§Anche le statue muoiono
Contro il farsi statua del tempo:
memorie del presente e ritmologie della Storia
di Antonio Ricciardi

All’interno del loro La Questione Mediterranea, Chambers e Cariello fanno notare come «le cronologie irrefutabili della storia lineare e del suo presunto progresso» vengano a essere spazzate via nel momento in cui volgiamo il nostro sguardo verso «interruzioni, discontinuità e ritorni rimossi» (Chambers & Cariello, 2019). In questo senso «le mappe possono, in realtà, essere piegate e il tempo sincronizzato con altri ritmi ed altre battute» (Chambers & Cariello, 2019). Dentro questo contesto la statua-come-monumento occupa chiaramente una posizione di privilegio: in che modo questa calcificazione del passato emerge e si consolida? In che misura essa preme sul presente? Che tipo di memoria costituisce?

La frattura Natura/Cultura sulla quale l’occidente ha eretto il suo edificio teorico e scientifico (Latour, 2010), assieme all’inaggirabile riduzionismo ad esso sotteso, ha finito per farci concepire il presente come la somma algebrica di processi storici lineari. Le parole di Chambers e Cariello ci fanno però segno in direzione opposta: le fratture, le interruzioni cui i due ci invitano a prestare attenzione, disfano l’uniformità e la linearità dei processi storici, facendo irrompere nuovi ritmi, nuove figure, nuove temporalità. Il presente diviene così il frutto, sempre parziale, di una storia molteplice, discontinua, non-lineare. Non solo. Le condizioni che hanno consentito l’emergere di determinati istituti o figure, di determinati presenti, sono, da un punto di vista ontologico, a noi perfettamente contemporanee. Esse, pur essendosi prodotte storicamente, sono incarnate all’interno dello spazio e dell’agire pubblico, e pertanto perennemente in atto: delle vere e proprie performances, il cui carattere temporale e ritmico sembra sfuggire allo sguardo critico. Diventa necessario, allora, sviluppare una comprensione dell’attuale articolata sub specie rhythmi: la Storia, nella sua pesantezza monumentale apparentemente inscalfibile, dovrà emergere come prisma, ritornello composto da una infinità di ritmi e durate. È qui, in questa processualità paradossale – dove ciò che passa continua a trattenersi e a gravare sul presente – che il tempo corre sempre il rischio di farsi statua, monumento.

1. Ricorsività
Nel primo paragrafo di Recursive Colonialism, Artificial Intelligence & Speculative Computation: A Manifesto, leggiamo: «When instructions are repeated to perform a function over and over again, as in a Return or Do-loop, you have recursion […] Recursivity is epistemology. It is the function that entangles cosmogonies within colonial epistemologies. It is the condition of reproduction of racialized algorithms» (The Critical Computation Bureau, 2020). Se nel discorso cosmotecnico del Critical Computation Bureau la questione della ricorsività assume una precisa dimensione epistemologica, nel contesto di questo scritto ad essa sarà assegnata piena consistenza ontologica. Le ‘istruzioni’ incapsulate all’interno dell’algoritmo diventano, in questa ottica, i campi di emergenza della realtà tutta: la rete di rapporti di potere, di condizioni, che permette (o non permette) l’attualizzarsi di un certo presente. Il monumento, si diceva in apertura, è una calcificazione: ma di che cosa? Cos’è che, facendosi statua, si impone all’interno dello spazio comune? Cosa custodisce? La nostra ipotesi consiste nel pensare la statua-come-monumento come un vero e proprio dispositivo (Deleuze 2010, Agamben 2006) del potere, operante su due livelli distinti. Sul primo, nella sua specificità di opera installata in un certo ambiente, la statua si fa garante della ricorsività e della ripetizione della maglia di rapporti che l’hanno resa possibile: essa calcifica il suo campo di emergenza. Sul secondo, più astratto, essa acquisisce i tratti di quella che chiamiamo una statua-del-tempo: una solidificazione dei rapporti di forza e di potere che non passa più per un farsi monumento, ma funziona ad ogni livello di produzione e riproduzione sociale e politica (Istituzione, Legge, Cultura, etc.). Per provare ad analizzare e decostruire questi processi è necessario adottare quello che Deleuze chiama il metodo della drammatizzazione. Restituire il dramma significa risalire alle condizioni di emergenza dei fenomeni, coglierne l’evento: «non ci si chiederà ‘che cos’è il potere e da dove deriva?’, ma: in quale modo si esercita?» (Deleuze, 2002, 98). In questo senso, tanto nell’analisi quanto nella lotta, non occorre più porsi una domanda circa l’essenza (“che cos’è?”), ma andare alla ricerca dei punti di applicazione (“a che serve?”, “a chi serve?”, “dove?”, “quando?”) mediante i quali un certo dispositivo agisce. Punti di applicazione e condizioni di emergenza sono, infatti, le due facce di quel medesimo processo ricorsivo che produce la statua tanto come monumento quanto come dispositivo. Questi, come qualsiasi altro oggetto storico, non hanno una natura lineare, uniforme, omogenea: costituiscono, piuttosto, degli eventi ritmici, ricorsivi, temporali. La loro ‘emergenza’ non è custodita da una Archè oramai troppo lontana per essere presa in carico: essa è, invece, sempre qui con noi, sempre in atto, sempre pronta ad imporre il suo ritmo. Ciò di cui avremo bisogno, allora, sarà una vera e propria ritmologia, un dispositivo analitico che riesca a farci vedere come tanto la statua, quanto le relazioni di potere che essa preserva, abbiano una natura fondamentalmente temporale. Ogni evento è vibrazione, memoria, durata: la condizione affinché qualcosa esista è che questo ritmo continui a battere. Tanto un’istituzione, quanto una statua, sono eventi ritmici e temporali, e come tali necessitano di essere indagati e decostruiti. Di che sostanza siano composti i campi di emergenza, come trovino sbocco nell’attuale e in che senso questo processo sia da intendersi ritmicamente, è oggetto delle riflessioni che seguono.

2. Microfisica del Potere
Il dispositivo analitico che invece di chiedersi “che cos’è?” si chiede “come funziona?”, abbandonando ogni concetto di essenza, dà corpo a quella che Foucault definisce la dimensione microfisica del potere (Foucault, 1977). La colata di vernice rosa sul busto di Montanelli o l’abbattimento della statua di Colston, funzionano esattamente in questi termini. Questi gesti non interrogano le statue nel loro valore universale di opere, ma piuttosto nella loro agentività all’interno dello spazio comune. Il monumento è lì per calcificare e consolidare una determinata maglia di rapporti, un complesso di discorsi e pratiche. Lo studio dei punti di applicazione di queste relazioni ci restituisce la dimensione materiale del potere (e della resistenza che gli si contrappone), lasciando emergere quelle singolarità sulle quali un istituto di repressione può gettare le sue fondamenta.
«I rapporti di potere sono rapporti differenziali che determinano delle singolarità (affezioni). L’attualizzazione che li stabilizza e li stratifica è un’integrazione: questa operazione consiste nel tracciare una ‘linea di forza generale’, nel ricollegare le singolarità, allinearle, renderle omogenee, metterle in serie, farle convergere» (Deleuze, 2002, 103)
È importante cogliere il nucleo virtuale del concetto di singolarità: essa, pur incarnandosi in un particolare stato di cose, non ne viene in nessun modo esaurita. Il Potere «non passa attraverso le forme; ma [si costituisce in] punti, punti singolari che indicano, ogni volta, l’applicazione di una forza, l’azione o la reazione di una forza rispetto ad altre, cioè un’affezione come stato di potere sempre locale e instabile» (p. 101).

Statua di Edward Colston eretta nel 1895 a Bristol, 2019, foto di Simon Cobb, CC License.
Piedistallo vuoto della statua di Edward Colston, rovesciata e gettata nel porto di Bristol il 7 giugno 2020, durante le proteste del movimento Black Lives Matter, 2020, foto di Caitlin Hobbs, CC License.

3. La macchina da scrivere di Foucault
L’analisi archeologica degli enunciati, così come concepita da Foucault, esemplifica in maniera paradigmatica la dinamica attraverso cui si passa da una rete di singolarità virtuali (Potere) al tracciarsi di una serie di linee di forza attuali (Sapere).
«La tastiera di una macchina da scrivere non è un enunciato; ma proprio questa serie di lettere Q, Z, E, R, T, enumerata in un manuale di dattilografia, costituisce l’enunciato dell’ordine alfabetico adottato dalle macchine italiane […] Non si richiede una costruzione linguistica regolare per formare un enunciato […] Si tratta di una funzione che si esercita verticalmente […] L’enunciato non è una struttura; è una funzione di esistenza» (Foucault, 2009, 114-115)
La serie di lettere è un enunciato proprio perché traduce, sotto forma di sapere, un rapporto di forze, una distribuzione di singolarità che sono quelle stesse lettere. Le lettere sulla tastiera sono disposte in un certo modo a seconda delle relazioni che queste intrattengono nel contesto della lingua: nella lingua inglese, ad esempio, c’è un certo tasso di ricorrenza della lettera “w” e della lettera “h”, ragion per cui queste due lettere saranno distanziate sulla tastiera così da poter essere schiacciate in sequenza dalla mano sinistra e dalla mano destra (l’alternativa sarebbe costringere colui che batte a macchina a dover premere consecutivamente due tasti diversi con la stessa mano). Ci sono perciò due rapporti, che sono l’uno quello che intercorre tra le lettere (frequenza di accoppiamenti e ricorrenza dentro una determinata lingua), l’altro quello che riguarda mano destra e mano sinistra, il loro ritmo, la loro capacità di muoversi lungo una tastiera. Se ne ricava perciò uno spazio (la tastiera) striato da linee di forza, strutturato geograficamente, con una destra, una sinistra ed un centro che resta parzialmente non assegnato. Tutti questi rapporti, che concorrono a strutturare la tastiera per quella che è, sono la rete astratta che in qualche modo preesiste alla tastiera stessa, l’insieme di differenze e disparità che lascia scaturire la “tastiera” come soluzione al suo problema. Questa rete, questa maglia di rapporti e differenze, è precisamente il campo di forze che l’enunciato Q, Z, E, R, T attualizza: l’enunciato “è una funzione che si esercita verticalmente” proprio perché passa dalle singolarità alla linea che si disegna a partire da queste.
«I rapporti di potere non emanano da un punto centrale o da un unico fuoco di sovranità, ma vanno in ogni istante “da un punto a un altro” all’interno di un campo di forze» (Deleuze, 2002, 101)
Se però una qualsiasi entità molare (Istituzione, Monumento, Legge) deve, per attualizzarsi, disegnarsi costantemente attraverso questa maglia di singolarità, ne deriva un inaggirabile rapporto col tempo. Questo campo di forze, scarti e relazioni presuppone un’altra istanza, che è quella della ripetizione, necessaria al suo prendere consistenza. La macchina da scrivere, per dare corpo al suo diagramma, ha bisogno della mano che batta i colpi.

4. Anarchy of vibrations
La Storia come edificio teorico volto alla preservazione del presente (molto più che del passato), ha la sua realtà all’interno della ripetizione che costantemente mette in atto. Non facciamo tanto riferimento al ripresentarsi di un certo tipo di situazioni all’interno di momenti storici diversi (ad esempio: il ritorno del fascismo), quanto alla pura e semplice ripetizione di tutta una serie di enunciati che, nel ricorrere, danno forma ai rapporti di forze che intendono preservare. È qui che la questione delle statue assume un rilievo particolare: questi monumenti che, nelle strade e nelle piazze dell’occidente colonialista, inneggiano ad un passato di tragica violenza e sopraffazione, nella loro matericità inscalfibile, ripetono e fanno consistere una maglia di relazioni e poteri che, evidentemente, è ancora viva e vegeta.
Tocchiamo allora un punto nevralgico del nostro discorso: la materialità della statua è indistinguibile da quella degli enunciati. Questo non solo perché la statua, il monumento, ha la forza di suscitare o di rafforzare un certo ordine del discorso. Non si tratta solo di una questione di traducibilità, di una riduzione del monumento al suo significato, alla forma della sua simbolizzazione. Si tratta, piuttosto, di considerare la materia stessa come un ritmo perennemente in atto, un inarrestabile concerto che, piuttosto che abitare un certo spazio ed un certo tempo, produce spaziotempo. La macchina che abbiamo visto all’opera nella produzione dell’enunciato QZERT dobbiamo immaginarla operante su tutto il piano dell’esistente. I nostri corpi, il suolo sul quale poggiano, le case che abitano, per non dire dei microorganismi che ospitano e delle istituzioni alle quali soggiacciono, sono tutti eventi ritmici che agiscono e mondeggiano senza sosta. Scrive Bachelard: «Matter is not spread out in space and indifferent to time; it does not remain totally constant and totally inert in a uniform duration […] It is not just sensitive to rhythms but it exists, in the fullest sense of the term, on the level of rhythm […] Our houses are built with an anarchy of vibrations» (Bachelard, 2000, 137)
Se, come leggiamo nel Whitehead di Processo e Realtà, ad esistere è sempre e solo l’occasione attuale, vale a dire l’evento del presente in atto, abbiamo bisogno di un paradigma che renda conto di come l’attuale possa evolvere, mutare, inventare, reprimere, colonizzare, uccidere, rivoltarsi, decolonizzarsi, farsi statua ma anche maceria. È necessario, insomma, rendere conto di come l’attuale si occasioni, di come si produca e di come passi. Senza tentare di ripercorrere le molteplici tappe della cosmologia Whiteheadiana, possiamo provare a tirarne fuori alcune conseguenze. In particolare, è sulla questione del ritmo che occorre concentrarsi. Whitehead scrive:«Consider a molecule of iron. […] No single characteristic property of iron as such can be manifested at an instant. Instantaneously there is simply a distribution of electricity and Maxwell’s equations to express our expectations. But iron is not an expectation or even a recollection. It is a fact; and this fact, which is iron, is what happens during a period of time. Iron and a biological organism are on a level in requiring time for functioning. There is no such thing as iron at an instant; to be iron is a character of an event» (Whitehead, 1919, 22-23).
La materia dura: se interroghiamo una molecola di acciaio al di sotto dell’intervallo minimo che costituisce la sua vibrazione, non troviamo nient’altro che un campo elettrico. È così che, probabilmente, un elettrone percepisce una barra di acciaio. Ma per noi, per il complesso di ritmi che siamo, la barra di acciaio ha una sua durezza, un suo spessore, una sua forma. La molecola di acciaio, così come la statua di Montanelli, è composta da una infinita maglia di pulsazioni, da un reticolo di singolarità (proprio come la macchina da scrivere di Foucault) che è costantemente in atto, almeno fintantoché essa è percepita come acciaio, come statua. La materia è la soluzione del suo problema. In questo contesto il vero agente dell’individuazione, l’operatore ultimo del reale, è il ritmo.

5. Ritmologia
Secondo quanto scrivono Deleuze e Guattari in Millepiani, «vi è ritmo non appena vi è passaggio transcodificato da un ambiente all’altro, comunicazione di ambienti, coordinazione di spazi tempo eterogenei» (Deleuze & Guattari, 2003, 442). Nel quadro della loro ontologia musicale, gli ambienti sono le zone di regolarità che spontaneamente si costituiscono all’interno del Caos. Queste estasi del caos sono però costantemente minacciate di disgregazione: la risposta a questa minaccia è costituita dal ritmo, e dalla sua potenza di trasduzione. «La transcodificazione o trasduzione è la maniera in cui un codice serve da base a un altro, o al contrario si stabilisce su un altro, si dissolve o si costituisce nell’altro» (p. 442). Una disparità originaria abita il cuore della figura ritmica: la trasduzione che tiene assieme ambienti differenti è costituita dagli intrecci, dalle alleanze che si stabiliscono nel passaggio da un ambiente all’altro, in questo spazio di pura esteriorità che è il Caos. Il ritmo è la forma della cattura di questo fuori, la sua domesticazione, la sua piegatura. Come nel celebre esempio della vespa e l’orchidea, un assemblaggio di eterogenei si produce per resistere alla disgregazione. Il divenire cui questo assemblaggio dà luogo si chiama ritornello. Esso connette e tiene assieme, lega e fa durare tutta una serie di pulsazioni, di vibrazioni, di durate, dentro un incessante processo di transcodifica e trasduzione.
«Glass harmonica: il ritornello è un prisma, un cristallo di spazio-tempo. Esso agisce su ciò che lo circonda, suono o luce, per trarne vibrazioni di vario tipo, decomposizioni proiezioni e trasformazioni. Il ritornello ha inoltre una funzione catalitica: non soltanto aumenta la velocità degli scambi e delle reazioni in ciò che lo circonda, ma assicura interazioni indirette fra elementi privi dell’affinità detta naturale […] Il ritornello fabbrica tempo» (p. 507).
Il ritornello fabbrica tempo perché esso cristallizza un insieme di pulsazioni: il ritmo che le tiene assieme costituisce quell’elemento che gli dona consistenza, attualità, forza. Pensare la realtà sub specie rythmi significa, allora «Abbandonare i blocchi astratti del tempo lineare della storia convenzionale e il suo spazio geometrico, significa distillare il tempo e lo spazio nella socialità di un processo percepito in intervalli, interruzioni e costellazioni ritmiche che configurano il presente. La forza di ritmi diversi spinge a pensare al movimento materiale di corpi e culture in temporalità e spazialità che eccedono il pensiero» (Chambers & Cariello, 2019, pos. 1531).
Siamo fatti di ritornelli, di infinite pulsazioni tenute assieme da ritmi che durano fino a che non si disgregano sotto la potenza del Caos, di un fuori più esterno di qualsiasi relazione di potere. In questo senso siamo letteralmente immersi in una memoria pulsante che produce spazio e tempo. Il ritmo è la maniera nella quale questa si rinnova, si riproduce, si fa pesante. L’ontologia di Deleuze, la processualità cosmologica di Whitehead, sono funzioni di una ritmologia che pulsa, che dura, che ritorna. Questo flusso di durate e ritmi nidificati gli uni negli altri che è il mondo, è il piano sul quale occorre collocarsi per inquadrare la questione dello spazio pubblico, della sua costituzione, del suo prender forma. Il ritmo è l’operatore che lega assieme le distribuzioni di singolarità del piano virtuale, le linee di forza che le congiungono attualmente, e la forza di ripetizione che queste necessitano per continuare a tracciarsi.

6. Contro il farsi statua del tempo
In questa memoria pulsante dentro alla quale si individuano i nostri corpi, i nostri affetti, le nostre città, i nostri desideri e le repressioni cui vanno soggetti, in questa vibrant matter, come la chiama Jane Bennet, da cui lo spazio e il tempo promanano ritmologicamente, tutto è ripetizione, tutto è ritmo, tutto è ritornello. Ciò che non torna, muore. Di converso, ciò che non muore, ciò che resiste, ciò che c’è, continua, incessantemente, a tornare. Dentro un edificio, dentro una statua, non ci sono incastonati solo i ritmi della loro materialità, ma anche i segni, le abitudini, gli scopi che di quello specifico monumento, di quella specifica costituzione, sono state le condizioni di emergenza. Se ripercorriamo le tappe del discorso intrapreso, vediamo come la griglia di virtualità sulla quale si costituisce l’attuale è in qualche misura conservata nella produzione del monumento, cosicché possa continuare ad agire. La maglia di relazioni che dà luogo all’attuale, è sempre qui, contemporanea a noi. Lo è proprio in funzione della sua potenza di ripetizione: tutto ciò che esiste, esiste nel tempo, deve durare.  Se è già l’opera d’arte a costruire ed incarnare questo blocco di percetti e affetti (Deleuze & Guattari, 2002), l’opera-come-monumento si spinge oltre. Essa, «prendendo corpo nello spazio pubblico, con i modi e le epifanie che caratterizzano il posizionamento del monumento, è già una interpretazione della memoria stessa: essa ha il carattere dell’unilateralità, dell’informazione imposta, dell’uniformazione del molteplice in una fisionomia sociale e politica ben riconoscibile» (Gaglianò, 2015, p.27). L’opera-come-monumento è immediatamente parte di un ambiente col quale genera un concatenamento, un assemblaggio sul quale essa propaga i suoi ritmi, le sue temporalità, il suo diagramma. In questo senso siamo sempre assoggettati alle condizioni di emergenza che hanno presieduto l’installarsi di un certo monumento, poiché esse continuano a risuonare nell’ambiente che le ospita e nei corpi che ne sono attraversati. Il monumento cristallizza il tempo, ha l’aspirazione di renderlo eterno, ma lo fa riproducendo i suoi ritmi dentro al reale. Cosa accade quando i ritmi, le contrazioni, le vibrazioni che si fanno statua, sono quelle del colonialismo, del razzismo, della repressione sistematica dell’altro? Come facciamo a smontare queste ritmologie?

7. L’Intollerabile
Nel momento in cui adottiamo una prospettiva ritmologica, abbandoniamo i territori delle ontologie ritagliate sulla dicotomia soggetto/oggetto, inaugurando una filosofia processuale e relazionale che pensa ai soggetti, agli istituti, alle identità, come a qualcosa di ricorsivo, a qualcosa che si produce nel tempo, che si infetta, che risuona. Ma che ne è dei processi di soggettivazione quando questi prendono corpo, prendono ritmo, dentro un quadro in cui la molteplicità del reale è uniformata al ritmo del monumento coloniale, razzista, repressivo? Sospendere questi ritornelli della storia, ricoprirli di vernice, abbatterli, significa non solo inventare dei nuovi ritmi, delle nuove temporalità, ma anche tornare a guardare in faccia la consistenza ritmica dell’esistente. Mandare in frantumi una statua non cancellerà la Storia, né tantomeno quel frammento che quella statua calcifica, perché non vi è Storia fuori dai ritmi e le vibrazioni che fanno il mondo. Piuttosto, ci addestrerà a guardare ritmologicamente: il farsi statua del tempo contro il quale vale la pena lottare e pensare, infatti, non si esaurisce nell’abbattimento della statua-come-monumento. Questa è un ritornello della storia, con i suoi ritmi, la sua capacità di propagazione, i suoi assemblaggi; ma questo blocco di durate diviene statua-del-tempo nel momento in cui non siamo più capaci di coglierne la natura ritmica, nel momento in cui non riusciamo più a vederne il ritornello. C’è perciò una statua-del-tempo ‘virtuale’ che la statua ‘attuale’ incarna ma non esaurisce: è nostro compito imparare a riconoscerle ed abbatterle una per una. È in questo senso che le azioni volte a mettere in discussione l’inviolabilità del monumento sono determinanti: la loro centralità sta nel porre le condizioni per tornare a guardare alla Storia e alla realtà sub specie rythmi. Quello che Lapoujade chiama l’intollerabile, l’insostenibile violenza del mondo che di colpo sorge davanti ai nostri occhi e ci forza ad agire (politicamente, criticamente, etc.), può nascere solo nel momento in cui siamo diventati capaci di scorgerlo. «Non si agisce per volontà politica, ma anzitutto perché non si può fare altrimenti. La volontà politica è sempre seconda, sempre preceduta da una profonda esperienza dell’intollerabile» (Lapoujade, 2020). La violenza della Storia di cui noi stessi siamo fatti, può farsi visibile solo nel momento in cui riusciamo a vedere come i suoi prodotti, i suoi ritornelli, siano fatti di vibrazioni e ripetizioni di quella stessa violenza. Spalancare questa prospettiva è l’unica strada attraverso la quale diviene possibile rendersi capaci di agire.

Bibliografia
Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2010
Bachelard G., The Dialectic of Duration, Clinamen Press, Manchester 2000
Bennet J., Vibrant Matter, Duke University Press, London 2010
Chambers I. & Cariello M., La Questione Mediterranea (Kindle Edition), Mondadori, Milano 2019
Deleuze G., Foucault, Cronopio, Napoli 2002
Id., Il Metodo della Drammatizzazione, in L’Isola Deserta e altri Scritti, Testi e Interviste 1953-1974, Einaudi, Torino 2007
Id., Che cos’è un dispositivo?, in Due Regimi di Folli e Altri Scritti, Testi e Interviste 1975-1995, Einaudi, Torino 2010
Deleuze G. & Guattari F., Millepiani, Capitalismo e Schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2003
Id., Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002
Gaglianò P., Memento – L’ossessione del visibile, Postmedia Books, Milano 2016
Foucault M., Microfisica del Potere, Einaudi, Torino 1977
Id., L’Archeologia del Sapere – Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 2009
Lapoujade D., Deleuze, i movimenti aberranti, Mimesis, Milano 2020
Latour B., Non Siamo Mai Stati Moderni, Elèuthera, Milano 2018
Whitehead A. N., An Enquiry Concerning the Principles of Natural Knowledge, University Press, Cambridge 1919
Id., Processo e Realtà, Bompiani, Milano 2019
The Critical Computation Bureau, Recursive Colonialism, Artificial Intelligence & Speculative Computation: A Manifesto, 2020

Antonio Ricciardi è un ricercatore indipendente laureato in Linguaggi Multimediali e Informatica Umanistica presso L’Orientale di Napoli. L’oggetto della sua ricerca è focalizzato sui temi del ritmo e della temporalità sviluppati nel quadro della filosofia novecentesca, con particolare riferimento al pensiero di G. Deleuze e A. N. Whitehead. Suoi scritti sono apparsi su Kaiak. A Philosophical Journey, Menelique, NOT.