Quello che vogliamo raccontare è un progetto che si sarebbe dovuto realizzare nel febbraio 2020 e che, dopo più di un anno di modifiche e dislocazioni, troverà finalmente compimento tra maggio e giugno 2021, nel luogo in cui era nato. Che ci faccio io qui? aprirà gli spazi della Pinacoteca Nazionale di Bologna agli adolescenti: il museo della città, casa della storia dell’arte bolognese, diventa “ampia scuola” accogliendo e collezionando i pensieri e i gesti dei cittadini più giovani, messi sistematicamente tra parentesi in tempi di pandemia.
Che ci faccio io qui? nasce dopo aver maturato diverse esperienze di accessibilità agli spazi culturali della città, in particolare nell’ambito dei percorsi di co-progettazione Ulab e U area for all incentrati sulla zona Universitaria di Bologna e coordinati da Fondazione Innovazione Urbana.
In questi itinerari è emerso in maniera evidente quanto il corpo e la danza siano protagonisti di un processo di apertura salvifica dei luoghi dell’arte e della cultura e suggeriscano modalità inedite di relazione con il sé, l’altro, la comunità e lo spazio pubblico. I primi percorsi In ascolto: pratiche condivise tra corpo, spazio e suono, realizzati nel 2018 con l’associazione MUVet per la città di Bologna (di cui qui riportiamo un primo studio realizzato in collaborazione con il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello nel foyer Rossini del Teatro Comunale e qui un’esperienza a Palazzo Poggi con la coreografa Silvia Berti) hanno coinvolto una ventina di giovani adulti con e senza disabilità, con l’obiettivo di costruire delle mappe esperienziali e cinestetiche della zona universitaria, luogo di attraversamento, poco valorizzato e poco conosciuto dagli stessi studenti.
I laboratori del 2019, realizzati nei luoghi del patrimonio artistico della zona U, hanno preso il titolo Nel museo, sottopelle a sottolineare la prospettiva fortemente incentrata sul corpo come strumento di conoscenza e avvicinamento all’arte e ai suoi spazi. Abbiamo lavorato in questa occasione sull’accessibilità museale sperimentando diverse possibilità di relazione con la Collezione di Zoologia, la Collezione di Anatomia Comparata (del Sistema Museale di Ateneo – Unibo), la Pinacoteca Nazionale di Bologna e Palazzo Pepoli Campogrande. Abbiamo fatto ricorso a un approccio “di ricerca” che accomuna artisti, scienziati, bambini/e e cittadini/e attenti, approccio che il corpo stesso suggerisce nel mettersi in relazione al mondo, fin dalla sua nascita [1].
Abbiamo preso in prestito, per l’incipit di ogni incontro, un esercizio di experiential anatomy dalle lezioni di Body-Earth di Andrea Olsen: entrare in uno spazio con attenzione e cura al sé in dialogo con l’ambiente, concentrandosi sul proprio modo di stare nello spazio e, cogliendo le diverse sfaccettature del landing, approdare in un luogo [2]. “Praticando l’arrivo”, immediato è il bisogno di ognuno di infilarsi prima “nei luoghi del proprio corpo” per osservare, con questo filtro, il fuori da sé ogni volta in un modo leggermente diverso: a occhi chiusi, a occhi aperti, notando i dettagli delle architetture o l’insieme del paesaggio, provando a concentrarsi sui suoni, i colori, gli odori, raccontandolo con parole un flusso di coscienza, percependo uno stato d’animo che muta nel tempo.
Ognuno, in questa cornice, ha avuto modo di “prendere posizione” e compiere scelte personali, cogliendo e restituendo agli altri ciò che emergeva come significativo. Il confronto con gli altri punti di vista arricchisce un sapere collettivo, co-costruito e compartecipato. Tale attitudine sperimentale, di ricerca e scambio, propria del bambino/a “scienziato del quotidiano” che conosce e impara in un dialogo poroso con l’ambiente e il gruppo, sarebbe utile da recuperare nella scuola di oggi, come nelle scuole-laboratorio che si possono inaugurare in qualsiasi luogo della città, anche con persone di diverse età (in una logica di formazione continua). Ogni individuo cresce e sviluppa autonomia di movimento, espressione e relazione solo se lasciato agire, sostenuto dall’adulto e dal contesto, ma libero di provare, indugiare, perdere tempo, immaginare, senza dover dimostrare di raggiungere obiettivi prefissati da altri, slegati da esigenze o desideri personali.
Per crescere “cittadini attivi” occorre intraprendere dei percorsi di autodeterminazione, combattere il conformismo e i sistemi che reiterano ineguaglianze e riproduzione del potere, inventando «tecniche di liberazione», come suggerisce Christian Raimo, riprendendo i pedagogisti critici per «ragionare politicamente a scuola» (Raimo, 2020). In questa direzione la scuola dovrebbe orientarsi, invece di ripetere modelli omologanti che impongono una attitudine prona. Allo stesso modo, fuori dalla scuola, gli spazi della città devono permettere a ognuno di «essere autonomo nell’agire e di sviluppare competenze all’interno della dimensione relazionale»: la città deve farsi, cioè, cornice accogliente non solo accessibile «ma inclusiva nelle sue parti, nella continuità dell’esperienza della città» (Fornasari, 2021) per far crescere bambini e adulti consapevoli e partecipi del bene comune.
In questo periodo di emergenza sanitaria è evidente lo svuotamento dello spazio pubblico con la chiusura delle piazze, dei musei, dei parchi, delle scuole: limitazioni delle libertà personali di movimento e di espressione. Sono occasioni sfumate di relazione e incontro, di scambio tra pari. Sembra quasi di vivere ne La città ideale del Leon Battista Alberti: “città vuota del vivente”. Organismi perfetti e senza vita, funzionali, efficaci, la attraversano come spettri. Nessuna orma, nessun errore è concesso, nessun odore, un solo sguardo: assoluto e gerarchico. È ora evidente anche il disagio che tutto questo comporta nella società e nelle persone: «senza uno spazio collettivo siamo solo corpi contenuti e contenibili»; se «l’ambiente domestico ci rende individui […] è quello pubblico che ci rende soggetti» (Cagiagli, 2020).
Occorre quindi tornare ad abitare questi luoghi, a riviverli, insieme.
I luoghi sospesi del patrimonio artistico possono diventare oggi più che mai luoghi di socialità e formazione, “luoghi trampolino” per saltare da dove sono a dove potrei essere. Scuole e musei sono per loro natura luoghi porosi, di scambio e problematizzazione, proprio qui però, ancora troppo spesso, il corpo è il grande assente: dimenticato il più delle volte fuori dalla porta. Ci si interroga abbastanza sulla piacevolezza dello “stare” in classe o di fronte a un’opera? La riscoperta del luogo è riscoperta di un corpo assopito e negato, il suo ingombro è riconquista dello spazio sociale da parte di cittadini attivi. Al museo non c’è fretta, non ci sono banchi a cui sia obbligatorio sedersi, né cattedre che stabiliscano una supremazia, possiamo godere del tempo, spiegare pazientemente alle maschere che sedere o sdraiarsi sul pavimento è una possibilità, non una mancanza di educazione: “conosciamo i codici e, delicatamente, li sovvertiamo, basta molto poco. Basta un gesto, concreto, di carne e desiderio, perché le sale e le piazze si popolino di cuori, sudori, pensieri” ci diciamo.
Con Che ci faccio io qui? la Pinacoteca Nazionale di Bologna diventa una scuola ampia nella città, un territorio salvifico di relazione e immaginazione dove il corpo c’entra “con tutte le scarpe”, ma poi è autorizzato a toglierle e a mettersi comodo, come nella propria casa. Un luogo storico, abitato da opere di valore inestimabile, si apre a un gruppo di ragazzi/e dei servizi educativi di OfficinAdolescenti e di una scuola di danza di periferia: giovani occhi, braccia, gambe, teste e mani si possono incontrare nelle sale del museo cittadino e mettersi addosso gesti antichi, scoprendone di attuali nei dipinti di secoli fa. Le mani dei ragazzi e delle ragazze invitate ad agire e ascoltare, a prendere confidenza con la bellezza qui custodita, riprendono posture per re-interpretarle, inventare saluti e rituali inediti, per essere insieme, presenti, ancora oggi come comunità [3].
“La Pinacoteca Nazionale è enorme, possiamo naufragare nelle sue sale, incontrare mostri, giganti e amici. Superata la soglia, intercettiamo gli occhi de La Fornarina che ci guarda, ne L’estasi di Santa Cecilia di Raffaello, come a chiedere il nostro parere” dice Irene, 14 anni, che ci accompagna dai primi sopralluoghi al museo. Nel museo, che è ampia scuola, possiamo osservare i dettagli del gesto, incorporarli, fare esperienza di tutte quelle microscopiche o macroscopiche modifiche di cui abbiamo bisogno perché diventi parte di noi. Mettendoci addosso posture e figure antiche, stratificandole nel corpo anche solo sostando nei pressi delle opere, frequentando i luoghi preziosi in cui sono custodite, tornando ripetutamente a visitarle e a mostrarle ad altri, ne facciamo esperienza in maniera profonda.
Imitando posture e gesti altrui quello che accade non è semplicemente una copia del movimento dell’altro ma è «trasmissione e risonanza, imitazione consapevole e gioco della variazione» (Sieni, 2021) dove si compone e solidifica la relazione. Nel fare insieme si recupera quel “terreno risonante” di cui pecca la comunicazione digitale, costituita da «camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower […] rafforzano solo l’eco di sé» (Han, 2021).
A questo punto interviene la danza che elegge il corpo a soggetto e strumento creativo, a “terreno comune” di scambio e relazione. Il corpo e il suo movimento sono luogo di indagine, di ricerca, di comunicazione accogliente, di autodeterminazione. Chiunque abbia un corpo può danzare: la danza è, infatti, una modalità di conoscenza ed esperienza del mondo democratica, per cui i danzatori sono tutti i cittadini e le cittadine (di varie età e abilità) che percepiscono attraverso i sensi, si possono esprimere, muovere nello spazio, possono comunicare, attraversare la strada, fermarsi a guardare… Discrimine rispetto a un agire ordinario è la consapevolezza del gesto che si compie, la sua gratuità rispetto al produrre qualcosa o essere funzionale a un accadimento. Focalizzandoci sull’azione del guardare, anche il come osservo può modificare il mio modo di stare ed essere in relazione al fuori.
L’atto di guardare, in tempi di pandemia soprattutto, diventa tattile: ci orienta negli spazi che non frequentiamo abitualmente (dove siamo spaesati) e ci mette in ascolto del corpo. Dirigere con consapevolezza lo sguardo modifica la postura e predispone ad accogliere il mondo. Allenare la vista a uno sguardo periferico, capace di vagare e cogliere l’imprevisto, non fisso su un punto predeterminato di cui fruire passivamente, permette di accrescere il nostro sapere e la nostra consapevolezza. Posare uno sguardo morbido su un quadro, entrare in Pinacoteca con un’attitudine aperta, andando oltre una percezione ingessata del luogo che tanto ricorda per regole di accesso una banca, ci permette di osservare i dettagli dell’abbigliamento e degli accessori degli arcangeli del Manierismo con un sorriso, perché ci richiamano oggi icone gender fluid anche loro tenaci combattenti, aggiornati agli anni Duemila.
Crediamo sia urgente nutrire di esperienze questo “sguardo tattile”, per leggere l’ambiente in maniera critica e conoscere l’altro senza pregiudizi, per andare oltre gli stereotipi di ciò che l’occhio si aspetta di vedere. Le neuroscienze ci spiegano a tal proposito che: «quello che succede è che il cervello si aspetta di vedere qualcosa, sulla base di quanto è successo prima e di quanto sa. Elabora un’immagine di quanto prevede gli occhi debbano vedere. Questa informazione è inviata dal cervello verso gli occhi, attraverso stadi intermedi. Se viene rilevata una discrepanza fra quanto il cervello si aspetta e la luce che arriva agli occhi, solo in questo caso i circuiti neurali mandano segnali al cervello. Dagli occhi verso il cervello, cioè, non viaggia l’immagine dell’ambiente osservato, ma solo la notizia di eventuali discrepanze rispetto a quanto il cervello si attende» (Rovelli, 2020). Porre lo sguardo nella condizione di problematizzare il circostante, cogliendo l’inatteso, diventa allora necessario per produrre narrazioni altre, proprie, originali di ciò che esiste, così che lo spazio di attraversamento possa diventare luogo di esperienza vissuta.
Che ci faccio io qui? si inserisce nella progettazione di MUVet, associazione che sviluppa azioni negli spazi pubblici di Bologna dal 2016. Questi interventi coinvolgono, attraverso la danza, una comunità educante allargata partecipe del bisogno di abitare e ricostruire dei più giovani. L’osservare attraverso il corpo, coinvolgendo tutti i sensi, attraverso lo stare e il gesto, trasforma il museo, come la città, in scuola, intendendo come ‘scuola’ un dove e un quando in cui possono accadere esperienze concrete che partecipano alla formazione dell’individuo e della comunità stessa. Nell’esperienza che si svilupperà in Pinacoteca con gli adolescenti la pratica dello scegliere il proprio punto di osservazione, del collocarsi nello spazio e rispetto alle altre persone, il portare a condivisione e poi a proposta sono “processo e sostanza dell’apprendere”[4]. Gli atti di osservare, attraversare e stare sono strumento di conoscenza che porta curiosità e quindi desiderio.
Semplici esercizi saranno offerti come incipit di un laboratorio che troverà una restituzione video, anche se l’intenzione iniziale – e parte integrante del progetto (pre-Codiv) – era quella di condividere con utenti occasionali del museo e persone invitate appositamente visite guidate costruite, nella scelta dei linguaggi e degli itinerari, dai ragazzi e le ragazze coinvolti e coinvolte nel percorso [5]. Si potranno così aprire nuovi orizzonti di possibilità, nella città come nel museo, lasciando spazio a ognuno di collocare lungo questo percorso i “propri” significati, creando un dialogo in continua evoluzione tra individuo-gruppo-ambiente. Tale prospettiva fluida tra individuo e ambiente ci aiuterà a lasciar emergere da ogni partecipante una personale visione del museo e della propria città; ogni punto di vista verrà condiviso (anche se in questa prima fase a mezzo video) con il resto della comunità: famiglie, coetanei e tutta la cittadinanza.
Non sappiamo ancora dove approderemo, ma certo è che il tempo nel museo, che può essere definito come tempo di inoperosità (Agamben, 2018), ci permette di respirare, radicarci, scivolare e aprire un interstizio di domande che nascono dall’esperienza. Ogni persona ha la sua curiosità che segue vie impreviste, le domande hanno bisogno di affiorare e le risposte di essere cercate. In questo la disponibilità e la pazienza delle persone della Pinacoteca Nazionale di Bologna (che abbiamo avuto modo di testare in questi mesi di slittamento del progetto) sono una preziosissima risorsa, in quanto conservano sia una conoscenza tecnica e storica delle opere, sia quel bagaglio infinito e meraviglioso di aneddotica che non troveremo in nessun libro, che passa di bocca in bocca, composta di affetti, accadimenti e qualche segreta superstizione e che permette una vicinanza immediata.
Il dialogo, la possibilità di intervista informale a chi è profondamente esperto della materia, permette di galleggiare tra citazioni colte e licenze poetiche offrendo tessere di un mosaico che possono essere composte in infinite mappe. A questo punto, agendo con sguardo, tatto, olfatto, come stati dell’accogliere, e posticipando il parlare, come atto del nominare e definire, possiamo, anche nel Museo, in questo Museo, che è luogo di definizione per eccellenza, permetterci di godere del «felice risultato di una combinazione imprevista di situazioni o di oggetti organizzati conformemente alle regole d’armonia dettate dal caso» (Clément, 2019), dove il caso è ciò che scaturirà dall’interazione tra le persone e il luogo. Diventa quindi possibile giocare con i canoni di bellezza che hanno attraversato i secoli, parlare dei nostri senza dare per scontato nulla.
E, finalmente: «non essendoci un canone di bellezza prestabilito, cos’è la bellezza se non un atto profondo di attenzione e desiderio di comprensione verso gli altri?» (Sieni, 2021). Si apre dunque la concreta possibilità di scoprirsi comunità per un momento, un gruppo che si autodefinisce in base alla curiosità, all’abitare un luogo nuovo e antico, spazio pubblico a volte indecifrabile, che vive la condivisione delle ipotesi, delle domande, delle risposte. Che si riconosce in una relazione emotiva che risuona nel gesto, dove anche lo sguardo è gesto, che può abbandonare la dicotomia adulto-ragazzo lasciando spazio ad una partecipazione, tutti “vagabondi efficaci” (Deligny, 2020) allo stesso modo.
Ci domandiamo infine e rilanciamo al lettore il quesito: l’atto di abitare e attraversare il Museo ricorrendo al movimento e al gesto come mediatore, cosa pubblica di ognuno, patrimonio frequentabile senza profitto, può essere “un passo” in relazione con lo stare nella città, nel quotidiano, aprendo possibilità di immaginazione inaspettate? Possibilità di prefigurare un presente, un futuro prossimo e anche uno anteriore diverso da quanto predeterminato, di percorrere le piazze, cantarle, divorando quella “città ideale” dell’Alberti e discutendo su quale forma abbia preso oggi? Non per distruggere, ma per proporre e realizzare. Il nostro sguardo si rivolge fuori dalla pagina ora. In attesa del punto di vista di chi legge.
Note
[1] Una «ricerca globale coinvolgente tutta la persona a somiglianza sostanziale di quella condotta dal bambino nei primi anni di vita» che si scontra con la gravità appena incontra la realtà e che continua fino all’età adulta, nell’incorporazione come ricerca «che potrebbe essere continua in un’ipotesi di educazione permanente» (Canevaro, 1974).
[2] Vedi i materiali contenuti QUI
[3] «La comunità rituale è una corporazione (Körperschaft); nella comunità in quanto tale è insita una dimensione corporea. la digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poiché da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è una comunicazione decorporeizzata» (Han, 2021).
[4] «Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: gli insegna a confondere processo e sostanza. Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica: quanto maggiore è l’applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole: l’escalation porta al successo. In questo modo si “scolarizza” l’allievo a confondere insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo. Si “scolarizza” la sua immaginazione ad accettare il servizio al posto del valore» (Illich, 2010).
[5] «Con il termine ‘percorso’ si indicano allo stesso tempo l’atto dell’attraversamento (il percorso come azione del camminare), la linea che attraversa lo spazio (il percorso come oggetto architettonico) e il racconto dello spazio attraversato (il percorso come struttura narrativa). Noi intendiamo il percorso come forma estetica a disposizione dell’architettura e del paesaggio» (Careri, 2006).
Bibliografia
Agamben G., Homo sacer, Quodlibet, Roma 2018.
Cagiagli C., Vivere senza spazi pubblici, in «Jacobin Italia», primavera 2020.
Canevaro A., Il corpo come linguaggio in AAVV, A scuola con il corpo, Quaderni di cooperazione educativa n.8, La Nuova Italia, Firenze 1974.
Careri F., Walkscapes, Einaudi, Torino 2006.
Clément G., Breve trattato sull’arte involontaria, Quodlibet, Roma 2019.
Deligny F., Vagabondi Efficaci, Edizioni dell’asino, Milano 2020.
Fornasari F., Spazio pubblico: comunità, luoghi, narrazioni, in «Vedere oltre» n. 2, aprile 2021.
Han B., La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano 2021.
Illich I., Descolarizzare la società, Mimesis, Milano 2010.
Raimo C., Imparare tecniche di liberazione, in «Jacobin Italia», n.9 inverno 2020.
Rovelli C., Helgoland, Adelphi, Milano 2020.
Sieni V., a cura di Stella D., Progettare scalzi, Maschietto editore, Firenze 2021.
Gaia Germanà è insegnante di danza e assistente alla coreografia per l’Accademia sull’arte del gesto di Virgilio Sieni. È stata docente a contratto per la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Università di Bologna. Promuove la cultura della danza come strumento di conoscenza ed espressione personale e mezzo per creare comunità. Porta avanti una sperimentazione sui processi creativi tra movimento, spazio e suono, con l’associazione MUVet a Bologna, in dialogo con il Festival Oriente Occidente (Rovereto) sui temi dell’accessibilità.
Daina Pignatti è un’attrice prestata alla danza. Si occupa di corpi ed espressione con particolare attenzione alla partecipazione; si muove in ambito urbano, naturale, museale creando connessioni tra il patrimonio culturale, l’ambiente e i suoi abitanti di ogni specie, età, abilità, disabilità, genere. Diplomata in ANAD S. D’Amico, è assistente alla coreografia per l’Accademia sull’arte del gesto di Virgilio Sieni e co-fondatrice dell’esperienza educativa libertaria Fucina Buenaventura. Dal 2016 è parte di MUVet.