges Didi-Huberman, «nel passato come nel presente, vive al ritmo delle rimozioni e dei ritorni del rimosso. Ciò che comanda la danza, sotterraneamente, sovranamente, non è che l’inconscio del tempo […] Dobbiamo essere soprattutto consapevoli che la storia stessa fabbrica i propri vuoti, le proprie lacune, le proprie censure» (Didi-Huberman G., 2013).
AC: È interessante il tuo discorso sulla “rimozione” e sul “fantasma”, perché mi pare che, dal tema del tuo lavoro Rimosso d’oltremare, conduca direttamente alla fotografia: ogni immagine conduce a una dialettica tra piani temporali, dall’istante dell’osservazione all’”è stato” barthesiano che costituisce il punto nodale del fotografico. Ovvero, ogni fotografia è per sua stessa natura postuma. Noi guardiamo la fotografia sempre après coup, ovvero “da dopo”. Il racconto che l’immagine produce è allora sempre un racconto di fantasmi, persino quando fotografiamo e contempliamo noi stessi: guardiamo i noi stessi di pochi attimi prima, ciò che non è più. Così, per tornare alla questione psichica, che nel nostro caso è anche politica data la declinazione collettiva, la fotografia può diventare quella superficie bidimensionale su cui proiettare la materializzazione dei nostri “rimossi”, dei nostri “fantasmi”. Nella finzione di un ragionamento logico, quale strumento migliore per riportare alla luce quella larga zona d’ombra prodotta dal colonialismo italiano, per riflettere su questa generalizzata amnesia? Da questo punto di vista la fotografia potrebbe funzionare come il vortice di cui parla Agamben, un’immagine ripresa credo da Benjamin, «una forma che si è separata dal flusso dell’acqua di cui faceva e fa ancora in qualche modo parte, una regione autonoma e chiusa in se stessa che obbedisce a leggi che le sono proprie; eppure essa è strettamente connessa al tutto in cui è immersa, fatta della stessa materia che continuamente si scambia con la massa liquida che la circonda. L’origine è contemporanea al divenire dei fenomeni, da cui trae la sua materia […] E poiché essa accompagna il divenire storico, cercare di capire quest’ultimo significherà non riportarlo indietro a un’origine separata nel tempo, ma confrontarlo e mantenerlo con qualcosa che, come un vortice, è tuttora presente in esso» (Agamben G., 2014). L’idea è che la fotografia, in virtù delle sue peculiarità, abbia il “potere” di produrre momenti in cui il tempo può in un certo senso essere alterato – spesso ritmicamente – per produrre nuovi incroci e connessioni, incrinando e disfacendo un certo regime di conoscenza o rappresentazione, lasciando emergere quel “rimosso” e costruire differenti riaperture sul presente.
LC: Quando ho incontrato la serie di cartine geografiche nel volume Gli Annali dell’Africa Orientale, pubblicato da Mondadori nel ’39, ho deciso immediatamente di concentrarmi sulla loro “piegatura” editoriale; immediatamente mi sono chiesto se l’autore o il tipografo o il disegnatore avessero mai potuto sospettare che una sua soluzione grafica-editoriale potesse essere letta, quasi un secolo dopo, come “metafora” esplicita, dichiarata, quasi manifesta, da una parte, del pensiero o meglio della condizione morale ed esistenziale di quell’uomo che ha partecipato alla costruzione della società fascista, e dall’altra del processo di negazione della storia e della memoria da parte delle generazioni successive. Quando parli di quella superficie bidimensionale che può rivelare, ridare sostanza e fisicità a quei fantasmi, mi chiedo dove potessero essere finiti in tutto questo tempo, forse erano rimasti intrappolati proprio tra i segni, i caratteri, le coordinate, i confini, le icone della superficie tipografica, protagonista della prima e insostituibile forma di “rapina” e appropriazione mentale di un luogo o di un popolo – la cartografia anticipa sempre l’occupazione di un territorio o una guerra – forse le piegature, alterate dall’azione del tempo, o come suggerivi tu – dal guardare ciò che “non è più” e dall’osservazione après coup – si sganciano dalla loro dimensione e funzione tipografica e attivano, anzi liberano tutti quegli spettri che producono nuove relazioni di senso e nuove concatenazioni con il passato e con la storia. Mi viene in mente Vaccari che già nel 1979 ci esorta a non immettere continuamente nel circuito mediatico nuovi testi di senso, ma a tentare di decifrare il significato stesso delle immagini che già circolano, osservarle da un’altra prospettiva mettendosi a disposizione del mondo e «tenere così in sospeso la domanda, evitando che si plachi immediatamente nella tranquillità di una falsa evidenza» (Vaccari F., 1979). È proprio questa domanda “aperta”, questa possibilità di interrogare, di chiedere agli oggetti così come a un archivio, a un sistema museale come a una collezione, che ci permette – certo chiedendo aiuto a quella condizione di costitutiva ambiguità e irragionevolezza delle immagini, che ci consente infinite possibilità di ri-semantizzazione e combinazioni di senso – di non chiuderci in sistemi di pensiero dogmatici, di evitare i paradigmi, di moltiplicare gli strumenti di lettura, i sistemi di rappresentazione e le narrazioni del reale. Ogni sistema di conoscenza deve essere disponibile, deve necessariamente offrire se stesso a infinite possibilità di lettura e rilettura e in questo modo deve nutrirsi non solo del proprio tempo e del proprio spazio, ma continuamente riferirsi al passato e al presente – al prima e al dopo, al qui e all’altrove – del pensiero che lo ha creato. Non è forse vero che qualcosa di quell’uomo che ha costruito la sua casa ad Asmara o a Tripoli è arrivato a me ed è scritto in me, oggi? Non è forse vero che guardando me puoi vedere una parte di quell’individuo come nel viso di un uomo puoi leggere le tracce di tutta la sua storia familiare?
AC: Credo che la fotografia, e le immagini più in generale, siano caratterizzate soprattutto dalla loro disponibilità a essere interrogate sulla base di un sistema relazionale che le definisce e ridefinisce di continuo. Un sistema estremamente mobile nello spazio e nel tempo. Forse è in quel “luogo” che risiede la loro immensa potenzialità latente, la capacità di liberare ombre, fantasmi e rimossi. Purché un’immagine non sia pensata come un oggetto, definito una volta per tutte piuttosto come un processo in continuo divenire il cui senso – inteso come vettore, come direzione – è rimescolato a ogni nuovo sguardo. Da questo punto di vista la questione diventa allora apertamente politica, o meglio, lo sguardo di una differente società civile traduce – anche in questo caso nel senso di condurre, trasportare – un elemento formale, estetico, la piegatura editoriale delle cartine geografiche di quel libro, in fattore politico. D’altro canto, come sostiene Ariella Azoulay in Civil Imagination. Ontologia politica della fotografia i due domini, estetico e politico, non si escludono reciprocamente, ma vanno sempre tenuti insieme. Una risorsa che ci concede di poter ricostruire il nostro archivio, narrando una storia che sappia integrare e rendere complementari differenti dispositivi di sguardo e potere, tutti però compartecipi della realtà.
Bibliografia
Agamben G., Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014.
Azoulay A., Civil Imagination. Ontologia politica della fotografia, Postmedia Books, 2018.
Ian Buruma Il potere dei Monumenti in La Repubblica del 11 settembre 2017.
Didi-Huberman G., Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Abscondita 2013.
Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, Bur, Milano 1998.
Vaccari F., Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi 1979.
Alessandro Carrer, laureato in semiotica dell’arte all’Università di Torino, è stato per due anni cultore della materia e dal 2006 si occupa di arte contemporanea e fotografia lavorando come curatore. Ha realizzato numerose mostre in Italia e all’estero. Insegna Estetica e Linguaggio della fotografia e Visual Studies all’ISIA – Istituto per le Industrie Artistiche – di Urbino e Storia dell’arte contemporanea allo IED di Torino. Dal 2018 è Direttore Tecnico del Condominio-Museo di Viadellafucina16 a Torino.
Luca Capuano ha realizzato numerosi progetti di documentazione e di analisi interpretativa del paesaggio contemporaneo commissionati da enti pubblici, fondazioni private, musei e università (tra i quali: Unesco, Mibact, Royal Academy of Fine Arts a Stoccolma, Musei Senesi, Politecnico di Milano). Ha esposto i suoi lavori in diverse gallerie private, musei d’arte contemporanea, fondazioni e istituti di cultura all’estero (tra i quali: Van Abbe Museum, Institut für Architektur a Berlino, Nyuad ArtGallery di Abu Dhabi, Die Photographischen Sammlung/SK Stiftung Kultur a Colonia, Triennale di Milano, Biennale dell’Immagine di Lugano, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, Casa del Mantegna, Villa d’Este, IUAV, Istituto Italiano di Cultura a Santiago, Casa Zerilli-Marimo a New York). Tra i lavori esposti e/o pubblicati ricordiamo ‘Il paesaggio descritto’, ‘Refugee Heritage’, ‘Case Studio’, ‘Il Liocorno di Lescaux’, ‘Scritto a macchina’, ‘Arbiter’, ‘Sembrava che preparassero il deserto’, ‘Tavole di testo’, ‘00’ e ‘Rimosso d’Oltremare’ nel duo con Camilla Casadei Maldini. Insegna ‘Progettazione per la Fotografia’ all’ISIA di Urbino nel Triennio di Grafica e Comunicazione, nella Specialistica di Fotografia e allo IED di Roma.