In Italia piace raccontarsi una favola che da recensione in recensione inciampa sempre sullo stesso lieto fine.
Il protagonista è Adrian Paci, l’artista/profugo albanese che grazie all’”ospitalità” italiana è riuscito ad elaborare il trauma dell’emigrazione-immigrazione a tal punto da trasportare l’esperienza privata in collettiva, facendo diventare la propria testimonianza esistenziale un messaggio universale. Il narratore è l’italianità che fiera della residenza dell’artista nella propria nazione, riporta a se stessa l’artisticità di Adrian Paci in una visione ristretta e del tutto autoreferenziale. Ingenuamente potrebbe sembrare un atteggiamento “paternalistico”, più sottilmente vi ravviso un nuovo modo di contemporaneizzare un atteggiamento tipico italiano e in generale occidentale di avere sempre qualcosa di cui vantarsi rispetto al resto del mondo in fatto di produzione artistica.
Trovo necessario citare quanto afferma Adrian Paci durante i Martedì Critici all’Auditorium di Mecenate di cui è ospite: “Si fa tanta retorica e si parla spesso quando si parla del mio lavoro del solo legame con la questione dell’immigrazione. Ovviamente non lo posso nascondere: in modo esplicito spesso il mio lavoro tratta argomenti legati all’immigrazione, però non sono mai stato interessato a presentarmi come un artista degli immigrati, un artista che vuole usare la bandiera dell’immigrazione. Mi interessa cosa succede in questa situazione di passaggio. Credo che la verità non sia più in una situazione di stabilità, credo che la verità si trovi di più nei momenti di passaggio.” 1
Adrian Paci è definito un esponente dell’arte globale. Ma il punto di partenza che genera questa classificazione deve fare i conti non tanto con la biografia dell’artista quanto con la sua stessa produzione artistica. Caratteristica comune a tutte le opere di Adrian Paci è quella di riuscire ad elaborare e trasmettere codificazioni esistenziali a prescindere dal tempo e dal luogo in cui esse sono generate. L’essenza delle sue opere sta proprio nel riuscire a sorpassare l’esatta collocazione spazio temporale per arrivare all’essenza concettuale della narrazione che spesso va a delinearsi come messaggio applicabile in scala universale. Adrian Paci afferma “Non ho mai intenzione di descrivere un fatto, un fatto mi interessa perché porta in modo anche violento, in un modo imprevedibile, in un modo anche irruento nella finzione della narrazione un’aria fresca, una dimensione di autenticità, di verità, di freschezza, che sconvolge quello che è il codice dell’espressione del linguaggio.”2
Il video e serie fotografica Centro di Permanenza Temporanea rappresenta l’emblema di come l’apparente immediatezza del tema dell’emigrazione si scontri con la complessa e ricca trasposizione teorica. Il titolo dell’opera rimanda ad una dimensione non solo fisica e legislativa, ma soprattutto sociale di quei luoghi destinati agli accertamenti sull’identità degli immigrati trattenuti in vista di un’espulsione, certa. La consapevolezza dunque di una condizione di mobilità giudicata a priori irregolare, un pre-giudizio che spesso l’artista affronta nei suoi video come nell’opera video Believe Me I’m an Artist (2000), registrazione di una vicenda realmente accaduta in cui l’artista è costretto a spiegare ad un poliziotto sospettoso che il video e la fotografia sono suoi strumenti di lavoro. Vedere Centro di Permanenza Temporanea è più che vedere la narrazione di qualcosa che sta succedendo. E’ leggere, come sfogliando un libro, tante storie quanti sono i volti e gli sguardi di coloro che l’artista ci invita, indugiando nella ripresa, a scrutare. Il soffermarsi nei ritratti induce ad un momento di contemplazione di occhi pieni di luce, di sorrisi congelati, di labbra immobili, di profili duri, e sguardi persi nell’impotenza dell’azione. Lo spettatore era già stato straniato dalla lenta e regolare marcia la cui ripresa dal basso delle robuste scarpe da lavoro ha richiamato al nostro immaginario le stesse inquadrature del passo dei soldati, dove però ciascuno ha portato con sé non le armi ma la propria ombra. L’azione della marcia verso un percorso se pur ascensionale, spinge lo spettatore a cogliere subito un controllo esterno, lo stesso controllo che infastidisce lo sguardo di coloro che ripresi dalla videocamera guardano altrove.
E’ quel conflitto paradossale tra il silenzio e la chiarezza estrema della comunicazione, tra la giornata assolata e la dimensione onirica della narrazione.
1 Martedì Critici all’Auditorium di Mecenate (ciclo di incontri a cura di Marco Dambruso e Marco Tonelli), l’artista è stato invitato nell’ottobre del 2011. E’ possibile vedere l’intervista al seguente link http://www.youtube.com/watch?v=YKPhb4HSpGA.
2 Ibidem
.
.
Riferimenti
Adrian Paci, Catalogo della mostra, Kunstevere in Hannover (Hannover, 19 aprile – 15 giugno 2008), a cura di Martin Engler e Stefan Capaliku, Modo, Freiburh i. B. 2008
Adrian Paci, Catalogo della mostra (Modena, 14 maggio-16 luglio 2006). A. Vettese, edizione Charta, 2006.
Adrian Paci, un documentario di Alessandra Galletta prodotto per Babel, canale 141 di Sky. Il documentario è andato in onda durante la trasmissione Edizione Limitata, Appuntamento con l’Arte domenica 8 gennaio alle ore 21:00. http://www.artribune.com/2012/01/adrian-paci-un-documentario-di-alessandra-galletta-2/.
B. Pietromarchi, Italia in opera. La nostra identità attraverso le arti visive. Bollati Boringhieri. Torino, 2011.
B. Pietromarchi, Pasolini secondo Adrian Paci, in “Reset”, 117, gennaio-febbraio 2010.