La discoteca è il primo feature-film dell’artista Jacopo Miliani, che dopo anni di ricerca sulla performance, la danza e l’espressione corporea, sperimenta la propria poetica attraverso il linguaggio del cinema, espandendo la già ricca esperienza sul video sviluppata nel corso della sua produzione artistica.
La discoteca racconta di un futuro non troppo lontano in cui la manifestazione delle emozioni attraverso il linguaggio del corpo è severamente proibita e regolamentata dalla paura di esser trasformati in rose recise, entità a cavallo tra la vita e la morte, ma anche forme perfette a cui aspirare. La discoteca del retro-futuro – luogo in cui la melanconia del passato incontra le ansie del futuro – è pervasa dall’odore di rose e abitata da strani e surreali personaggi. Al suo interno si incontrano i due protagonisti di questa “fiaba”: lei si chiama Didi e lui si chiama Ermes. I due giovani sono stati selezionati per eseguire una danza di corteggiamento rigorosamente priva di manifestazioni emotive. Sapranno i due “non-innamorati” creare una forma diversa d’amore e riuscire a comunicare un nuovo linguaggio?
Il film copre svariati generi narrativi e fonde diversi linguaggi focalizzandosi sui rapporti tra cinema, arte, performance, video e danza portando il corpo al centro dell’esperienza non solo visiva, ma anche fisica dello spettatore.
Il lungo arco di produzione del progetto La discoteca (da agosto 2020 e in corso di realizzazione) ha avuto inizio con le due giornate di workshop CASTING per la DISCOTECA, tenute dall’artista nell’ambito del Gender Bender Festival 2020, che ha visto riunirsi un piccolo gruppo di partecipanti attirati dall’idea di poter dar sfogo al loro personale rapporto col ballo.
Senza conoscersi, dopo sei mesi di restrizioni dovute al Covid-19 (lezioni da remoto, chiusura dei luoghi di aggregazione, di incontro e confronto), reduci da un’estate di distanziamento sociale e fisico, i performer hanno risposto alla chiamata in un momento in cui sudare, abbracciarsi, collidere, pogare, danzare, fluttuare, fare branco nella notte (come nel giorno) era diventato proibito.
Con loro Jacopo ha investigato le dinamiche di scena che si innescano una volta imposti limiti e scanditi esercizi rigorosi di comportamento e il workshop, ospitato in una sala chiusa al pubblico del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, si è rivelato un osservatorio speciale per indagare come il desiderio può alternativamente pervadere il corpo, individuale e collettivo, quando è attraversato da movimento, musica, vibrazioni, energia…
Il dialogo che segue tra l’artista Jacopo Miliani e le curatrici Elisa Del Prete e Silvia Litardi di NOS visual arts production ripercorre quelle due giornate.
S.L./E.D.P.: Jacopo, puoi descrivere alcuni degli esercizi che hai proposto durante CASTING per LA DISCOTECA?
J.M.:
1_Casting Reverse-mode >15 min / 20 min
I partecipanti al workshop fanno domande a Jacopo Miliani sul progetto
I partecipanti non si presentano tra di loro. (3 contro tutti)
3_Dark Casting > 30 min
Tutti i partecipanti si dispongono nello spazio, anche seduti a terra e stanno ad occhi chiusi. A turno i partecipanti si presentano con la presenza della loro voce introducendo se stessi e parlando di un fatto o una cosa di interesse particolare. Non dire tutto di se stessi. (singoli a turno)
5_Movement > 1 ora
Ognuno si dispone nello spazio, distanziandosi e propone una pratica di movimento di 2-3 minuti che gli altri devono eseguire tutti insieme, copiando il movimento della persona che esegue la pratica. Inizio partecipazione di Annamaria Ajmone
Sound-track
(everybody)
6_Esercizio sull’impossibilità della danza. Con musica ripetitiva. (everybody)
Muoversi senza ballare
7_Music Casting > 20 min
Tutte le persone sono in gruppo. La “scena” è vuota…
A turno le persone sentiranno la traccia che hanno scelto il giorno prima, quando la riconoscono vanno sulla “scena” davanti al gruppo. Stanno in piedi a occhi chiusi per la durata di un minuto. La traccia finisce e rientrano nel gruppo. A rotazione.
10_Camminare e pensare alla discoteca. Fermarsi tutti in un grande tableau vivant
divisi in 2 gruppi 20 min
Musica
11- Esercizio di recitazione_ testo di Pier Vittorio TondelliA turno e a gruppi (di tre) decisi dai partecipanti si va in scena recitando e improvvisando una piccola parte per 2 attori l’altro attore compie un’azione complementare.
I gruppi si autogestiscono la scena e possono essere ripetuti.
S.L./E.D.P.: In quale modo la sequenza che hai costruito riflette l’obiettivo che ti eri preposto?
J.M.: L’idea di fare un workshop come prima fase di lavoro per un film nasce dall’esigenza di calare fin da subito il linguaggio della performance dentro quello del cinema. Per questo motivo CASTING per LA DISCOTECA è stato un esperimento in cui i tempi dilatati del workshop incontrano le necessità di delineare dei personaggi precisi e caratterizzati. Per fare questo non sono partito chiedendo ai singoli partecipanti una possibile definizione della loro identità. Nel primo esercizio Casting Reverse-mode ho chiesto loro di fare a noi le domande sul progetto del film e attraverso le mie risposte ciascuno si è fatto un’idea personale de La discoteca che non è stata da subito condivisa. In questo modo si è invertito l’ordine: non è chi ospita a porre degli interrogativi a chi entra nello spazio, ma l’ospitalità si crea abitando il luogo. Per dare enfasi a questo processo, la successiva presentazione di ciascun performer (Dark Casting) è avvenuta a occhi chiusi favorendo così non solo l’emissione della voce, ma l’ascolto del corpo che ti è vicino: il buio aiuta a essere consapevole di non sapere chi è l’altro che ti sta accanto. A partire da questo assunto di non conoscenza e dall’ascolto si crea la possibilità dell’ospite: una parola ambigua che indica sia chi ospita che chi viene ospitato. Questa parola per me è alla base del processo educativo che non deve azzerare i ruoli, ma ricontestualizzarli attraverso una dinamica di scambio e trasformazione continua.
Successivamente abbiamo iniziato a lavorare con la musica (ho utilizzato dei pezzi composti dalla DJ, artista e amica Chiara Fumai) come propulsore di gesti e espressioni. Dopo questi esperimenti nasce l’idea di introdurre il ballo non come liberazione, ma come negazione. “Nella discoteca del futuro è proibito ballare”: cosa accade al corpo quando viene impartito quest’ordine? Le reazioni dei partecipanti sono state una sequenza di eventi che si creavano al momento: tutti diversi uno dall’altro, impossibili da trascrivere in modo fedele, ma che hanno impostato il lavoro di scrittura del film.
Infatti, alla base della scrittura c’è sempre l’esperienza del corpo nello spazio che agisce e crea. Mi ha accompagnato in questa fase la coreografa Annamaria Ajmone, dal momento che ho sentito la necessità di confrontarmi con i performer non solo attraverso un linguaggio fatto di esercizi impartiti verbalmente. Annamaria, infatti, spesso traduceva le mie richieste di condivisione attraverso degli esempi di movimento che venivano ascoltati e si propagavano nello spazio attraverso il corpo dei performer. La dinamica di questa fase del workshop era scandita da una costante ambiguità tra le “regole” imposte e la loro libera interpretazione, per poi sfociare nella completa trasformazione scelta dai partecipanti. L’alternanza tra controllo e de-controllo è per me una componente fondamentale della performance art in cui la creazione avviene proprio a cavallo tra queste due dimensioni. Controllo e de-controllo sono le strutture alla base del progetto “La discoteca” in cui il futuro è visto come una possibilità diversa di agire a partire proprio da una eccessiva regolamentazione. Le regole ci permettono di giocare e di creare una comunità di giocatori che intrepretandole sapranno dare inizio a un nuovo linguaggio espressivo.
L’imposizione della regola come fattore scatenante è stato l’elemento centrale dell’esercizio Music Casting: ho chiesto a ciascun partecipante di scegliere una canzone, disporsi frontalmente davanti agli altri e chiudere gli occhi durante l’ascolto (per un minuto) della musica, cercando di rimanere il più possibile immobile.
L’alternanza di quegli sguardi a occhi chiusi è stato un momento molto potente in cui è emerso chiaramente che non esiste un azzeramento totale del corpo e delle espressioni sia in chi agisce, sia in chi osserva quello che sta accadendo. Bastano infatti due corpi che abitano lo spazio a creare un potenziale infinito di significati che anche quando vengono imbrigliati in un codice linguistico non sono mai immobili, ma continuano a trasformarsi attraverso il loro utilizzo.
A partire da questo momento, nel workshop è stata introdotta la parola e ho chiesto ai performer di interpretare un breve estratto di Dinner Party (1985) di Pier Vittorio Tondelli (Esercizio di recitazione)
“FREDO : Vieni, Didi, fatti forza. Balliamo un po’, avanti! Vedi che ti reggi in piedi.
DIDI : È così buio…
FREDO : Ci hanno abbandonati, ma che importa? Balliamo!
DIDI : Ballo solo il tango.
FREDO : E io solo disco-music.”
La parola, che non ho quasi mai utilizzato direttamente nei miei lavori di perfomance ma che sarà centrale nel progetto “La discoteca”, si è imposta inizialmente come una regola da sostenere. È stato il corpo dei performer che ha trovato diverse modalità di sostenerla. Non credo di riuscire a descrivere esattamente il tipo di azione che si è creata durante il workshop, ma dentro di me è chiara l’immagine dei corpi dei partecipanti che mentre recitavano le battute si buttavano a terra “ubriachi” e altri venivano in soccorso cercando di creare delle impalcature umane in grado di sostenere un movimento (sicuramente una danza) manifestando la fatica di stare in piedi. In questa immagine ho visto chiaramente la difficoltà a cui spesso ci sottopongono le parole che noi stessi abbiamo creato e che utilizziamo, dimenticandoci che esiste sempre un modo creativo e fisico per trasformarle e creare piacere.
S.L./E.D.P.: Annamaria Ajmone, che ti ha aiutato anche a costruire i movimenti delle danze che compaiono nel film. Annamaria non si è disposta fuori dal gruppo, ma lo ha attraversato, mescolandosi e prendendo parte allo sciame danzante o talvolta ponendosi in attesa o forse in ascolto. Non ha plasmato il gruppo da fuori, ma accompagnato i gesti da dentro. E lo stesso sta facendo nel lavoro coi performer del film, dove la coreografia è al servizio dell’espressione più autentica di un corpo. In un’intervista ha detto: “i corpi si organizzano simultaneamente, per spostarsi muovono lo spazio, modificandolo costantemente” [1].
Allo stesso modo, mettendo in atto un processo di composizione e scomposizione, la sua presenza nascosta, per chi come noi guardava da fuori, contribuiva a spezzare le direttrici semiotiche di una sala-conferenze, stravolgendola in un vortice le cui forze centripeta e centrifuga riconfiguravano fluidamente i punti di vista. Sembrava prender forma una T.A.Z. temporary autonomus zone (Bey, 1991): ogni singolarità, progressivamente e mantenendo il proprio peso specifico, si è ritrovata a curare una “zona” di libertà dove, stando alle regole del gioco e al tempo imposti, ha potuto articolare la propria complicità con l’altro. Senza premeditazione si andava innescando una solidarietà automatica, corporale, accompagnata dall’indirizzo dell’artista e della coreografa, ma non impartita. Il workshop, come una discoteca vera e propria, assumeva i caratteri di un dispositivo di sfogo e di controllo al tempo stesso. In tal senso Jacopo lavora attivando percorsi formativi che vanno in realtà verso uno spogliarsi dall’educazione, lasciando spazio, pur nella piena consapevolezza di ciò che vuole ottenere sebbene mai esplicitamente comunicato, al manifestarsi e all’adattarsi dei corpi allo spazio fisico e comportamentale in cui li invita a porsi in dialogo.
In fondo, Jacopo, questo workshop più che un percorso educativo è stato un lavoro di “diseducazione”, che valore dai a questo concetto?
J.M.: La discoteca è stata spesso considerata un luogo perverso, malvagio, trasgressivo in cui è facile perdere sé stessi e il controllo di sé stessi. Questo tipo di pensiero si lega a una logica binaria: bene/male, bello/brutto, buono/cattivo a cui siamo stati educati da millenni ed è impossibile farne a meno. Spesso utilizziamo le parole per imporre questa logica anche se non ne siamo sempre consapevoli. Pertanto non penso alla diseducazione come un azzeramento totale della nostra educazione, ma come uno sforzo di creare altre possibilità e una continua trasformazione. Attraverso la ricerca che ha accompagnato la fase iniziale del progetto “La discoteca”, in cui si inserisce anche il workshop, ho scoperto come i “luoghi della notte” non sono in opposizione a quelli del giorno, ma si inseriscono come possibilità di creare una dimensione alternativa. Non sono luoghi privi di regole, ma nascono dalla necessità di creare delle nuove regole: come accade nell’arte, nel teatro, nella danza, nel cinema.
La discoteca non nasce neanche come luogo notturno e le prime discoteche accadono di giorno, ma hanno bisogno che il sole venga sostituito da una nuova luce; penso che così a qualcuno sia venuta l’intuizione della mirror ball che propaga sulla dance floor una molteplicità di pianeti. Per dei motivi simili le discoteche si legano all’espressione di corpi, sessualità, abiti, atteggiamenti che di “giorno” – nella realtà che ci siamo costruiti – non sono mai del tutto permessi.
Da qui la mia ricerca sulle discoteche si è focalizzata sulle discoteche queer, espressione della comunità e degli individui che vi si riconoscono al suo interno. Le discoteche nascono con l’esigenza di evadere dalle imposizioni quotidiane e diventano delle soglie da valicare dove a volte non tutti sono i benvenuti perché è necessario preservare un nuovo tipo di educazione e un nuovo tipo di linguaggio perché questo non venga inglobato dalle parole che ci hanno insegnato fino ad ora. Pertanto, prima di entrarci, è necessaria una educazione alla discoteca che sia una diseducazione o meglio un disabituarci al nostro mondo e al nostro linguaggio. A volte questo processo può destabilizzarci e provocare anche un vuoto di quello che fino adesso abbiamo imparato. La diseducazione non è un processo facile e richiede lo sforzo dell’ascolto e della ricerca dell’altro che finisce inevitabilmente per far crollare le nostre certezze, destabilizzandoci, facendoci sentire smarriti, ma mettendo in atto un percorso che porta al cambiamento e alla trasformazione di quello che siamo. Per me, le discoteche sono degli altri-mondi in cui possiamo giocare a fare gli extra-terrestri ed è per questo motivo che spesso al loro interno troviamo dei pianeti disegnati e le loro insegne hanno dei nomi che suonano come delle formule magiche: Kontiki, Cocoricò, La Nuova Idea, Babilonia, Alter-ego, … “Magia”, diceva il celebre vocalist Franchino.
Ritornano le parole che sono il mezzo per trasformarsi e diventano degli incantesimi che aprono le porte della discoteca al cui interno si parla una nuova lingua. Le pioniere della “italo-disco” sono spesso vestite da guerriere spaziali o da streghe “Strix” (leggendaria creatura della mitologia romana) dell’iper-Uranio e parlano un misto di inglese, francese, latino, spagnolo popolando gli schermi di quella che è stata la discoteca delle discoteche: ovvero la televisione italiana. Le onde elettromagnetiche mettono in connessione il mondo diverso con il nostro mondo. Non a caso, Carlo Antonelli e Fabio De Luca nel libro Discoinferno (2006) hanno osservato la storia del ballo in Italia dal 1946 al 2006 per darci una lettura del panorama politico del nostro paese che svela molti segreti offrendo un’alternativa e una spiegazione diversa a quello che pensiamo di conoscere. Questo è solo l’inizio di un viaggio in cui il futuro non è altro che una nuova possibilità del passato.
Tutto acquisisce senso se proviamo a calarci in questo universo abbandonandoci a quello che non conosciamo senza la logica del tempo e dello spazio, ma abitando l’effimero.
Note
[1] Si veda l’intervista di Mattia Capelletti Annamaria Ajmone: la danza, il processo, l’imprevedibile, su Flash Art
Bibliografia
Bey H., T.A.Z. La Zona Autonoma Temporanea, Shake edizioni, Milano 2020
La discoteca di Jacopo Miliani è vincitore dell’ottava edizione di Italian Council, programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Promosso dall’associazione culturale Nosadella.due, curato e prodotto da Elisa Del Prete e Silvia Litardi del direttivo curatoriale NOS Visual Arts Production, il progetto filmico nasce dalla collaborazione con APS Arcigay Il Cassero / Gender Bender Festival; Bottega Bologna; If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part of Your Revolution; Run by a group / openspace, ed entrerà a far parte della collezione museale del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato.
Jacopo Miliani è un artista visivo che vive e lavora a Milano. La sua pratica guarda alla performance come metodologia di ricerca per osservare le connessioni tra linguaggio e corpo. È fondatore del progetto editoriale indipendente Self Pleasure Publishing che ha un focus su linguaggio e sessualità. Ha lavorato con diversi performers tra cui Jacopo Jenna, Annamaria Ajmone, Sara Leghissa, Antonio Torres, divaD, Benjamin Milan, Mathieu LaDurée, Eve Stainton. Per i suoi progetti a carattere interdisciplinare ha collaborato con il regista Dario Argento, lo scrittore Walter Siti, i designers Boboutic, il produttore musicale Jean–Louis Hutha e la semiotica Sara Giannini. Ha al suo attivo mostre personali e collettive in diversi spazi espositivi tra cui GUCCI Garden Cinema da Camera, Florence (2019), GAMeC, Bergamo (2019), Centro Pecci per l’arte Contemporanea, Prato (2019), Galeria Rosa Santos, Valencia (2018), Palais de Tokyo, Parigi (2017), David Roberts Art Foundation, London (2017), Kunsthalle Lissabon, Lisbona (2016), ICA studio, London (2015), MADRE, Napoli (2011). Insegna Tecniche Performative presso l’Accademia di Belle Arti di Verona.
www.jacopomiliani.info
NOS visual arts production è il direttivo curatoriale dell’associazione culturale Nosadella.due. Soggetto inedito che s’innesta in modo atipico nel sistema dell’arte attuale, sposando la concretezza del producer alla sensibilità del curator per realizzare nuove opere artistiche in contesti extra-ordinari, NOS nasce nel 2018 dall’esperienza delle due curatrici Elisa Del Prete e Silvia Litardi per far emergere e prendersi cura dei numerosi aspetti che rendono possibile la realizzazione di un’opera d’arte, dalla fase di progettazione, alle relazioni umane, culturali e operative che investono la produzione di progetti in contesti specifici, fino alla promozione e documentazione.
www.nosproduction.com