Divergere significa prendere una rotta differente rispetto a un percorso prestabilito, non seguire un tracciato ma andare fuori binario, deragliare. Essere divergenti implica una decostruzione degli stereotipi e l’uscita dalla normatività: è quindi un’operazione che prevede sia una sottrazione dal canone che una moltiplicazione delle diversità. Prendersi cura della divergenza è, allora, un atto di sabotaggio e resistenza, poiché visibilizza condizioni marginali ribadendone il diritto di esistenza, sviluppando uno spazio sicuro e un tempo dilatato per la loro fioritura. Per “cura” si intende qui, evidentemente, non un’azione sanatoria della differenza, di rimessa-in-riga del fuori-le-righe, ma lasciare spazio di espressione a contesti e soggetti considerati divergenti, per contribuire alla valorizzazione delle fratture che essi creano rispetto alle narrazioni dominanti.
Negli ultimi trent’anni, parallelamente a fenomeni storici quali la globalizzazione, l’intensificazione dei flussi migratori o l’avanzare di un capitalismo sempre più performativo, il dibattito culturale-filosofico così come l’arte contemporanea si sono occupati diffusamente di temi quali l’identità, l’alterità e la diversità – basti pensare agli studi di genere, postcoloniali e postumani. Soprattutto dagli anni Duemila, crescente è il focus sulla collettività e sul “fare comunità”, ovvero sul sondare inediti valori della relazionalità e problematizzare il rapporto con l’altro. In campo artistico, si assiste all’incremento di progetti in cui gli artisti aprono la propria ricerca al lavoro di gruppo, mettendo in atto processi dialogici e co-autoriali che sono stati classificati sotto le denominazioni critiche di arte pubblica (Lacy 1995), arte relazionale (Bourriaud 1998) o arte partecipativa (Bishop 2012).
In tale tipologia di interventi, l’artista si pone come attivatore di comunità temporanee e networks, agendo entro territori specifici, con una minore o maggiore attenzione verso risvolti politici e sociali. La vocazione sociale dell’arte partecipativa è infatti una questione teorica calda (Bishop 2006): il punto di vista qui adottato non intende schiacciare il dibattito su un valore prettamente funzionale dell’arte nel “riqualificare” delle condizioni e degli ambienti o per “includere” soggetti marginali. Piuttosto, è interessante comprendere come situazioni ed esistenze considerate anomale possano costituire per gli artisti degli stimoli per rimettere in discussione un immaginario sociale consolidato.
Di seguito si propone dunque di indagare in che modo l’arte possa prendersi cura di far emergere e sviluppare delle comunità cosiddette divergenti, attraverso tre casi di studio: gli artisti Sara Basta e Jacopo Natoli e l’atelier ultrablu.
Rallentare il tempo e ricucire legami: Sara Basta
Sessioni di ricamo, tessitura, laboratori, performance, azioni: queste le cornici conviviali entro cui Sara Basta attiva delle comunità che mirano a rallentare il tempo, fuori dalle logiche della competizione e del consumo [1]. Nel corso dei progetti che l’artista realizza, il “fare insieme” costituisce infatti l’elemento chiave per generare momenti di cooperatività e pratiche di vicinanza. Cucire collettivamente diviene un’operazione quasi meditativa per la sua ripetitività gestuale, che situa i corpi in un medesimo spazio e crea delle occasioni spontanee di dialogo, tramandando inoltre una tecnica manuale – tradizionalmente relegata alla sfera femminile – a un’utenza indistinta sia per età che per genere. Il ricamo è utilizzato come legante emotivo, in quanto le forme e le parole che vengono cucite su tessuto durante i laboratori sono frutto di una narrazione condivisa che è elaborata in un primo momento di confronto discorsivo partecipato. La fase iniziale di ogni processo laboratoriale condotto dall’artista è dedicata infatti allo scambio di riflessioni e ricordi personali tra i membri del gruppo intorno a un argomento, che è suggerito dal contesto socio-ambientale specifico entro cui Basta interviene e, in generale, dalle tematiche a lei care – come il concetto di cura, la maternità, l’infanzia, i legami affettivi, la memoria, il desiderio. Per rompere la barriera inibitoria tra i soggetti, l’artista si racconta e si mette a nudo per prima e in prima persona, tracciando un perimetro di interazione sicuro che genera empatia e favorisce lo scambio emotivo tra i partecipanti.
In Lingua Mamma (2013), ad esempio, Basta parte da una situazione da lei vissuta e da quella della co-autrice Mariana Ferratto. Durante il periodo di residenza in Finlandia di poco successivo alla gravidanza, la prima impara una lingua straniera grazie a suo figlio, che la apprende spontaneamente frequentando gli asili locali; mentre Ferratto, argentina, insegna l’italiano ai propri genitori. Le artiste sviluppano il progetto all’interno della Scuola Primaria Carlo Pisacane di Roma, rielaborando le due situazioni biografiche che hanno in comune la trasmissione di un linguaggio nell’ambito della comunicazione familiare. In un gioco di parole tra lingua madre e lingua “mamma” – a cui fa riferimento il titolo – conducono una serie di laboratori nelle classi caratterizzate da un forte multiculturalismo, incoraggiando i bambini a riportare in una dimensione pubblica le lingue che sentono correntemente parlare in casa, diverse dall’italiano che invece è insegnato in aula come codice comune. Negli incontri sono realizzate delle attività ludiche volte alla creazione di vocabolari multilingue e le madri degli allievi sono coinvolte nella condivisione e nel canto di ninna nanne tipiche delle culture di riferimento, stimolando degli ambienti di apprendimento circolari.
Sempre nell’ambito della scuola e della relazione famiglia-comunità, nell’ultimo progetto Acquadolce (2023, a cura di Cantieri d’Arte), Basta dà avvio a una serie di appuntamenti di ricamo insieme a genitori, educatrici e lavoratori dell’unico asilo comunale di Viterbo, colpito da un’improvvisa chiusura. Ragionando attraverso la metafora dell’acqua – prima suggestione visiva emersa dagli incontri – l’artista lascia scegliere a ciascuno un’immagine del mondo naturale per simbolizzare il legame affettivo con i bambini. Dal discorso emergono delle parole-chiave sul tema della cura, che Basta lascia cucire dapprima su fazzoletti individuali e poi su un’unica stoffa comune, che i partecipanti continuano a realizzare anche in sessioni private e in assenza dell’artista. Il manifesto ricamato è allestito dentro l’edificio ora riaperto, come emblema di una frattura rimarginata.
L’attenzione metadiscorsiva alla relazione e alla cura affonda le radici nelle letture di stampo femminista di Basta – come Astrida Neimanis e Virginia Woolf – che le offrono punti di vista da applicare all’interno della sua metodologia operativa. Durante la mostra Il giardino libernautico (Bellantoni 2022), ad esempio, l’artista invita i presenti a intrecciare dei fili di corda per la tessitura de La sporta (2022), una grande borsa ispirata al racconto di Ursula Le Guin The Carrier Bag. The Theory of Fiction, in cui la scrittrice rimodula la narrazione dell’evoluzione umana affermando che il primo oggetto utilizzato nella storia sarebbe la sacca delle raccoglitrici e non l’arma dei cacciatori. L’opera realizzata si accosta stilisticamente e concettualmente anche al gioco della matassa evocato da Donna Haraway (2016) come espediente per intrecciare nuove e consapevoli connessioni con l’alterità.
L’ambito della pedagogia radicale è un altro degli orizzonti teorici a cui Basta guarda, attingendo alle riflessioni di bell hooks così come agli immaginari di Gianni Rodari. Quest’ultimo è citato nei manifesti ricamati di Moto perpetuo combinatorio (2020), un progetto partecipativo con donne attiviste del quartiere Trullo di Roma nell’ambito di Magic Carpets (Carpi De Resmini 2021). Le partecipanti selezionano delle frasi tratte da Grammatica della fantasia e le ricamano su banner di stoffa che sono affissi per le vie del quartiere in occasione della giornata conclusiva dei mesi di lavoro, durante la quale è realizzata anche una performance ispirata a canti popolari e delle lotte sociali. Tra sessioni di ricamo, incontri conviviali e azioni urbane – oltretutto svolte in un anno di emergenza sanitaria che stigmatizzava il contatto dei corpi – l’artista si cimenta nella costruzione di un organismo vivo di discussione e collaborazione, inserendosi nel filone di ricerca delle community-based practices.
In tal senso, si potrebbe affermare che l’operatività di Basta sia volta a costruire delle comunità divergenti dove riscoprire un tempo dell’ascolto, della collaborazione e della fiducia in opposizione alla propensione all’individualismo verso cui può tendere la relazionalità contemporanea. In merito, tornano alla mente le riflessioni di Byung-Chul Han (2019) sull’importanza di rivivificare le funzioni del rito nella società attuale, incentivando momenti di condivisione intersoggettiva che si ripetono e creano un legame simbolico tra le persone. La pratica del ricamo inserita nel contesto laboratoriale così come è strutturato da Basta acquisisce, in effetti, delle caratteristiche simili alla fenomenologia del rito, soprattutto nella sua capacità di generare una «risonanza» (Ivi: 22), ovvero una dinamica di reciprocità entro cui l’opera viene materialmente realizzata. Il “risuonare” prevede infatti un’emittente e una soglia di infrazione delle frequenze, un rimbalzo di energia che torna indietro trasformato.
Curare il dissenso e valorizzare l’errore: Jacopo Natoli
Come già riscontrato, l’attivazione di comunità divergenti può trovare un canale fertile nelle istituzioni preposte all’istruzione. Se un artista ricopre anche il ruolo di insegnante, la ricerca estetica e la funzione didattica possono spesso procedere di pari passo e trovare dei punti di contatto, innescando sperimentazioni al confine tra arte e pedagogia radicale (Sossai 2017). In questi casi, il corpo-classe e il sistema-scuola sono concepiti dall’artista come oggetto di studio e banco di prova per realizzare interventi che rientrano all’interno della sua produzione artistica. Le accademie d’arte possono essere degli osservatori privilegiati per studiare il fenomeno, così come è da considerare l’insieme di iniziative avviate al di fuori, in ottica critica rispetto agli enti formativi tradizionali (Bishop 2012). Un’ulteriore via per leggere il fenomeno potrebbe essere invece analizzare in che modo gli artisti-docenti si muovono entro le istituzioni scolastiche di stampo non prettamente artistico, indirizzandosi a studenti di età variabile e dalla conformazione eterogenea.
Si decide di approfondire alcuni progetti che Jacopo Natoli svolge nelle classi secondarie di primo grado di Roma come professore di arte e immagine, da lui stesso considerate un nucleo significativo della propria attività artistica [2]. Natoli approda all’insegnamento pubblico nel 2019, quando è ormai attivo sulla scena romana da quasi un decennio e ha già strutturato un personale linguaggio artistico, influenzato da una parte dall’intreccio tra psicologia, arte e scienza e, dall’altra, dalla confluenza tra performance e arte terapia. La classe, nella sua componente sociale e continuità relazionale, diviene per Natoli un campo dove testare quotidianamente pratiche laboratoriali e transdisciplinari che si nutrono anche delle fonti teoriche che egli assorbe parallelamente – da Carmelo Bene al post-strutturalismo, da Donna Haraway a Jacques Rancière. È interessante interpretare il metodo didattico di Natoli anche nella cornice della sua più ampia riflessione sul ruolo dell’artista rispetto alla realtà e all’alterità, dove è centrale il concetto di cura. Secondo Natoli, l’artista è un vettore, un catalizzatore; non si occupa di trasmettere nozioni o significati, ma di moltiplicare aperture di senso, di creare delle condizioni ambientali favorevoli all’emergere dell’imprevisto, della scoperta, del gioco, del sabotaggio. Non a caso il riferimento cardine per la sua didattica è la teoria del maestro ignorante (Rancière 1987), ovvero: non spiegare, non normativizzare ma partire da specifiche inclinazioni, intelligenze e interessi dei discenti, valorizzando il fare insieme e il confronto paritetico, dove il docente non insegna ma apprende con e grazie agli altri.
Il primo supporto mediale che Natoli adotta in aula è la fanzine, un libretto cartaceo autoprodotto. Dal 2019 ne ha prodotte circa 80, affiancato dagli studenti dalla realizzazione fino all’assemblaggio. In quelle monoautoriali, si dedica a singoli casi – spesso etichettati come i “peggiori della classe” – trasformando comportamenti ritenuti sbagliati e situazioni di difficoltà in potenzialità creative. Ad esempio, uno studente costantemente ripreso dai professori perché distratto nel disegnare durante le lezioni diviene l’autore di Pattern on Scottex (2020). Sotto il suggerimento dell’artista-docente, l’allievo valorizza questa “distrazione” e realizza una serie di motivi geometrici in bianco e nero diluendo dell’inchiostro su pezzi di scottex, che sono poi scannerizzati, assemblati su un menabò, fotocopiati su carta e rilegati in edizioni a tiratura limitata. In m, M. Matteo Masaccio disegno con sinistra (2020) Natoli lavora invece con uno studente con il braccio rotto. Anche in questo caso, una situazione di impedimento si trasforma in potenzialità, poiché l’allievo è invitato a copiare con la mano sinistra alcuni celebri dipinti di Masaccio. Nella pubblicazione cartacea, le riproduzioni sono accostate ai corrispondenti disegni a pennarello, in un confronto visivo tra le forme levigate delle opere pittoriche e le altre dal tratto discontinuo e incerto.
In verità, la maggior parte delle fanzine che Natoli realizza sono multiautoriali, poiché egli lascia circolare per la classe dei prototipi vuoti dove vi sono indicati dei limiti formali – come riempire i quadrati-frame dei fumetti, utilizzare il collage, inventare dei componimenti di poesia visiva. Nel numero due di The Median (2019), il paradigma è impostato sul far girare il più volte possibile tra tutta la scuola, durante l’anno, l’originale di un libretto bianco, così da far saturare nel tempo le pagine con i segni collettivi dei discenti, dei professori e dei collaboratori. Il dialogo indiretto su carta invita a sviluppare un’attitudine collaborativa o provocatoria, dato che vi è una continua rinegoziazione del proprio contributo rispetto a quello degli altri. I quaderni sono un dispositivo che l’artista utilizza come supporto per il disegno a più mani anche in contesti laboratoriali e conviviali esterni alla classe, da cui poi egli estrae delle immagini che ri-media per la produzione di opere a sé stanti, come lightbox (Desideri 2020) o i dipinti di Pornoantiporn (2023).
Parallelamente, Natoli agisce in maniera metadiscorsiva sul sistema-scuola attraverso la reinterpretazione di alcune norme come voti, interrogazioni, esercizi. La ricerca di quest’anno è indirizzata alla riscrittura della forma del compito in classe, principalmente attraverso due modelli. Il primo, Sbaglia meglio (2023, ideato con Danilo Innocenti e Giacomo Isidori), consiste nello scegliere un binomio di sottrazione (ad esempio: tutto meno niente; re meno potere; gioco meno regole; scarabocchio meno linea), nel disegnare entrambi gli elementi e poi il risultato dell’operazione, a libera interpretazione. L’aspetto paradossale risiede nella valorizzazione di un “ragionevole errore”, poiché più la risposta è “sbagliata” e si basa su un pensiero divergente, più la valutazione sarà positiva, al contrario delle logiche consuete.
Il secondo esempio è poi Distruggi questa icona (2023), un compito in classe in cui Natoli sottopone agli studenti 17 ritratti di personaggi politici e storici, dal mondo della cultura e del trash (come David Bowie, Buddha, Ciccio Gamer, Albert Einstein, Chiara Ferragni, Adolf Hitler, Putin) chiedendo come consegna di détournare la serie di icone con un proprio intervento. La dinamica, per quanto dissacratoria, in realtà è volta a maturare una presa di consapevolezza rispetto alla natura delle immagini, in un’ottica di sovvertimento e di riduzione del potere di alcune rappresentazioni mediatiche che circolano in maniera pervasiva. Con le pratiche didattiche elaborate, Natoli si prende cura della dissidenza e della marginalità, valorizzando la divergenza sia dentro che fuori la classe.
Convivenza delle diversità: atelier ultrablu
Il terzo e ultimo esempio qui riportato non riguarda ricerche di stampo partecipativo avviate da singoli artisti, ma un progetto collettivo che prende la forma di una vera e propria comunità stabile [3]. ultrablu è infatti un atelier di arti visive, performative e digitali che sperimenta la convivenza tra artisti cosiddetti neurotipici e artisti neurodivergenti. In questo caso, la parola divergenza – finora utilizzata come suggestione concettuale – assume un significato ancora più profondo e specifico, poiché è una terminologia utilizzata nel campo delle neuroscienze per indicare l’organizzazione neuronale di persone nello spettro autistico, con Alto Potenziale Cognitivo, DSA o ADHD, ad esempio.
Il concetto di neurodivergenza, in realtà, è stato criticato da Judy Singer (1998) che ne evidenzia l’accezione discriminatoria, poiché è una definizione che presuppone una deviazione dalla norma in senso dispregiativo. La decostruzione di Singer parte dall’affermare che non esiste un cervello “tipico”, un prototipo perfetto rispetto al quale istituire una gerarchia qualitativa: sulle orme dell’idea di biodiversità, propone invece il neologismo di neurodiversità, ovvero l’inevitabile e costitutiva differenza di ogni mente rispetto a un’altra. In Italia, vi è attualmente un particolare fermento su questi temi, che si muove tra ricerca accademica, scientifica e attivismo. Associazioni come Neuropeculiar o gli studi di Fabrizio Acanfora lavorano infatti per il radicamento di una maggiore consapevolezza pubblica sul linguaggio legato alla neurodiversità, sostituendo, tra gli altri, il termine inclusività con quello di convivenza, che non implica l’accettazione di un corpo esterno da parte di un gruppo, ma un posizionamento già paritetico tra i soggetti.
L’attenzione al linguaggio permea contestualmente anche la metodologia di ultrablu, che adotta l’idea di coesistenza delle diversità per sviluppare un ambiente fisico e quotidiano in cui sperimentare forme di comunità artistiche raramente diffuse, soprattutto nel panorama nazionale. La percezione degli atelier d’arte è infatti ancora legata alla tradizione dell’arte-terapia, che a sua volta affonda le radici nella storia della psichiatria e delle attività creative svolte nel Novecento dentro i manicomi. L’aspetto innovativo della filosofia di ultrablu è prendere le distanze da tale tipologia di esperienze, avvicinandosi piuttosto a esempi seminali come il Gugging di Vienna. In sede non vi sono educatori, né operatori sociali, né tutor, ma gli artisti condividono un medesimo spazio di lavoro dove sviluppare le proprie ricerche in totale indipendenza.
Il progetto nasce infatti nel 2017 fuori da un contesto medico, dall’incontro tra Virgilio Mollicone, professore del Liceo Artistico Statale Ripetta di Roma e gli studenti Simone Cassese e Andrea Calcagno. Il docente avvia un percorso didattico mirato a valorizzare le loro competenze piuttosto che a seguire dei programmi differenziati per il raggiungimento degli obiettivi minimi, che sono visti da Mollicone come forzature di un sistema che tende a normalizzare una potenzialità creativa. Con il primo, in particolare, avvia un dialogo per immagini, scoprendo un’attitudine spiccata all’espressione per mezzo del disegno. Cassese sviluppa progressivamente un proprio modo per interagire con l’esterno, caratterizzato dall’utilizzo parziale della comunicazione verbale ma soprattutto dal linguaggio visivo, che tuttora coltiva nel suo percorso, volto alla realizzazione di opere ad acquerello e pennarello, di piccolo formato, con soggetti ripresi da fotografie di riviste o con mappe topografiche dalla matrice biografico-emotiva.
Il progetto nato in aula viene realizzato a pieno con la fondazione dell’atelier ultrablu nel 2017, uno studio raccolto dove inizia la convivenza tra artisti neurodivergenti e neurotipici sia nel campo delle arti visive che in quello dell’editoria, con la pubblicazione dei primi volumi interamente realizzati dagli artisti, come La Parata di Andrea Calcagno – un silent book concepito come un ironico corteo di personaggi animali – o La balena è felice, vola acqua di Simone Cassese – un bestiario dove i disegni sono affiancati da brevi didascalie di stampo poetico, scritte a mano. La comunità si espande e giunge a una maggiore articolazione nel 2021 con l’apertura dell’attuale sede, dove le attività giornaliere di atelier sono affiancate alla gestione di una libreria – detta “diversalista”, dedicata ai temi della relazione, dell’arte contemporanea e della neurodiversità – di uno spazio espositivo e di un café dove incentivare l’autonomia lavorativa.
In questo contesto, termini particolarmente delicati come “cura” e “divergenza” assumono un significato paradossale e prezioso se interpretato alla luce delle attività di ultrablu. Infatti, i soggetti che abitano la comunità sono considerati a tutti gli effetti, al di fuori di essa, degli outsiders, ancora percepiti entro l’ottica della disabilità e della malattia. Ciò che ultrablu promuove è un ribaltamento di prospettiva: la (neuro)divergenza non va sanata ma incentivata e lasciata fiorire, predisponendo un ambiente dove la diversità diviene un valore relazionale e un fattore di arricchimento umano e artistico reciproco. Il progetto è infatti realmente possibile grazie al lavoro costante dell’intera comunità, composta non solo da artisti nello spettro autistico, ma da figure eterogenee come familiari, storici dell’arte, curatori, musicisti, teorici, altri artisti, che quotidianamente collaborano per sviluppare iniziative e modalità di decostruire la normatività.
Note
[1] Le informazioni sulla pratica artistica di Basta derivano dal dialogo con l’artista e da un apposito studio visit (Roma, 19 aprile 2023).
[2] Le indicazioni riguardanti Natoli derivano da un puntuale studio visit (Roma, 15 aprile 2023) sulla sua attività didattica, ma soprattutto da un continuo confronto dal 2019 a oggi che ha portato a collaborazioni come il gruppo di ricerca D.A.P.A. Cfr. il manifesto, LINK (ultimo accesso aprile 2023).
[3] La ricognizione su ultrablu è frutto di un anno di residenza curatoriale (2021-2022), che ha portato al progetto Lontano vicinissimo ultrablu, un catalogo e una mostra che hanno inaugurato ufficialmente la nuova sede di Roma.
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Sitografia
Sara Basta
Museum Gugging
Jacopo Natoli
Neuropeculiar
Ultrablu
Arianna Desideri (Roma, 1996) è una storica dell’arte laureata all’Università di Roma Sapienza e curatrice indipendente. Nel 2020, ha pubblicato il volume Roma 70. Interventi e pratiche artistiche nello spazio urbano (Terreblu, Caserta). La sua ricerca si focalizza sul panorama artistico dalla seconda metà del Novecento a oggi, con un focus sull’arte partecipativa e sul postumanesimo. Particolare interesse è rivolto allo studio di metodologie processuali, site-specific, liminari, relazionali e metadiscorsive. Tra gli ultimi progetti curati, la mostra Lontano vicinissimo ultrablu (Roma, ultrablu, 2022-23).