Magazziniere, progetto “Uomini Dentro”, Carcere San Vittore, Milano. Courtesy degli artisti: Carolina Farina, Filippo Messina, Gloria Pasotti
Queste immagini sono un estratto di un racconto fotografico sulla vita e il lavoro all’interno carcere San Vittore di Milano, parte del progetto “Uomini dentro”.
Nato da una serie d’incontri creativi in co-progettazione fra Carolina Farina, Filippo Messina e Gloria Pasotti, studenti dell’Accademia di Brera, e ventuno detenuti e detenute, il progetto si è sviluppato nell’autunno 2011 con la supervisione della Coordinatrice del Biennio di Fotografia Prof. Paola Di Bello.
Promosso da Casa vinicola “Caldirola” in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Milano “San Vittore” con il patrocinio del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il patrocinio di Comune di Milano.
L’intero corpus di fotografie (50 in totale) e una video proiezione delle immagini realizzate dai detenuti sono state oggetto di una mostra presso gli spazi de LA FABBRICA DEL VAPORE dal 15 Dicembre al 16 Gennaio scorsi.
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CENSURA lat. CENSURA da CENSEO valuto, stimo (v. Censo)
Così detto l’Ufficio del censore nell’Antica Roma ed anche l’Esame che quel magistrato aveva il diritto di fare sulla condotta dei cittadini per infliggere biasimo a quelli di sregolato costume. (www.etimo.it).
Appare palese che l’istituzione carceraria sia l’esempio più emblematico dell’esercizio della censura, ma è solo oltrepassando le pesanti porte che la isolano dal resto della società che si puo’ iniziare a capire veramente con quale pervasività e complessità si manifesti. La contenzione è soprattutto un’esperienza fisica vissuta, non solo da chi è detenuto per ragioni giudiziarie, ma (con prospettive diverse) da tutti coloro che varcano la soglia dell’edificio.E’ una condizione che travolge il corpo nella sua interezza coinvolgendo tutti i sensi: i movimenti sono costretti in ambienti circoscritti che ricreano una quotidianità alterata e inospitale scandita dal ritmo dei medesimi gesti giorno dopo giorno.
Tutto è a costante disposizione dell’altrui visuale, mentre il tempo si dilata fino quasi a fermarsi in un’incessante ripetizione che coinvolge anche lo sguardo, sempre schiavo delle stesse immagini.
Questa fortissima esperienza di straniamento è stata il punto d’inizio per condurre la nostra ricerca.
La censura visiva ne è stato l’elemento fondante, in quanto l’impossibilità di riprendere i volti degli uomini e delle donne che abbiamo ritratto ci ha costretto ad interrogarci e sperimentarci più in profondità sulle possibilità di rappresentazione di un’identità.
Partendo dall’idea del committente d’indagare le attività lavorative svolte dai detenuti all’interno dell’istituto, abbiamo cominciato a muoverci quotidianamente tra i reparti, a intrecciare relazioni con i detenuti, aventi un ruolo attivo nel progetto e con gli operatori, lasciando che fossero loro a guidarci alla scoperta della loro quotidianità e man mano a farla in qualche modo nostra, aiutandoci ad immedesimarci in questa alterità.
Trovandoci a dover cedere alle regole vigenti in carcere e ai loro ritmi di vita il nostro percorso creativo ne è stato fondamentalmente influenzato; gli ostacoli han fatto emergere sin dall’inizio le censure insite in noi, che già ci appartenevano, di cui spesso siamo inconsapevoli, spingendoci a superarle.
La riflessione si è sviluppata sul desiderio di far emergere l’enorme bagaglio di esperienze che stavamo vivendo, considerando il modo migliore di lasciar trasparire l’incontro tra singolarità, le relazioni, le emozioni che andavano creandosi.
Questo tecnicamente si è tradotto in un approfondimento teso a rifuggire un approccio stereotipato al bianco e nero, scelta stilistica forte e di fin troppo facile presa emotiva, e a confrontarsi con l’imponente tradizione ritrattistica riuscendo a rendere onore a queste persone senza banalizzarle.
Ci siamo spinti al limite dell’ “interessante”, arrivando ad interrogare la scala di valori della rappresentazione: cosa è degno di essere mostrato? Cos’è interessante?
Abbiamo incoraggiato i detenuti a posare un nuovo sguardo, creativo, sulla realtà quotidiana, non solo sui manufatti da loro realizzati, ma sugli stessi oggetti di uso comune, sui materiali da loro raccolti e accumulati.
Cercando di sviluppare insieme un approccio percettivo più consapevole e attivo sul quotidiano, sul “banale”, il mezzo fotografico è diventato uno strumento efficace per abbattere le distanze creando complicità e fiducia fino a diventare un pretesto e uno stimolo a focalizzare e confrontarsi sulla vita da inquadrature inedite.
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