Più d’uno, come faccio senz’altro io, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere.” (M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, BUR, Introduzione, p. 25)
L’idea di proporre questo articolo mi è nata un paio di mesi fa, mentre stavo preparando una lezione per un master universitario. Una riflessione sulla scrittura. Più precisamente sul modo in cui la scrittura di ricerca o scientifica sia in primis una forma di narrazione, anzi a volte corrisponda a un vero e proprio genere letterario. Il senso dell’intervento che stavo preparando era in effetti quello di penetrare e esplorare, in dialogo con la classe, un nodo piuttosto problematico, cioè la relazione tra soggettività, emozione e scrittura, e di farlo prendendo come punto di vista “privilegiato” quello dell’antropologia contemporanea, che ha sviluppato soprattutto a partire dagli anni ’80 una profonda riflessione sulle proprie modalità di scrittura (di in-scrizione, di rappresentazione) di sé e dell’altro, e soprattutto su quella forma di censura della soggettività e delle emozioni dello studioso, che ha caratterizzato (e per certi versi caratterizza ancora) l’approccio “classico” alla ricerca e alla scrittura.
Quello che mi preme sottolineare ora, in questa breve premessa, è il rilievo emozionale che ha caratterizzato il processo di costruzione di quella “lezione”, coerentemente con il suo oggetto, dal momento che esso costituisce la trama di tutta la mia ricerca personale e professionale – se non l’oggetto esplicito e dichiarato della mia ricerca, sicuramente il suo doppio, la sua ombra inseparabile, visibile in filigrana in ogni tratto del percorso – e che per la prima volta stavo cercando di “tradurlo” in una “lezione”, per un gruppo di studenti che non avevano, per la maggior parte, un background antropologico. La relazione tra scrittura, soggettività e emozione (e dunque corpo) ha così assunto, nella consapevolezza di me come docente durante quella lezione, non solo il ruolo di oggetto di una ricerca o di un intervento, ma è divenuta parte dell’approccio stesso, portandomi a esplicitare la forza metodologica che può scaturire dall’”usare”, cioè dal mettere in gioco in modo consapevole, la soggettività e l’emozionalità dello studioso nel suo processo di scrittura o di racconto. Il confronto con la classe è stato particolarmente intenso, e per questo avevo deciso di proporre questo intervento, per roots§routes, articolandolo in un montaggio di testi e citazioni che ricostruissero il senso di una riflessione interdisciplinare su questa tematica, accostati ad alcuni estratti audio della “lezione”, che restituissero quel rilievo emozionale nel momento stesso del suo mostrarsi (come metodo). Purtroppo il file audio della lezione è andato perso. Ho dovuto così mio malgrado rinunciare a questo progetto, o meglio alterarlo, trovare un altro modo per rendere il senso dell’operazione. Di certo non è più possibile recuperare quella sorta di teatralità, di “innocente” tatticità, di “immediatezza” che, sola, appartiene alla voce (le virgolette fanno riferimento a un’accezione barthesiana di queste parole, che tra poco chiarirò). Il senso di pubblicare degli estratti audio della lezione voleva essere teso a evitare quello che Roland Barthes chiama “il trabocchetto della scrizione”, non avendo alcuna intenzione di trascrivere la lezione, ma proprio di restituirla in tutta la sua densità emozionale: “l’innocenza è sempre esposta; riscrivendo quello che abbiamo detto, ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo, depenniamo le nostre sciocchezze, le nostre sufficienze (o insufficienze), le nostre esitazioni, le nostre ignoranze, i nostri compiacimenti, a volte perfino le nostre pannes (perché, parlando, non dovremmo avere il diritto, su un dato argomento proposto dal nostro partner, di restare a secco?), insomma tutta la marezzatura del nostro immaginario, il gioco personale del nostro io; il parlato è pericoloso perché è immediato e non si può riprendere (salvo non si supplementi di una ripresa esplicita); la scrizione invece ha tempo davanti a sé; ha proprio quel tempo che occorre per poter girare sette volte la lingua in bocca; scrivendo ciò che abbiamo detto, perdiamo (o conserviamo) tutto ciò che divide l’isteria dalla paranoia”1. Intendo dunque fuggire dalla trappola della tra-scrizione, nel senso in cui la intende Roland Barthes, se non altro per il fatto che costruirebbe un ordine potente, una strategia contro la tatticità del parlato, perché permette e sfrutta “qualcosa che ripugna al linguaggio parlato e che in grammatica si chiama la subordinazione: la frase diventa gerarchica”2. Ma allo stesso modo non vorrei comporre intorno a questo argomento una scrittura, un luogo cioè nel quale “ciò che è troppo presente nel parlato (in maniera isterica) e troppo assente nella trascrizione (in maniera castrante), e cioè il corpo, ritorna ma per via indiretta, misurata, e per dir tutto giusta, musicale, tramite il godimento e non l’immaginario (l’immagine)”3. Non vorrei cioè neanche costruire un testo, articolare un pensiero o un’argomentazione lineare su questo tema4, ma lasciare la trama di questo intervento in qualche modo aperta all’immaginario di chi legge o ascolta. Ci sono forse altri modi per far penetrare la scrittura dalla voce? Roland Barthes a proposito della scrittura dell’intellettuale si chiede “chi” è che scrive, chi parla dietro la scrittura. Qual è il posto della soggettività e del corpo del soggetto che in-scrive il suo discorso in un testo teorico o di ricerca? Vorrei cercare di tessere una sorta di conversazione in contumacia con diversi studiosi che si sono occupati di questo tema da diverse prospettive, con diversi linguaggi, lasciando ampio spazio alle loro voci, anche a quelle meno ascoltate.
“Constatavo con disappunto che nessuno [dei libri che parlano di Fotografia] mi parlava espressamente delle foto che mi interessano, che mi danno piacere o emozione. Cosa me ne facevo delle regole di composizione del paesaggio fotografico, oppure, all’opposto della Fotografia come rito familiare? Ogni volta che leggevo qualcosa sulla Fotografia, pensavo a quella particolare foto che amavo, e questo mi faceva andare in collera. Infatti io non vedevo altro che il referente, l’oggetto desiderato, il corpo prediletto. (…) In poche parole, io mi trovavo in un vicolo cieco e, se così posso esprimermi, ero «scientificamente» solo e sprovveduto.
Mi dissi allora che questo disordine e questo dilemma riflettevano bene uno stato di disagio che mi era noto da sempre: quello di essere un soggetto sballottato fra due linguaggi, uno espressivo, l’altro critico; e in seno a quest’ultimo, ero sballottato fra vari discorsi: quelli della sociologia, della semiologia e della psicoanalisi – solo che, attraverso l’insoddisfazione che in ultima istanza provavo nei confronti degli uni e degli altri, io attestavo dell’unica cosa sicura che vi era in me: la disperata resistenza verso ogni sistema riduttivo. (…)
Decisi perciò di assumere come punto di partenza della mia ricerca solo poche foto: quelle che ero sicuro esistessero per me. Niente a che vedere con un corpus: solamente alcuni corpi. In questa controversia tutto sommato convenzionale tra la soggettività e la scienza, maturai un’idea bizzarra: perché mai non avrebbe dovuto esserci, in un certo senso, una nuova scienza per ogni oggetto? (…) Ho deciso di prendere per guida la coscienza del mio turbamento“5.
Estratto da una mia lettera privata.
(La poesia, l’emozione distillata nella scrittura. La poesia che è quasi un gesto, più che un racconto, che è voce, la vibrazione di una gola di carne… “una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore”6. Probabilmente è da quella stanza, da quella censura, che ho iniziato ad occuparmi di tutto questo.)
La problematicità del nesso tra soggettività, emozione e scrittura/ricerca (“scientifica”) è tutta stretta dentro il nodo cartesiano che vincola il corpo e la mente in luoghi e intenzioni radicalmente separati, e che ha fondato la nascita e lo sviluppo della cultura scientifica europea. Il neuro-scienziato Antonio Damasio considera Cartesio il “simbolo di una serie di idee sul corpo, sul cervello e sulla mente che in un modo o nell’altro continuano a influenzare la scienza e la cultura occidentali. A me provocano disagio sia la concezione dualistica per la quale Cartesio scinde la mente dal cervello e dal corpo, sia le varianti moderne di essa (…). Qual era, allora, l’errore di Cartesio? O meglio, quale errore di Cartesio io intendo isolare, senza rispetto né gratitudine? (…) Il «Penso, dunque sono». L’enunciato, il più famoso di tutta la storia della filosofia (…), preso alla lettera esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero riguardo alle origini della mente e riguardo alla relazione tra mente e corpo; esso suggerisce che il pensare, e la consapevolezza di pensare, siano i veri substrati dell’essere. E siccome sappiamo che Cartesio immaginava il pensare come un’attività affatto separata dal corpo, esso celebra la separazione della mente, la «cosa pensante» (res cogitans), dal corpo non pensante, dotato di estensione e di parti meccaniche (rex estensa)”7.
Se non ci fosse la possibilità di sentire gli stati corporei, piacevoli o dolorosi, non sarebbe possibile sperimentare alcun senso del sé o dell’altro, alcun desiderio, e soprattutto non sarebbe possibile produrre significato: “stupefacente! […] Provate a immaginare di non sentire piacere quando contemplate una pittura che vi piace, o quando ascoltate uno dei vostri brani musicali preferiti. Provate a immaginarvi completamente privati di tale possibilità, e tuttavia ancora consapevoli del contenuto intellettuale dello stimolo visivo e sonoro, e consapevoli anche del fatto che una volta vi dava piacere. Sapere ma non sentire”8. Le emozioni hanno un fondamentale ruolo cognitivo, di produzione di conoscenza, attraverso una configurazione della relazione tra mente e corpo che Damasio definisce come “mente incorporata”. Solo pochi anni prima, l’antropologo statunitense Thomas Csordas9 propone di utilizzare come nuovo paradigma della ricerca antropologica sul corpo proprio il concetto di incorporazione, inteso come quel processo continuo di relazione, costruzione e rappresentazione che coinvolge il modo in cui un soggetto abita il proprio corpo e, tramite esso, il mondo. Una prospettiva epistemologica che porterà un rivolgimento radicale nel modo in cui in particolare l’antropologia medica sarà in grado di leggere alcuni fenomeni che riguardano la corporeità10, ma soprattutto nel portato implicito di questo concetto. Cioè il fatto che il concetto di incorporazione riguarda il corpo stesso del ricercatore. Sarebbe necessario (e utile) arrendersi al fatto che qualsiasi studio (non solo del corpo) è in effetti sempre uno studio dal corpo, prodotto e messo in scena da soggetti incorporati, da ricercatori che non solo accumulano e elaborano un capitale di conoscenza, ma che nel farlo assumono una disposizione incorporata, cioè ricevono, interpretano e producono conoscenza scientifica attraverso la propria esperienza corporea.
“Il conflitto provato dall’osservatore, che deriva dal fatto che studiando soggetti umani egli studia inevitabilmente se stesso, spiega perché si inventano tante manovre per tentare di aumentare il distacco e garantire un’obiettività che inibisce persino la coscienza creatrice della solidarietà dell’osservatore con i soggetti. (…) La struttura del carattere del ricercatore, che comprende anche i fattori soggettivi che determinano la sua visione scientifica, influenza profondamente i dati e i risultati della ricerca. […] L’estraneo e l’ignoto affascinano la mente umana, e la spingono a colmare le lacune della conoscenza con la proiezione, cioè con i prodotti dell’immaginazione, troppo facilmente accettati da tutti come fatti reali”11.
“Pensare e scrivere è un processo estremamente fisico che costantemente parla del corpo e al corpo della persona che scrive. Di nuovo, quel corpo non indica semplicemente un terreno individuale; è il luogo dove si incontrano individuo e società”12.
“Io non posso mostrare la Foto del Giardino d’Inverno. Essa non esiste che per me. Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente, una delle mille manifestazioni del qualunque; essa non può affatto costituire l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare un’oggettività, nel senso positivo del termine; tuttalpiù potrebbe interessare il vostro studium: epoca, vestiti, fotogenia; ma per voi, in essa non vi sarebbe nessuna ferita”13.
Estratto da una mail indirizzata al Prof. Massimo Canevacci, relatore della mia tesi di dottorato.
“C’è qualcosa di stravagante nel costruire dei testi apparentemente scientifici partendo da esperienze ampiamente biografiche, il che è, dopotutto, ciò che gli etnografi fanno.”14
“Il linguaggio è questo paradosso: l’istituzionalizzazione della soggettività.”15
Geertz verso la fine degli anni ‘8016 definì la scrittura etnografica come un genere letterario, suscitando qualche imbarazzo nei difensori dell’antropologia “classica” e dei suoi canoni di scientificità, centrati sulla ricerca (pressoché impossibile) di una forma di oggettività trasparente nelle sue modalità di rappresentazione. Secondo Geertz piuttosto l’etnografia è letteralmente una forma narrativa, un genere letterario con delle regole e degli stili retorici, ai quali ci si aspetta che lo scrittore (l’etnografo) si adegui. (Il cambiamento all’interno della disciplina antropologica introdotto da Geertz e poi approfondito e radicalizzato dal gruppo di Writing Cultures17 è piuttosto radicale, e riguarda non solo le modalità di scrittura, ma l’autorità stessa dell’antropologo nel costruire una forma di conoscenza “scientifica” su una cultura “altra”, ed è fondato su uno slittamento in senso semiotico del concetto stesso di cultura18).
“Introdurre se stessi nel testo (cioè introdursi, in modo tale da essere poi parte stessa della rappresentazione nel testo) può essere per gli etnografi tanto difficile quanto introdurre se stessi nella cultura di cui si occupano […]. Nonostante ciò, tutti gli etnografi riescono in un modo o nell’altro ad ottenere questo risultato […]. Ci sono libri molto noiosi in antropologia, ma pochi, se non nessuno, sono solamente mormorii anonimi. […] L’incertezza che, per ciò che riguarda la firma, sta nel problema di decidere fino a che punto ed in che modo invadere il proprio testo, per ciò che riguarda il discorso sta invece nel decidere fino a che punto ed in che modo farne una composizione immaginativa”19.
La questione dell’incorporazione è particolarmente cruciale per l’antropologia e le scienze sociali in generale, che si fondano in modo esplicito sulla relazione tra soggetti e tra sguardi (tra corpi). Eppure il rilievo corporeo, emozionale, nella costruzione della conoscenza etnografica è stato a lungo considerato un peso, un ostacolo per l’acquisizione di una conoscenza “oggettiva”, e per questo rimosso sia nella pratica della ricerca che nella sua rappresentazione attraverso la scrittura, assieme agli aspetti più chiaramente narrativi delle descrizioni etnografiche (come i racconti idilliaci del “primo incontro” tra l’antropologo e la popolazione “oggetto” delle sue analisi, posizionati di norma nelle introduzioni20): le emozioni, gli aspetti sensuali, i sentimenti, il dolore che il ricercatore sperimenta necessariamente durante il suo percorso di studio e di ricerca sono stati a lungo ignorati nel loro essere strumenti di conoscenza e relegati nei diari di campo (di norma non destinati alla pubblicazione), o tuttalpiù nelle note e nelle introduzioni, nelle quali ci si poteva permettere una rapida sortita nel mondo insidioso della narratività, giocando tra rappresentazione e evocazione (un mondo al quale non veniva assegnata alcuna scientificità, ma invece l’autorità – questa sì! – che fondava in modo retorico la credibilità dell’antropologo, la certezza per il lettore del suo “essere stato là”). E dunque non si tratta esattamente di una “rimozione”, quanto piuttosto di una “repressione”, di uno spostamento in un differente luogo dell’affetto, un luogo “altrove”, marginale, invisibile, censurato, rassicurante.
Durante la sua ricerca in Nuova Guinea e nelle Isole Trobriand tra il 1914-15 e il 1917-18, Bronislaw Malinowski, oltre a redigere i suoi appunti di campo che daranno successivamente vita a Argonauti del Pacifico Occidentale, il Resoconto Etnografico ufficiale (in lingua inglese, la lingua dell’Accademia), ha tenuto un Diario (in polacco, la lingua madre…) che non era in alcun modo destinato alla pubblicazione, dove appuntava i suoi tormenti notturni, i sogni e i desideri che lo turbavano nel suo soggiorno etnografico. La pubblicazione del diario avvenne solo nel 1967, più di venti anni dopo la sua morte, facendo esplodere la questione della dimensione emozionale dell’incontro etnografico e l’ineliminabile dimensione corporea della ricerca, e dunque la centralità della dimensione soggettiva nella relazione con l’altro e nella sua rappresentazione, e mandando definitivamente in pezzi l’immagine identitaria unificata che emerge dal testo etnografico ufficiale – costruita con una forte rigidità monologica forse anche per arginare l’angoscia generata dal timore della disgregazione del proprio sé nell’incontro con l’altro.
Estratti da B. Malinowski, Giornale di un antropologo, Armando Editore, 1992 (ed. or. A Diary in the Stricte Sense of the Terme, 1967).
Renato Rosaldo e sua moglie Michelle, anche lei antropologa, hanno fatto ricerca presso gli ilongot, nelle Filippine, per trenta mesi, nel 1967-69 e poi nel 1974. Il rituale della “caccia alle teste” è considerato la più importante pratica culturale dagli stessi ilongot (oltre che dai vicini e dagli etnografi). L’incipit di Cultura e verità, di Renato Rosaldo, segna la traccia conclusiva di questo processo associativo – volutamente frammentario e parziale – intorno alla relazione tra soggettività, emozione e scrittura/ricerca, e ai conflitti che suscita.
“Se si domanda ad un anziano uomo ilongot del Luzon settentrionale (Filippine) perché taglia teste umane, la sua risposta sarà breve e senza dubbio nessun antropologo riuscirà con facilità a interpretarla in forma più esplicita. Egli dirà che la rabbia, nata dal dolore, lo spinge a uccidere gli esseri umani suoi simili. Infatti – affermerà – ha bisogno di un luogo “su cui rivolgere la sua rabbia”: perciò l’atto di troncare la testa della vittima e lanciarla in aria gli consente di sfogarsi e – così almeno spera – liberarsi dalla rabbia del suo stato di lutto e privazione. Sebbene il compito dell’antropologo sia di rendere intelligibili le culture altre, in questo caso porre ulteriori domande non lo aiuterà a portare alla luce alcuna spiegazione più chiara di questa concisa affermazione dell’uomo. Per lui dolore, rabbia e taglio delle teste sono connessi in modo ovvio, che voi lo capiate o no. E in effetti, per moltissimo tempo, io non riuscivo a capirlo.
Nelle pagine che seguono, vorrei discutere del modo in cui parlare della forza culturale delle emozioni. La forza emotiva di una morte, ad esempio, non deriva tanto da un mero fatto astratto quanto dalla definitiva rottura di una particolare e intima relazione. (…) Piuttosto che parlare della morte in generale, per riuscire a cogliere l’esperienza emotiva di qualcuno dovremmo tener conto della posizione occupata da ciascun soggetto in un determinato campo di relazioni sociali.
Il mio sforzo di mostrare la forza di una semplice affermazione presa alla lettera va contro le regole classiche dell’antropologia, che preferisce spiegare la cultura mediante il progressivo ‘addensarsi’ di reti simboliche di significati. In genere, chi analizza la cultura non usa il termine forza, ma termini come descrizione densa, multivocalità, polisemia, ricchezza e testualità. La nozione di forza, tra l’altro, mette in dubbio quel comune assunto antropologico secondo cui la parte più significativa dell’essere umano si ritrova nella più densa foresta di simboli e il dettaglio analitico (o ‘profondità culturale’) si identifica con una elaborata spiegazione di una cultura (o ‘elaborazione culturale’). Davvero la gente descrive nei più minuti dettagli ciò che per essa conta di più?”21
“Quando gli ilongot mi narravano di come la rabbia nata dall’infelicità e dalla privazione poteva indurre gli uomini a cacciare teste – e lo facevano spesso – mettevo subito da parte le loro unilineari spiegazioni come troppo semplici, inconsistenti, opache, implausibili, stereotipe e in ogni caso insoddisfacenti. Forse stavo ingenuamente confondendo il dolore con la tristezza; quel che è certo comunque è che non avevo vissuto alcuna esperienza personale in grado di farmi immaginare la potente rabbia che gli ilongot dicevano di trovare nella sofferenza. Perciò la mia incapacità di concepire la forza della rabbia presente nel dolore mi induceva ad andare in cerca di un altro livello di analisi, in grado di fornire una spiegazione più approfondita del desiderio di caccia alle teste provato dagli uomini più anziani. Ho cominciato ad afferrare la forza nascosta nell’affermazione ilongot riguardo al dolore e alla rabbia del cacciatore di teste circa quattordici anni dopo averla registrata e trascritta per la prima volta.”22
“E’ con una certa esitazione che mi accingo a raccontare i fatti che mi hanno indotto a capire quell’emozione, a causa di una sorta di tabù imposto dalla disciplina (…). Se il difetto dell’etnografia classica era quello di passare dall’ideale del distacco all’affettiva indifferenza, quello della riflessività odierna sta nella tendenza dell’Io a immergersi in se stesso, perdendo completamente di vista l’Altro culturalmente diverso. Nonostante tutti questi rischi, in qualità di etnografo devo entrare nel dibattito per chiarire alcuni problemi di metodo.”23
Io ricordo il presagio (poesia di Renato Rosaldo, scritta a Kiangan, nelle Filippine, nel 1981. Traduzione di Massimo Canevacci, originariamente pubblicata in Avatar – dislocazioni tra antropologia e comunicazione, n. 2 – novembre 2001, Meltemi, Roma).
Quello che Rosaldo non riusciva a comprendere era la forza culturale delle emozioni, in questo caso della rabbia contenuta nel dolore, per due ragioni. Sia perché la sua formazione come antropologo lo spingeva ad una osservazione distaccata, svincolata dalla propria esperienza corporea, emotiva, biografica; e sia perché la sua cultura, e in particolare le classi medio-alte della cultura anglo-americana, tendono a ignorare, a negare la rabbia contenuta nel dolore, come quella che può scaturire da un lutto. Solo l’evento tragico della morte accidentale di sua moglie Michelle durante la comune ricerca sul campo gli ha permesso di comprendere la rabbia ingovernabile che si cela dietro il dolore della perdita, permettendogli di esplicitare quella fondamentale dimensione riflessiva del ricercatore che prima d’ora nella ricerca antropologica non era mai stata portata alla sua logica conseguenza, cioè che “si riferisce anche al modo in cui le esperienze di vita possono inibire o favorire particolari forme di comprensione intuitiva”24, e spingendolo a unriposizionamento insieme personale e professionale, che diventerà un posizionamento critico rispetto al metodo antropologico stesso.
“Le etnografie scritte ubbidendo alle norme classiche considerano la morte come un rituale piuttosto che un’esperienza di perdita dolorosa. (…) Le etnografie che riescono in questo modo ad eliminare le emozioni intense non solo distorcono le loro descrizioni, ma eliminano addirittura dalle spiegazioni alcune variabili che potrebbero assumere un ruolo essenziale”25.
“La rabbia ilongot e la mia si sovrappongono, come due circonferenze che tuttavia rimangono in parte separate. Esse non sono identiche. (…) Se utilizzo la mia esperienza personale, lo faccio perché credo che attraverso di essa i lettori possano comprendere meglio la natura e l’intensità della rabbia presente nel dolore degli ilongot rispetto a modalità compositive caratterizzate da un maggior distacco dall’oggetto di studio. (…) A dire la verità questa introduzione (…) è un’espressione di cordoglio, un racconto personale e un’analisi critica del metodo antropologico. Essa abbraccia simultaneamente un insieme di processi, nessuno dei quali è in grado di annullare gli altri.”26
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1 R. Barthes, Dalla parola alla scrittura, in La grana della voce, Einaudi, 1986, pp. 3-4.
2 Ib. p. 5.
3 Ib. p. 6.
4 Cosa che ho già fatto altrove: G. Grechi, La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea, Bonanno, 2010.
5 R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, 1980, pp. 9-12.
6 I. Calvino, Un re in ascolto, in Sotto il sole giaguaro, Einaudi, p. XX.
7 A. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995, p. 337.
8 Ib. p. 85.
9 T. Csordas, Embodiment as a Paradigm for Anthropology, in “Ethos. Journal of the Society for Psychological Anthropology”, vol. 18, n. 1, pp. 5-47.
10 N. Scheper-Hughes, Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia medica critica, in Borofsky R.L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000.
11 G. Devereux, Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, Istituto dell’Enciclopedica Italiana Treccani, Roma, 1984, pp. 277, 335.
12 Trinh Minh-ha, L’intervallo disfatto, in Chambers I., Curti L., La questione postcoloniale, Liguori, Napoli, 1997.
13 R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, 1980, p. 75.
14 C. Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, 1990, p. 17.
15 R. Barthes, Scrittori e scriventi, in Saggi critici, Einaudi, Torino, 2002, p. 147.
16 Facendo una sorta di etnografia degli etnografi nella loro qualità di scrittori, Geertz in Opere e Vite. L’antropologo come autore (Il Mulino, 1990) insiste su alcune questioni “letterarie” che riguardano la scrittura etnografica, nella convinzione che essa abbia qualcosa in comune con quella narrativa.
17 J. Clifford e G.E. Marcus, Scrivere le culture, Meltemi. Roma 2001 (Ed. or. 1986, Writing Culture: Poetics and Politics of Ethnography, University of California Press).
18 Se l’antropologo ha a che fare con un concetto di cultura contestuale, dinamico, testuale, con una rete non statica di sistemi di significato, il suo ruolo non sarà più quello di ricercare spiegazioni di tipo normativo a beneficio di una “scienza sperimentale in cerca di leggi”, bensì quello di “cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un manoscritto straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze”, negoziandone il significato attraverso la propria familiarizzazione all’universo immaginativo entro il quale quel manoscritto viene prodotto. L’etnografia deve dunque sforzarsi di entrare in una relazione dialogica con gli attori sociali, “mettendosi nei loro panni” e mettendone così in luce la “normalità” rispetto alla rete di significati che costituisce il loro contesto culturale. Le interpretazioni dell’antropologo di un sistema di significati devono dunque essere orientate rispetto agli attori che condividono quel sistema, cioè saranno necessariamente interpretazioni di secondo ordine, basate sulle interpretazioni di primo ordine degli attori sociali che condividono quel contesto simbolico. Questo aspetto in particolare mette in evidenza il carattere di costruzione del sapere antropologico, il suo essere una invenzione – nel senso di “qualcosa di fabbricato” – o, per usare la terminologia di Geertz, “un atto immaginativo”, una fictio (C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, 1998).
19 C. Geertz, Opere e Vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, 1990, pp. 25, 27.
20 M. L. Pratt, Luoghi comuni della ricerca sul campo, in Clifford J., Marcus G.E., Scrivere le culture, Meltemi, 2001.
21 R. Rosaldo, Cultura e verità, Meltemi, Roma, 2001, pp. 37-38.
22 Ib. pp. 38-39.
23 Ib. p. 44.24 Ib. p. 59.
25 Ib. pp. 50-51.
26 Ib. pp. 48-49.