CENSORSHIP
Tino Sehgal e felix Gonzales Torres o dell'esercizio dell'auto-censura
di Viviana Gravano

Nel 2009 il Centre Pompidou di Parigi ha acquistato un’opera di Tino Sehgal1 dal titolo This Situation, una performance che prevede sei attori che discutono di diversi argomenti legati alla politica e all’attualità che coinvolgono di volta in volta i visitatori, e che a ogni ingresso di una nuova persona nella sala gridano in coro ” welcome in this Situation”. Sehgal, artista nato a Londra nel 1976 realizza performance che non possono essere documentate in nessun modo né fotograficamente, né in video, non produce testi da dare in mostra e coerentemente con questa linea di condotta, vende le sue opere senza lasciare nessuna traccia scritta della transazione, né ricevute, né contratti o simili. La vendita al Centre Pompidou ha innescato una interessantissima polemica che ha visto il media artist Fred Forest denunciare pubblicamente la poca trasparenza della vendita, appellandosi a una legge dello stato francese del 1978 che impone la massima chiarezza rispetto ai fondi che i musei pubblici investono per acquisti nelle collezioni. L’episodio in sé non mi sembra particolarmente interessante specie leggendo le motivazioni addotte da Forset, quello che invece appare davvero importante é che la modalità di vendita di Sehgal, che si fa rappresentare dalla ben nota galleria Goodman di Londra, mette a nudo una questione essenziale sulla possibilità o meno di documentare le opere performative, sulle loro possibili forme di permanenza nelle collezioni e sulla auto-censura che gli artisti si sono più o meno imposti nel tempo rispetto alla produzione di “oggetti” vendibili come ricadute degli eventi live. Ciò che mi sembra distingua il lavoro di Tino Sehgal é proprio l’assoluta eventualità del suo lavoro che non produce un adattamento alla struttura del museo, ma esattamente al contrario costringe in qualche modo il museo a modificare la sua stessa idea di collezione e di acquisto. Credo si possa instaurare un paragone interessante con alcune opere di Felix Gonzales Torres che prevedono una produzione di oggetti che però per loro stessa definizione andranno consumati dal pubblico fino al loro esaurimento, lasciando al collezionista o al museo non l’oggetto in sé, ma la sua consumazione, la sua cancellazione. Lo stesso Gonzales Torres scriveva che quel tipo di lavoro era una sorta di attacco al suo narcisismo, al senso ossessivo della proprietà dell’opera caratteristica di tanti artisti e di tante istituzioni. Produrre qualcosa che si sa già che potrà esistere solo se verrà cancellata, consumata, estinta é di fatto una forma potente di autocontrollo. Tino Sehgal ha fatto della censura di qualsiasi immagine che possa raccontare le sue performance non una modalità di fruizione ma un elemento contestuale all’opera, cioè un procedimento che fa parte della sua stessa poetica ed estetica. Per questo non credo che la questione si possa esaurire nella possibilità o meno della memorabilità degli eventi live, e quindi del rapporto tra opera e documento, ma abbia anche a che vedere con la necessità di imporsi una sorta di disciplina interna all’opera, che ponga non tanto al fruitore quanto all’artista stesso un preciso limite preliminare. Sehgal non nega solo agli altri la possibilità di vedere ciò che resta, ma impone anche a se stesso di non poterne dare testimonianza secondo un suo schema, una sua modalità, una sua estetica. Un atto di cancellazione é in realtà un gesto di estrema generosità che lascia a ciascun fruitore presente la possibilità e la responsabilità etica di esserne testimone vivente, e a ciascun spettatore assente la possibilità di immaginare ciò che sarebbe potuta essere e potrà essere in futuro potendola rivedere. Qui entra quindi in gioco il fattore fondamentale della vendita che rende assolutamente inadeguata la contestazione mossa al Centre Pompidou. Da Fred Foster. La possibilità di replica delle performance che diviene una sorta di format, se vogliamo un multiplo d’artista, toglie l’aura dell’esclusività alle performance, cioè cancella quella sensazione apocalittica che si prova davanti a un qualsiasi evento che non potrà mai essere replicato in quanto disegnato come performance unica. Il solo atto della vendita implica una considerazione che di nuovo avvicina la modalità di Sehgal a Gonzales Torres: la possibilità di possedere le caramelle o i cieli di Torres, destinati in partenza a consumarsi inesorabilmente sotto gli occhi dei suoi stessi proprietari, enuncia lo stesso principio sotteso alle performance di Sehgal che verranno replicate non in quanto eventi, ma in quanto “oggetti” performativi replicabili. Così Gonzales Torres definiva le sue opere di accumulazione come le caramelle o i manifesti: “Tutti questi lavori sono indistruttibili, perché possono essere duplicati all’infinito. Esisteranno sempre perché in realtà non esistono, o perché non devono esistere sempre. Sono creati per le mostre, o a volte sono creati in luoghi diversi contemporaneamente. Non esiste un originale, ma solo un certificato di originalità. Cerco di alterare il sistema di distribuzione di un’idea attraverso la pratica artistica; ed è quindi imperativo che l’opera investighi anche nuove nozioni di allestimento, produzione e originalità. E per quanto riguarda i contesti diversi, si tratta di una questione piuttosto complessa che deve essere agganciata a un esempio specifico. Come sappiamo, il contesto attribuisce il senso agli oggetti. Il linguaggio delle mie opere dipende, in gran parte, dal fatto che sono esposti e letti in contesti artistici: gallerie, arte e giornali.”2 Leggendo parallelamente un’intervista fatta a Tino Sehgal da Tim Griffin su Artforum si comprende il legame con il lavoro di Torres: “My work isn’t deproduced; it is produced and it is material, but the difference is that it materializes itself in the human body and not in a material object. I don’t make photographic or filmic reproductions of my work, because it exists as a situation, and therefore substituting it with some material object like a photo or video doesn’t seem like an adequate documentation. Also, my works take a form that exists over time–as they can be shown over and over again–so they’re not dependent on any kind of documentation to stand in for them.”3

Nel lavoro di Sehgal la totale rimozione e cancellazione del documento, cioè della trasmissione “oggettiva” assegna un ruolo fondamentale non solo all’esperienza ma alla testimonianza: i veri documenti divengono così i ricordi e i racconti di “chi c’era” e l’esserci in presenza non ha più solo un senso individuale di fruizione, ma diviene un’investitura, una presa di responsabilità a cui ciascuno spettatore viene chiamato. L’opera spinge sulla sua natura immateriale che però non si ferma al solo momento dell’evento ma richiede un esercizio di contrasto della rimozione e della cancellazione attraverso l’esercizio costante della ricostruzione: nessuno strumento di riproduzione potrà sostituirsi all’archivio affettivo che l’opera costruirà in ciascun singolo visitatore, che questo sia un esperto o un fruitore pressoché casuale. La registrazione dell’esperienza sarà la sola forma di archivio concessa. Ma leggiamo ancora cosa risponde Felix Gonzales Torres a Rollins a proposito delle motivazioni che lo hanno spinto a iniziare questa pratica delle opere “a consumo”: E poi volevo restituire allo spettatore e al pubblico qualcosa che non era mai stato veramente mio: un’esplosione di informazione, che in realtà è un’implosione di significato. In secondo luogo quando ho iniziato a fare i mucchi di fogli – è stato per la mostra da Andrea Rosen – volevo fare una mostra che sparisse completamente. Era un lavoro sulla sparizione e l’apprendimento. Volevo anche attaccare il sistema dell’arte e volevo essere generoso. Volevo che il pubblico potesse conservare il mio lavoro.”4 Mi sembra che due punti focali uniscano le modalità di approccio dei due artisti a distanza di tempo: il concetto di “sparizione e apprendimento” e l’idea del pubblico che “conserva” l’opera. Nella sparizione materiale delle caramelle o dei manifesti di Gonzales Torres c’è un’idea di disseminazione dell’opera5 che si compie proprio nel momento che diviene proprietà diffusa da parte del pubblico e con ciò diviene comprensibile, nel senso proprio del comprendere nel proprio spazio di vita un segno significante che proviene dall’arte; nell’opera performativa di Tino Sehgal la performance si auto-cancella un attimo dopo il suo compimento per poter restare come traccia nella memoria privata di ciascun fruitore, in altre parole nella disseminazione della memorizzazione risiede la sua collezionabilità. Riguardo alla conservazione a cui fa cenno Gonzales Torres ciò che appare tanto più interessante é proprio che in ambedue gli artisti, nel più totale e radicale paradosso, forse il più centrato nella realtà attuale, l’istituzione museale così come il collezionista, possono possedere e comprare solo la cancellazione dell’opera che così non viene dispersa ma disseminata. La censura della documentazione in Tino Sehgal appare quindi non come la cancellazione della traccia ma come la democratica “concessione” allo spettatore di essere il solo vero collezionista dell’azione, che torna così a essere oggetto, ma oggetto intersoggettivo generato dal continuo incontro tra l’evento e la memoria del singolo. Dunque l’auto-censura dell’artista non cancella l’opera ma costruisce il suo futuro, come dice Gonzales Torres, lasciando in un gesto di generosità la possibilità allo spettatore di esserne il vero collezionista e conservatore.

Credo che a chiusura di questo mio breve intervento sia perfetto citare un’azione che ha unito materialmente Felix Gonzales Torres e Tino Sehgal. Nel 2011 la curatrice Elena Filipovic ha invitato Tino Sehgal a un’operazione di reinstallazione della mostra che lei stessa aveva curato al Museum für Modern Kunst di Frankfurt am Main dedicata a tutta l’opera di Felix Gonzales Torres e intitolata Specific Objects without Specific Form6.

.

.

.
1 Sul suo lavoro in generale cfr. Annalisa Sacchi, Tino Sehgal e l’opera effimera, in “Art’O”, n.20, primavera 2006, pp. 73-75.
2 Bartman, William S., ed. Felix Gonzalez-Torres. Los Angeles: A.R.T. Press, 1993. Essay by Susan Cahan, short story by Jan Avgikos, and interview with the artist by Tim Rollins. Traduzione italiana in “Trax. Cultura e spettacolo on line” http://www.trax.it/tim_rollins.htm
3 Tino Sehgal: An Interview, Tim Griffin, in “Artforum”, may 2005.
4 Felix Gonzalez-Torres, op.cit.
5 Si veda in proposito l’editoriale del n.4 di roots&routes dedicato al concetto di archivio che comprendeva un dialogo a due voci tra Cesare Pietroiusti e me sul concetto di dispersione e disseminazione.
6 Felix Gonzalez-Torres, Specific Objects without Specific Form, MMK Museum für Moderne Kunst Frankfurt, 29 January – 25 April 2011. The exhibition concept was devised by Elena Filipovic and initiated by WIELS Contemporary Art Centre, Brussels in collaboration with the Foundation Beyeler, Riehen/Basel, the MMK Museum für Moderne Kunst Frankfurt, and the Felix Gonzalez-Torres Foundation, New York.