“Every age, including the post-colony, is in reality a combination of several temporalities.”
Achille Mbembe, On the Postcolony1
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§ Venezia, i fantasmi e il postcoloniale
Nel suo piccolo saggio Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, Giorgio Agamben descrive la città di Venezia come uno spettro. Non un cadavere ma quello che viene dopo, l’immagine perturbante di un non-vivo (di un non-morto) che si aggira, proverbialmente senza trovare pace, nelle notti lagunari, regalando al passante “uno specchio annebbiato”2. È sempre stata questa, per me, l’immagine di Venezia, e in particolare dei Giardini. Un archivio in rovina3 della modernità. Visitare la Biennale è come passeggiare fra i resti un po’ macabri di un discorso potente, che continua a riaffermare se stesso nel suo stesso disfarsi. Come una lingua morta (come il latino, dice Agamben) che non viene più parlata, eppure continua ad essere (qui) la radice di quasi ogni parlare.
Mai così tanto come in questa Biennale curata da Okwui Enwezor è stata tematizzata l’identità stessa della Biennale, la sua matrice storica e il modello da Esposizione Universale che la definisce, con la sua narrativa improntata all’idea di “progresso”, con il suo intreccio di retoriche nazionaliste e colonialiste, di cui sono intrise molte delle storiche architetture dei Giardini, e le storie delle nazioni che rappresentano.
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“I am the Belgian Pavillion.
I am very proud to have been the first national pavilion, built in 1907 by a group of Belgian artists. They were not in line with the Belgian government and had a more secessionist view, but my Léon Sneyers, my architect, had a good grip on colonialism as he was responsible for the exhibition halls of the Belgian colony Congo for the world fairs in 1905 and 1906. I was built with a large glass ceiling, as a manifest for radical modern art!
When I was built, the Empire of Belgium was in full swing. Our King Leopold II had a vast share of central Africa in his claws, lands that were called ’Congo’ after the river flowing through the dense jungle forest.
The world was in the throes of imperialism and Europe was happy to produce more and more heavy machinery under big smoking funnels. The vehicles, cars and trucks went on wheels covered with rubber, and much of this rubber came from the Congo jungles. People from the villages had to collect the sap from trees, and if they did not provide enough, their hands were cut off as revenge. Seven years to go World War One, and 53 to formal independence for the Congo.
The artists who exhibited in this first independent little structure propelled little Belgium with big Congo into the world art market like nothing, like a rocket!! And I am still with them, after all those years! Not with the Congo of course. But, I was sad when I heard that they wanted to come to Venice in 2011 and couldn’t. And they had a nice motto too, something about women and art. And because nobody asks me anything – people just fill me with what they call ’art’ – I was not able to offer them space in my noble halls. Because by this, I could have been two pavilions at once: of Belgium, the first in the Giardini, and of the Republic of Congo, the last… But, nobody asks me… maybe I collapse for spite… after all, I am old… standing here all the time… stupid people…”4
Anche i Giardini della Biennale, come le sale di tanti musei etnografici, le strade e le piazze delle nostre città, i residui di architetture coloniali disseminati nelle ex-colonie, sono infestati da fantasmi, depositari delle tracce di un passato coloniale che continua a non passare.
In effetti la spettralità è una forma di vita, come scrive Agamben. Una forma di vita postuma, fatta di segni, o meglio di segnature, i segni che il tempo incide nelle cose: “uno spettro porta sempre con sé una data, è, cioè, un essere intimamente storico”5. Qui la data è il 1907, quando il padiglione Belga è stato costruito (il primo). L’anno successivo il re del Belgio Leopoldo II, in seguito a numerose proteste internazionali, ha ceduto allo Stato Belga il Congo Free State, come si chiamava all’epoca, che deteneva come proprietà “personale” dal 1885.
Da qui, dalle conseguenze dei settantacinque anni di governo coloniale del Belgio in Congo, prende le mosse la riflessione di Katerina Gregos e Vincent Meessen, rispettivamente curatrice e artista del padiglione Belga della Biennale di quest’anno: “the repercussions of seventy-five years of colonial rule are not openly or widely acknowledged in the public domain in Belgium, seldom critically analyzed, and only minimally touched upon in educational curricula”6.
Etimologicamente, spectrum è “il mezzo per vedere”. Quindi è più che un’immagine: è una visione, una proiezione, qualcosa che permette di vedere altro, e oltre. Come uno specchio annebbiato: spectrum-speculum-spectaculum.
Il padiglione Belga di questa Biennale sembra aver ascoltato la propria voce spettrale, trovando riflessivamente nel suo specchio le microstorie e le voci inascoltate che hanno costituito visioni alternative di quella modernità europea data come universale. Su questo è costruito il senso dello spectaculum: prendendo in considerazione il colonialismo come un processo trans-nazionale, che ha funzionato tanto secondo logiche oppositive, quanto su percorsi di interazione e intimità, Katerina Gregos, insieme agli artisti invitati, mettono l’accento sulle molteplici e spesso ibride relazioni (artistiche, intellettuali e culturali) generate nel contesto dei rapporti coloniali tra Europa e Africa. In questo senso la modernità non è più un costrutto rigido e “puro”, autoriferito secondo una logica eurocentrica e universalizzante: “the exhibition questions the Eurocentric idea of a singular modernity by examining a shared avant-garde heritage, one marked by artistic and intellectual cross-pollination between Europe and Africa, which generated pluralist, so-called counter-modernities”7.
La seconda sfida lanciata dal padiglione Belga riguarda la tradizione, la grammatica stessa della Biennale, la sua normatività: il concetto di rappresentatività nazionale, alla base della struttura della Biennale, viene messo in crisi in due modi. L’artista scelto secondo le procedure convenzionali per rappresentare il Belgio alla Biennale, Vincent Meessen, ha a sua volta invitato altri artisti provenienti da quattro continenti diversi (per la prima volta nel padiglione Belga sono in mostra anche artisti provenienti da paesi africani). Inoltre, in contrasto con la tendenza generale della Biennale a presentare, nelle parole della curatrice, “grand or iconic statements, often with a penchant for the spectacular, lacking in experimentation, and with a tendency to avoid politically sensitive issue”8, il padiglione Belga in questa edizione ha proposto una mostra collettiva, basata su un approccio internazionale, tematico, discorsivo, a partire da “research-based practices”: “an open gesture of welcoming, hospitality, dialogue, exchange, and the creation of a shared space”9.
“I monumenti dell’uomo somigliano ai pezzi del suo scheletro, o di qualsiasi scheletro,
a grandi ossa scarnificate. Non evocano un abitante alla loro dimensione.”
Francis Ponge, 197910
Entrando, subito a destra, l’impressione è di essere finiti in una dimensione sospesa – non tanto tra passato e presente, quanto tra realtà ephantasma: siamo dentro una apparizione, dentro la potenza immaginativa di una realtà fantasmatica che ci si presenta, interrogandoci. Una fermata di autobus scheletrica, costruita con ossa enormi di animali “esotici”, un sedile vuoto chiede il corpo di qualcuno e la sua attesa. Si tratta di M’FUMU, l’installazione di Elisabetta Benassi, una delle artiste invitate nel padiglione Belga. Il corpo che abita temporaneamente questo luogo ir-reale è quello di un performer che legge King Leopold’s Soliloquy, l’ironico monologo scritto da Mark Twain nel 1905 su una improbabile autodifesa da parte di Re Leopoldo II per le atrocità commesse durante il suo dominio in Congo – Soliloquy of the Crazy King, il titolo della performance. La fermata fantasma è quella del tram n. 44 che collega Montgomery Square a Tervuren, poco fuori la città di Bruxelles. Si tratta di una linea fatta costruire appositamente dal Leopoldo II in occasione dell’Esposizione Universale del 1897 a Bruxelles, per collegare la sede espositiva principale, il Cinquantenaire Park, con il Palazzo delle Colonie, sede espositiva delle conquiste coloniali del re, che nel 1908 è diventato il Musée du Congo Belge e nel 1960 il Royal Museum for Central Africa – museo che, dal 2012, è impegnato in una profonda ridefinizione del proprio statuto, a partire dalla radice coloniale alla base della propria collezione e delle proprie narrazioni11. È dal museo stesso che provengono gli scheletri di animali esotici utilizzati da Elisabetta Benassi nella sua installazione, in un atto di restituzione e di auto-analisi, da parte del museo, che permette di trasformare le ossa da simbolo di violenza coloniale (non solo materiale, ma anche rappresentazionale) a luogo di riconoscimento e di accoglienza: “the ghost stop is also a metaphorical shelter, taking under its protection “the others” – those who disappeared in the margins of colonial history – and letting their ghosts to the world from which they were once excluded”12.
M’Fumu Stop, si legge inscritto nello scheletro spettrale dell’installazione – come una di quelle segnature che la storia incide sulla pelle delle cose. M’Fumu, cioè Paul Panda Farnana (1888-1930), è uno di quegli spettri che si aggirano nelle stanze del Padiglione: intellettuale e attivista congolese (il primo congolese a ricevere un’educazione superiore), dopo aver combattuto nella Prima Guerra Mondiale nell’esercito belga, ha fondato l’Union Congolaise ed ha partecipato al movimento Pan-Africano, contribuendo all’organizzazione del Secondo Congresso Pan-Africano a Bruxelles nel 1921. Il suo contributo intellettuale alle questioni coloniali tra Belgio e Congo è tra i più originali, brillanti e contraddittori13.
Elisabetta Benassi traccia un legame che stringe in una stessa complessa e vischiosa costellazione le Esposizioni Universali, i Musei etnografici, la pianificazione urbana della città moderna, la relazione ambigua rispetto al colonialismo anche di quanti cercavano di opporsi ad esso, la quotidianità dei cittadini di Bruxelles (le conversazioni alla fermata di un tram) e il loro improvviso ritrovarsi nel pieno dell’Africa coloniale, l’esperienza dei colonizzati portati in Europa per essere esposti in freak show e spettacoli antropo-zoologici (nel “villaggio congolese” messo in scena al Palazzo delle Colonie per l’Esposizione Universale del 1897 a Bruxelles c’erano circa 267 Africani in mostra) – violenze, narrazioni e affetti compromessi gli uni negli altri – tutto nella misura di dodici chilometri – una linea di un tram che fa collassare la modernità Europea e il suo cuore di tenebra.
Si inizia a delineare così quella che Meessen definisce “colonial hauntology”14: un processo di emersione del rimosso, del negato, del misconosciuto, attraverso la sua re-inscrizione nel presente, al quale continua ad appartenere, soprattutto nella dimensione dell’intimità quotidiana dei gesti, dei passi, dei giochi. Un fantasma che ritorna a prendere corpo e reclamare le proprie ragioni, le proprie narrazioni, i propri affetti.
§ Poetiche dell’intimità e del paradosso (Je est un autre)
“qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve”
(Alejandra Pizarnik)
Personne et les autres, il titolo dell’esposizione – citazione di un testo teatrale andato perduto di André Frankin, critico Marxista che ha fatto parte dei Lettristi e dell’Internazionale Situazionista – è una dichiarazione d’intenti densa di sfumature e stratificazioni di senso. “Nessuno e gli altri” è innanzitutto una sfida all’autorialità dell’artista – l’Artista selezionato per rappresentare la propria Nazione in una Biennale Internazionale d’arte contemporanea. Non un sottrarsi dalla responsabilità del posizionamento, ma un porsi nell’ottica della condivisione di un processo di costruzione di senso con altre persone, un processo di natura essenzialmente collaborativa e inclusiva. Un considerare, tra questi “altri”, anche i visitatori della mostra, che partecipano alla costruzione di un sapere proposto dagli artisti in maniera parziale, provvisoria, incompleta, bisognoso di essere completato dalla lettura o dall’azione o dall’immaginazione delle persone che arrivano, ognuna con il proprio background.
Les autres sono anche i diversi punti di vista che possono emergere nel guardare uno stesso oggetto (la storia coloniale, per esempio, e le sue eredità), che ne sfaccettano il senso, restituendone la complessità inestinguibile, spesso oscurata a beneficio di un racconto semplificato, pacificante o conflittuale.
Così Mathieu Kleyebe Abonnenc avvicina lo sguardo alla storia di Victor Sclœcher (1804-1893), scrittore e uomo di stato francese, convinto oppositore della schiavitù nei territori d’oltremare francesi. La sua installazione, Forever Weak and Ungrateful, è una dissezione della retorica di uno dei tanti monumenti a Sclœcher disseminati nelle Antille francesi, una statua bronzea che si trova a Cayenne, nella Guyana Francese, che raffigura Sclœcher con un ragazzo schiavo. Sclœcher è vestito e con un braccio cinge le spalle del ragazzo, che invece indossa solo un panno a coprire le parti intime, ed ha entrambe le mani posate sul cuore. L’altro braccio di Sclœcher è steso in avanti, a indicare paternalisticamente un futuro di libertà, mentre i loro sguardi si incontrano.
Abonnenc lavora sulla grammatica dei gesti e delle pose, realizzando una serie di fotoincisioni e di sculture a partire dal calco e dalle foto della statua, che gli permettono di sezionare i due corpi bronzei in alcuni dettagli: lo sfiorarsi dei fianchi, lo scambio degli sguardi (con Sclœcher che guarda il ragazzo schiavo dall’alto, fronte aggrottata, sguardo serio e composto, mentre il ragazzo lo ricambia con uno sguardo dolce, il viso leggermente reclinato, un sorriso appena accennato di fiducia e riconoscenza), il gomito del ragazzo che sembra poggiare sul corpo del benefattore… tutto sembra di colpo rivelare un’ambiguità di fondo. Abonnec rilegge, o meglio decostruisce la retorica paternalista e trionfalista della statua, rovesciandola (forever weak and ungrateful), lasciando emergere il carico di erotizzazione e la feticizzazione dei corpi, quello dell’eroe tanto quanto quello dello schiavo. Quella che Fanon chiamava “la psicopatologia” delle relazioni coloniali resiste anche nel legame tra schiavi e abolizionisti, che, come ogni relazione di potere disuguale, comporta una dinamica di desiderio reciproco. Il lavoro di Abonnec scandaglia proprio il territorio difficile dell’intimità e del desiderio in relazione al potere, e la forza con cui quella forma di “intimità basata sulla tirannide” descritta da Achille Mbembe15, inscrive entrambi i soggetti in una dimensione che non li oppone in maniera dicotomica, bensì li stringe in un legame di convivenza e familiarità – un legame che per il potere è altrettanto produttivo che la semplice coercizione.
Patrick Bernier e Olive Martin fanno della pratica collaborativa il nodo centrale della loro installazione, L’Echiqueté: una fotografia dell’archivio familiare di Bernier, esposta nell’installazione, raffigura la cerimonia svoltasi nel primo anniversario della Repubblica della Nigeria, il 1 agosto 1961, e le celebrazioni per la costituzione delle Forze Armate Nigeriane. Pochi mesi prima la Francia aveva stipulato un accordo con l’attuale Benin e Burkina-Faso (in precedenza parte dell’Africa Occidentale Francese con la Nigeria), per il quale la Francia avrebbe concesso aiuti e avrebbe formato le milizie locali, ma in cambio avrebbe avuto libero accesso alle infrastrutture militari e soprattutto alle risorse strategiche di quei territori (olio, gas e uranio)16. Lo spazio geometrico, organizzato e chiaramente suddiviso in movimenti in linee rette, e i colori degli abiti dei tre personaggi in primo piano nella fotografia, sono stati tradotti dagli artisti in una piattaforma per il gioco di scacchi, e in una particolare versione di questo stesso gioco. La dinamica generale resta la stessa, ma con una nuova regola: quando un pezzo viene catturato dall’avversario, invece di essere eliminato, si “incrocia” con il pezzo vincente, producendo così un ibrido, un pezzo bianco e nero, l’identità del quale viene decisa dal vincitore. Così l’intera struttura dicotomica di base su cui si regge il gioco classico degli scacchi viene messa in discussione, in favore di una logica paradossale, che costringe i giocatori a ridefinire le strategie di gioco, compresi i concetti di proprietà e di appartenenza (come è possibile catturare un pezzo ibrido, se appartiene un po’ a entrambi i giocatori?).
Il gioco e la logica paradossale agiscono nell’ottica di profanare17, di disattivare i dispositivi di potere che hanno costruito un ordine normativo, di metterlo in crisi attraverso l’entrata in una logica “altra” e liberatoria. Non si tratta di una tattica oppositiva, quanto di una tattica di disturbo e dislocazione di abitudini culturali normativizzate, che ha la potenzialità di aprire la strettoia dicotomica e far sì che la differenza torni a circolare.
“La décolonisation est toujours en vigueur”
(Joseph M’Belolo Ya M’Piku, in V. Meessen, One.Two.Three, 2015)
Nel suo saggio Quando è stato il “post-coloniale”? Pensando al limite (1997), Stuart Hall sottolinea come l’esperienza coloniale non si esaurisce nella contrapposizione binaria tra colonizzati e colonizzatori; ben oltre questa prospettiva, è stata “un esteso evento di rottura di portata storica mondiale” che ha riguardato molto più del governo diretto da parte di alcuni paesi europei su molte aree del mondo, e che ha segnato tanto le società colonizzatrici come quelle colonizzate, anche se in modi diversi18. Il colonialismo è stato un processo costitutivo della modernità Occidentale, che certamente comprende l’esplorazione, la conquista, la colonizzazione e l’egemonizzazione di vasti territori e culture, ma che, nella sua portata mondiale, ha reso possibile anche lo stabilirsi di contatti tra artisti e intellettuali della diaspora africana con artisti e intellettuali europei, costruendo una rete di relazioni a livello politico e culturale non improntate a una logica di dominio, ma di reciprocità e di crescita. La stessa resistenza al colonialismo non è qualcosa che è accaduto solo nelle colonie: è stata un processo transnazionale, che ha legato le colonie con gli attivisti della diaspora africana e con la sinistra di molti paesi europei.
In questo senso, il concetto stesso di Modernità si fa plurale e dislocato.
1 A. Mbembe, On the Postcolony, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 2001, p. 15.
2 G. Agamben, “Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri”, in Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 60.
3 I. Chambers, G. Grechi, M. Nash, The Ruined Archive, Politecnico di Milano, 2014.
4 Danila Mayer, “Who Am I?“ What the Pavilions Tell Us. Iman Ithram listens to the little buildings in the Giardini, in roots§routes, Anno 3, n.11 luglio – settembre 2013 [Speciale 55ma Biennale di Venezia], https://www.roots-routes.org/?p=9687
5 Agamben, op. cit., p. 61.
6 K. Gregos e V. Meessen, Personne et les autres, catalogo del padiglione Belga alla 56 Biennale di Venezia, p. 8.
7 K. Gregos e V. Meessen, op. cit., p. 9.
8 K. Gregos e V. Meessen, op. cit., p. 7.
9 Ib.
10 “Les monuments de l’ homme ressemblent aux morceaux
de son squelette ou de n’importe quel squelette,
à de grands os décharnés: ils n’évoquent aucune habitation à leur taille.” Francis Ponge, “Appunti per una conchiglia”, da Il partito preso delle cose, Einaudi, Torino 1979.
11 Ho avuto modo di ascoltare nel 2012 Anne-Marie Bouttiaux e Guido Gryseels, del Musée Royal de l’Afrique Centrale, in un interessante convegno dal titolo “I Musei etnografici hanno bisogno dell’etnografia?”, organizzato al Museo Pigorini di Roma all’interno del progetto RIME, un progetto europeo di ricerca sui musei etnografici, nel quale annunciavano la chiusura del museo dal dicembre 2013 fino al 2017, per procedere a una ristrutturazione profonda non solo dell’edificio, ma del progetto museale in generale. Si veda: http://www.mela-blog.net/archives/1783.
12 K. Gregos e V. Meessen, op. cit., p. 76.
13 Ib. p. 76.
14 Ib. p. 10.
15 A. Mbembe, op. cit.
16 Quest’ultima clausola è rimasta un segreto di stato per anni. Cfr. K. Gregos e V. Meessen, op. cit., p. 82.
17 G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005.
18 I. Chambers, L. Curti (a cura di), La questione postcoloniale, Liguori, Napoli 1997, p. 301.
19 K. Gregos e V. Meessen, op. cit., p. 9.
20 A. Mbembe, “Variations on the Beautiful in the Congolese World of Sounds”: http//www.cairn.info/revue-politique-africaine-2005-4-page-69.htm.
21 Ib. p. 14.