CITAZIONE
Citazione-appropriazione: il primitivismo letterario italiano come polarizzazione dell’alterità
di Lorenzo Perrona

Andrea Morucchio, Noto #02, 2008

Il primitivismo letterario italiano degli anni ’30 e ’40 del Novecento si sviluppa come rilettura del mondo contadino. Questo revival va letto all’interno di una politica della rappresentazione messa in atto da alcuni scrittori che danno voce alla minoranza antifascista rispetto alle formazioni discorsive dominanti ed emerge come icona culturale marcata dal segno dell’alterità. Questo discorso minoritario e di opposizione si appropria dell’icona culturale del contadino rinnovandone il significato. Si tratta quindi di una nuova forma di citazione-appropriazione, che lascia aperta la possibilità di un discorso di opposizione. Essa rende possibile esprimere un posizionamento all’interno del sistema della comunicazione culturale. In questa prospettiva di analisi, la citazione-appropriazione è un gesto che sovverte il discorso dominante.

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È noto che negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso in Italia il tema del “contadino” abbia goduto, nel trionfo novecentesco della modernità, di una nuova vitalità. Infatti l’icona culturale del contadino e del suo mondo, dopo le recenti declinazioni ottocentesche, come quella manzoniana (gli umili) e quella verghiana (i vinti), giaceva datata e abbandonata con l’avanzare del Novecento: il discorso della modernità presumeva, in quell’Europa costellata di modernissimi regimi totalitari, ben altre auto-rappresentazioni, che andavano dal superuomo eurocentrico al rivoluzionario-operaio, al piccolo borghese urbano. Certo, rappresentazioni del mondo contadino non mancavano, ed erano di impronta conservatrice, come quelle folkloriche di D’Annunzio o quelle, ben più interessanti e di ampio respiro, di Pascoli (che usa l’ambiente campagnolo per erigere un luttuoso baluardo a protezione del sentimento).

Non è stato finora messo in dovuta evidenza il revival novecentesco del tema del contadino nelle rappresentazioni letterarie di scrittori come Silone e Carlo Levi, il cui progetto di scrittura si ispira a istanze di rinnovamento sociale, di emancipazione della classe subalterna e di opposizione morale e politica al totalitarismo. Queste rappresentazioni letterarie recuperano clamorosamente l’icona culturale del contadino, rivoluzionandone e rinnovandone il senso. Un tale recupero novecentesco ha dato all’icona stessa una “vita postuma” (Nachleben, come si espresse Warburg a proposito della persistenza dell’iconografia classica1). Si tratta di capire secondo quali modalità e quali significati avvenne tale recupero. In questo articolo si vedrà che la nuova polarizzazione dell’icona del contadino è avvenuta con la modalità della citazione e dell’appropriazione, e che il nuovo significato assunto da essa è l’alterità.

Occorre premettere che questa nuova polarizzazione non è altro che la specie italiana di un fenomeno di vasto respiro, il primitivismo novecentesco. Nel corso del Novecento, “primitivo” è termine riferito a certe società e stili di vita, come nozione diffusa sia nella cultura di massa, sia in ambito artistico e accademico. È frutto dell’istituzione coloniale di una discriminante, nel campo innanzitutto dell’antropologia e della sua divulgazione, e di conseguenza nella cultura diffusa (incluse le tendenze artistiche), che stabiliva chi e che cosa fosse da considerarsi “altro” rispetto alla centralità del soggetto europeo e colonialista2. Anche Mario Perniola considera il primitivismo artistico novecentesco come una lente deformante in senso “etnocentrico” e “imperialistico”3. Nella scia di Culture and Imperialism di Said4, l’interesse di queste analisi sta nell’includere il primitivismo artistico di primo Novecento in un “sentire” dei moderns, individuabile non solo nelle esperienze d’avanguardia e nella critica d’arte (di cui l’uso delle maschere africane da parte di Picasso è l’esempio più noto), ma in opere letterarie esemplari come quelle di Conrad o di D.H. Lawrence. L’atteggiamento primitivista offre dunque una serie di categorie, un’organizzazione gerarchica dei saperi, un’“immaginazione condizionata” che danno le coordinate di ogni altra elaborazione culturale5.

Sull’immagine del contadino, come esempio di elemento controverso della rappresentazione, si soffermò Eugenio Battisti, lo storico dell’arte che propose negli anni ‘60-’80 (interpretando l’innovazione di Warburg) una lettura in contropelo del Rinascimento italiano, per evidenziarne le spinte eccentriche, contraddittorie, non univoche, e le connessioni con le esigenze espressive del tempo. In L’antirinascimento (1963, 1981) Battisti mostrava che quella del contadino era un’immagine o del tutto assente nella rappresentazione artistica, o stilizzata nel travestimento delle pastorali; oppure emergeva nell’anti-Rinascimento portatore di sentimenti di comprensione e solidarietà per le ricorrenti disgrazie dei poveri (Battisti fa riferimento al teatro e alle arti figurative, in particolare al Reduce di Ruzante e ai bronzetti di Andrea Riccio)6. Nel clima culturale particolarmente fervido di fine Quattrocento, significati contrastanti furono liberi di contendere intorno a un’icona culturale, cercando di appropriarsene e fissarsi su di essa, uno a scapito dell’altro. In quel torno di tempo, sulla compartecipazione alle tribolazioni dei poveri prevalsero il timore e l’odio “urbano” nei confronti del “villano”, della classe subalterna. In questo modo Battisti operava nel senso di una radicale critica della rappresentazione artistica, indicando il momento della storia culturale italiana ed europea in cui un’icona culturale era disponibile ad assumere significati diversi e conflittuali e finiva poi per assorbirne uno solo.

Nell’ambito del primitivismo letterario italiano novecentesco, gli esempi di Ignazio Silone e Carlo Levi illustrano chiaramente il manifestarsi dell’icona culturale del contadino, e indicano quale tipo di polarizzazione fosse in atto e quale fosse l’originalità della variante italiana, cioè l’istituzione di alterità non su di un soggetto esotico, colonizzato o in via di colonizzazione, ma su di un soggetto interno e subalterno, la classe contadina italiana, storicamente emarginata e, in virtù del primitivismo, rappresentata come priva di alcuni diritti di cittadinanza (vista la persistenza di condizioni quali l’ignoranza, la miseria, l’inaffidabilità ecc.). Inoltre si nota il progressivo spostarsi verso Sud, dall’Abruzzo alla Lucania, di questa frontiera di emarginazione.

Il “cafone” siloniano è figura che la Provvidenza non riscatta più, è un’“immagine accessoria” priva di una sua soggettività e di una sua agency7. Nel 1933 (anno di pubblicazione a Zurigo e in tedesco di Fontamara) il cafone è il contadino senza terra, disoccupato e perseguitato se lotta per i suoi diritti, in attesa di una rivoluzione socialista sempre più procrastinata. L’accessorietà dell’immagine la rende funzionale a un progetto di riscatto, cioè è strumento di denuncia rivolta ai lettori europei antifascisti, e celebrazione del sacrificio necessario a quella lotta. È di fatto la raffigurazione di un homo sacer destinato ad essere immolato al sistema biopolitico totalitario, in quanto deprivato dei diritti fondamentali della persona. Gli intensi elementi significanti e simbolici non sono solo dettati dal socialismo siloniano, ma emergono dall’immaginazione condizionata alla quale era necessaria una figura “altra” a rappresentare un percorso difficile e cruento in anni di totalitarismo, di devastazione e di manomissione delle regole civili della polis. Infatti dall’analisi dei testi siloniani emerge il costante distanziamento operato dallo scrittore rispetto ai suoi protagonisti, che invece gli somigliano sia per le origini popolari, che per le vicende esistenziali da fuoriuscito ed eversivo; questo si spiega non tanto con le esigenze contingenti legate alla vita in clandestinità o con i modi della scrittura siloniana, quanto con la profonda necessità di differenziare, allontanare nella dimensione altra della violenza e della morte, l’immagine rappresentata per poterla utilizzare strumentalmente come vittima sacrificale (homo sacer, appunto)8.

In modo simile, i contadini lucani di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (che è, come Fontamara, un altro dei rari libri italiani che si è conquistato l’immediato successo internazionale) sono figure letterarie che subiscono un processo di evocazione e di distanziamento. Dal momento che l’identità (politica e personale) dello scrittore è messa in questione e sanzionata dal regime fascista con il confino (1935-36) – che puniva sì l’antifascismo, ma che preludeva nella vicenda esistenziale dello scrittore all’annichilente persecuzione razziale che gli avrebbe fatto scrivere il libro nascosto in clandestinità a Firenze fra il 1943 e il 1944 – l’identità borghese dell’autore scopre l’alterità contadina, mitica e primitiva, salvifica e nello stesso tempo perturbante. Ecco l’effetto del primitivismo: l’“altro” ha un potere di fascinazione, ma nello stesso tempo di minaccia, per l’identità borghese9; d’altra parte, la soggettività subalterna diventa cosa osservata dall’esterno, tenuta a distanza, visione di paesaggio (“Quante volte ho dipinto questi visi che sono paesaggi”10).

Ciò che riattiva l’icona culturale è la dinamica fra identità e alterità; e l’oggetto della rappresentazione risulta in ciò che Bhabha ha definito “immagine accessoria”, cioè deprivata di soggettività personale e politica. L’icona culturale è citata e appropriata; e il senso dell’immagine riformulato nella nuova formazione discorsiva.

L’icona culturale in se stessa è dunque un emblema11 riattivato ogni volta che viene citato nella singola rappresentazione, ed è disponibile ad assumere una certa valenza etico-politica nella concretezza e nella presenza della singola rappresentazione. Il significato dell’icona culturale dipende proprio dalle istanze etico-politiche che rimettono in gioco l’icona culturale significante. In questo senso è evidente che Nachleben non è tanto l’imperscrutabile ritorno di un’icona culturale in un processo di tipo fondamentalmente evoluzionista (come lo concepiva lo stesso Warburg), ma è piuttosto il prodotto di un sistema culturale, la sua riattivazione attraverso citazione e appropriazione: una nuova polarizzazione di significato rispetto alle formazioni discorsive dominanti, una rielaborazione di senso spesso portatrice di un discorso alternativo e conflittuale.

Negli esempi italiani citati degli anni ’30 e ’40 la soggettività all’opera è quella di un io borghese dissidente. E la rappresentazione letteraria dell’alterità si è focalizzata su un’alterità interna, travestita di primitivismo, il Sud, con uno scopo strumentale (denuncia socio-politica) e proiettivo compensatorio (analogo all’orientalismo colonialista) ad uso dell’io borghese preoccupato di affermare, da una parte, la sua modernità e dall’altra di esprimere un anticonformismo, un dissenso. Ci interessa il diaframma significante fra un’identità insostenibile (borghese) e un’alterità (contadina): è questo diaframma significante che rende esprimibile il dissenso, il non conforme (e per questo l’alterità è strumentale).

Vedere questo processo di istituzione di alterità nel primitivismo è molto importante perché questa istituzione di alterità resta attiva nella seconda metà del Novecento, e su di essa agiscono e reagiscono gli scrittori che si confronteranno con la società italiana, da Pasolini (l’alterità rispetto all’identità borghese) a Sciascia (l’alterità del cittadino rispetto al potere).

Come dovrebbe essere a questo punto chiaro, il senso della rappresentazione letteraria risulta dalle diverse polarizzazioni dell’icona culturale (in questo caso quella del contadino e del suo mondo). Spiegare questo processo permette di evitare abitudini di lettura errate e diffuse. La più diffusa è l’impostazione essenzialista che, prendendo per buono il significante iconico, lo fissa nello stereotipo. E lo usa pervasivamente nel linguaggio comune in ogni riferimento a una certa realtà sociale o area geografica (il contadino, il Sud). Spia del primitivismo è l’assenza sistematica del riferimento temporale: dal passato al futuro, non è data la possibilità di un cambiamento. Tutto ciò nasconde e maschera una modalità di lettura e interpretazione autoritaria e antidemocratica di “rappresentazioni” che vanno invece lette e decodificate in quanto tali nel funzionamento dei testi e nell’espressione ed elaborazione dei significati anche conflittuali.

Riflettere sulla rappresentazione letteraria novecentesca dell’alterità significa capire che cosa e come sia passato dell’ideologia e delle pratiche colonialiste e imperialiste nelle strutture culturali italiane. Questo va inteso non tanto e non solo come critica storiografica dell’ideologia colonialista nel momento in cui essa è stata attiva (le vicende del colonialismo italiano). Significa anche mettere in evidenza le strutture culturali intrinseche nella cultura, borghese e populista, del Novecento che hanno acutizzato il senso dell’altro, l’istituzione di un otherness. E inventare modi nuovi per superarli.

Infatti, sul rapporto conflittuale identità/alterità è necessario fare un passo avanti. Se, da una parte, è da rifiutare il concetto di un’identità essenzialista, dall’altra bisogna riconoscere l’utilità delle costruzioni identitarie: esse sono dei posizionamenti storici e sociali che gli individui adottano strategicamente come risorsa politica; l’identità diventa quindi un concetto “veicolare”, una categoria che facilita un progressivo impegno e un’analisi politica delle proprie condizioni di vita12. Cosa che fecero nella loro scrittura Silone e Carlo Levi per smarcarsi dalla formazione discorsiva dominante della modernità e del totalitarismo.

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Su Warburg si vedano le considerazioni di Giorgio Agamben: Aby Warburge la scienza senza nome, in “Prospettive Settanta”, luglio-settembre 1975, ora in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005; La parola e il fantasma. Tra Narciso e Pigmalione, in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, 2011.
“The West seems to need the primitive as a precondition and a supplement to its sense of self: it always creates heightened versions of the primitive as nightmare or pleasant dream. The question of weather that need must or will always take fearful or exploitative forms remain pressing” (Marianna Torgovnick, Gone primitive. Savage intellects, modern lives, University of Chicago Press, Chicago 1990, p. 246).
3 Mario Perniola, “Oltre neoclassicismo e primitivismo”, in Disgusti. Nuove tendenze estetiche, Costa & Nolan, Milano 1998, pp.116-7.
Edward Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti, Roma 1998.
5 Marcel Stoetzler, Nira Yuval-Davis, Standpoint theory, situated knowledge, and the situated imagination, in “Feminist Theory”, 2002, 3.3, pp. 315-33.
6 “Nell’Italia settentrionale, e proprio nella zona padovana e ferrarese, troviamo accanto all’ormai ben nota statuetta del Riccio, rappresentante un operaio stanco, alcune rare incisioni, già alla fine del Quattrocento, che raffigurano contadini in cammino verso il mercato o al lavoro domestico, con un forte senso di simpatia e di compartecipazione, nonostante una piccola punta caricaturale. Su di esse l’odio dei borghesi contro i paesani si è espresso con scritte cariche d’insulti o ironiche; e viceversa vi si trovano ingenue difese con versi pastorali” (Eugenio Battisti, L’antirinascimento. Fiaba, allegoria, automi, arte profana, astrologia, razionalismo architettonico: storia dell’anticlassicismo nel rinascimento, Garzanti , Milano 1963, 1981, pp. 349-51; le stampe sul tema del contadino studiate da Battisti sono in Arthur Hind, Early Italian Engraving. A critical catalogue with complete reproduction of all prints described, London 1938, IV, tavv. 418-21; 1948, VI, tav. 534).
7 Homi K. Bhabha, Interrogare l’identità. Frantz Fanon e la prerogativa postcoloniale, in I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, p. 76.
8 Ho condotto queste e le successive analisi testuali nella ricerca di dottorato L’altro sé. Rappresentazioni letterarie d’opposizione nel Novecento italiano (Università di Losanna, direzione scientifica di Raffaella Castagnola).
9 Nelle parole di Levi, il “primigenio indistinto” primitivista appare già in Paura della libertà con le due antitetiche valenze: da una parte “l‘incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell‘inesprimibile”; dall‘altra “il luogo del contatto dell‘individuo con l‘universale indifferenziato, […] il fecondo sonno immortale, l‘eterno ritorno a un indistinto anteriore” (Paura della libertà, Einaudi, Torino 1946; Torino 1975, p. 23).
10 Carlo Levi, Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia, Einaudi, Torino 1960; ora in Un volto che ci somiglia. L’Italia com’era, a cura di Goffredo Fofi, Edizioni e/o, Roma 2000, pp. 47-48.
11 Sulla forma emblematica come “magazzino di rottami” disponibili a vita postuma, vedi Giorgio Agamben, L’immagine perversa, in Stanze cit., p. 171.
12 Stuart Hall, Old and new identities, old and new ethnicities, in Culture, globalization and the World System. Contemporary conditions for the representation of identity, a cura di Anthony D. King, University of Minnesota Press, MN 1997; Brett St Louis, On “the necessity and the „impossibility of identities”. The politics and ethics of “new ethnicities”, “Cultural Studies”, 23 (4), 2009, pp. 559-582.

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Lorenzo Perrona ha conseguito il dottorato presso la Section d’Italien dell’Università di Losanna con una ricerca sulla rappresentazione letteraria nel ‘900 italiano. Si occupa di teoria letteraria e di critica postcoloniale. Ha pubblicato saggi sulla cultura italiana all’estero e sulla letteratura australiana contemporanea, ha tradotto il romanzo di Mudrooroo, Gatto selvaggio cade (Le Lettere, Firenze) ed ha contribuito a diversi volumi di critica letteraria pubblicati da Costa & Nolan (Genova), Rodopi (New York/Amsterdam), Jaca Book (Milano) e Monash ePress, (Melbourne). Ha svolto attività di insegnamento nelle scuole italiane e, presso il Consolato d’Italia a Zurigo, nei Corsi di lingua e cultura italiana e al Liceo artistico italo-svizzero Freudenberg.