Cari corpi vivi,
Sono una donna, una figlia, un’amante…
Vi scrivo di una urgente visione che mi assilla da anni, come un sogno sfocato che tento di trattenere appena sveglia. Da bambina non li vedevo neanche … dico, questi enormi busti immobili, collocati nelle città. Pare che li abbiamo ereditati da epoche passate per celebrare i protagonisti della Storia – quella dominante si sottintende – simboli di un’identità nazionale, da difendere a spada tratta. Sebbene la parola monumento racchiuda diverse declinazioni che vanno dalle statue, all’architettura, al paesaggio, mi riferisco qui a quelle figure modellate a immagine e somiglianza degli eroi, alle forme celebrative antropiche, simulacri fieri che hanno soppiantato via via l’elogio del divino in favore del potere laico terreno. Silenziosamente sono dati… come case, strade, ponti sono inglobati nella costruzione delle geografie urbane dei moderni stati-nazione, e quasi distrattamente, a testa bassa, senza neanche incuriosirci sul loro aspetto (chi e perché è lì rappresentato?), diventano strumento di orientamento tra una piazza e una via del centro.
Eh sì, i valorosi maschi bianchi dimorano nei centri storici per marcare il perimetro dei luoghi del potere, costituendo una solida rappresentazione della resistenza ai cambiamenti urbani e sociali. Dunque, se da una parte sono pensati per essere un monito alla dimenticanza, dando consistenza alla transitorietà di un ricordo, dall’altra favoriscono un processo di progressiva indifferenza, esonerandoci dal fare della memoria una concreta pratica di vita. Alle volte mi chiedo come fossero percepiti i primi monumenti celebrativi. Intendo, di gran lunga prima dell’avvento della fotografia e di quella che da lì a poco sarebbe stata l’era della riproducibilità tecnologica, la “nostra” affezionata società dello spettacolo. Certo è che la pittura e la scultura avevano l’incomodo compito di rappresentare realisticamente i corpi dominanti (imbellettandoli e migliorandone la prestanza fisica possibilmente) con non pochi compromessi su ciò che era degno o meno di essere ricordato. Allora immagino che la vista di un possente leone bronzeo, ai piedi e in difesa di un qualche generale che si è distinto per le sue glorie, potesse suscitare reazioni emotive… come quando nelle prime sale cinematografiche i Fratelli Lumière avevano portato L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat e il pubblico se la diede a gambe levate! É così che questi giganti sono stati concepiti, per impressionare. Come fossero strumenti di propaganda, sono rivolti al passato trionfale che regola il presente e ammonisce, per disciplinarlo, il tempo che verrà. Ci ricordano di ricordare, ma soprattutto di avere fede attraverso un’adesione incondizionata che è stata strappata al sacro.
Nell’antica Grecia del IV a.C una delle tecniche impiegate per la “scrittura del sé” erano gli hypomnemata, una sorta di registro materiale dove annotare pensieri, esperienze, curiosità per una successiva sintesi e riflessione. Foucault ne parla, non come semplici supporti di memoria, ma come esercizi di memoria attraverso un’attività di scrittura, rilettura, conversazione; perché il loro scopo non era tanto quello di rivelare il nascosto, di rintracciare l’indescrivibile, ma, al contrario, di raccogliere e ri-assemblare il già detto. Ed è proprio la lettera, dice, un esempio di hypomnemata, perché nella duplice funzione di scrittura e lettura agisce sia su chi la indirizza che su chi la riceve. Allora incedo con questa missiva e vi confesso che li ho cercati questi osannati monumenti, partendo dall’osservazione di alcuni caratteri distintivi ricorrenti: sono rigidi, fatti di materiali preziosi e duraturi (come la pietra o il bronzo), sono distanti perché posti sopra a piedistalli o basamenti; sono sovradimensionati rispetto alla scala umana. Mi sembrano proprio dei tentativi per manipolare il tempo e lo spazio!
Non è un caso che siano stati dispiegati nelle piazze durante il periodo delle guerre di conquista coloniale, dove i feroci vizi patriarcali hanno fatto (e fanno) di tutto per accelerare il tempo, accorciando le distanze, in una corsa irrefrenabile che ci ha spinto in un presente perpetuo, appiattito dalla velocità e dalla simultaneità delle immagini del mondo. Basterebbe abolire i piedistalli per iniziare a fare dei monumenti un’esperienza umanizzante, ma vogliono avere il totale controllo. Vogliono essere immortali. Vogliono sopravviverci! A dire il vero, anche le statue muoiono o, potremmo dire che hanno un legame inscindibile con la morte. In fondo, non è forse eterna come l’immortalità? Il memento mori (letteralmente: “ricordati che devi morire”) era una locuzione d’uso nell’antica Roma per ricordare al generale che tornava in patria, dopo un trionfo, di non eccedere in superbia o manie di grandezza. Sembra un’antitesi, ma la parola in latino è molto prossima a monumentum. Questo legame è ancor più chiaro nel greco antico, dove la parola mnema significa monumento ma anche sepolcro.
Eppure, dove permane un conflitto storico, sociale e politico quelle facce, quegli animali, quei gesti muovono ancora reazioni contrastanti; sentimenti di venerazione o di ripudio che possono nascere anni, decenni, secoli dopo la loro permanenza, mettendo in atto una vera e propria crisi identitaria. Da un lato c’è chi lancia oggetti contundenti per piegare, ribaltare, deporre il bronzo che omette o distorce la verità delle persone soggiogate, dall’altro chi definisce questi come atti di barbarie in nome della storia dei vincitori. E allora questi corrono ai ripari! Costruiscono vincoli e barriere protettive che possono arrivare a confondersi persino con gli stessi atti sovversivi che tentano di anestetizzare. Avete visto come hanno difeso W. Churchill a Westminster dopo le proteste guidate dai Black Lives Matter? Non si sono limitati a ripulirlo. Il sindaco di Londra l’ha fatto inscatolare! Sì, è stato sigillato come un tonno dentro a un parallelepipedo monolitico, per proteggerlo da eventuali atti vandalici, a detta delle autorità locali.
Non vi pare un controverso esempio di depotenziamento e annullamento del visibile? Potremmo leggere quella geometria temporanea come un involontario contro-monumento per sottrazione. Il dominio del visibile ha origini antiche e radicate nella cultura occidentale, basata su un paradigma oculare-centrico… e qui riaffiorano in mente gli studi classici di Eraclito, Platone, Aristotele e così via a supporto del senso nobile che ha guidato l’interpretazione della conoscenza, fino a farsi centrale nella rappresentazione prospettica rinascimentale. Oggi, l’incremento delle piattaforme social e app digitali fa dell’esponibilità una delle categorie più alte tra le gerarchie di valorizzazione sociale. Si potrebbe dire che il bombardamento visivo dell’era contemporanea ha ribaltato il motto cartesiano di cogito, ergo sum in ego visibilis, ergo sum. Per questo «la memoria esige un vuoto di immagini per posizionare la propria resistenza» (Gaglianò, 2016, p. 35).
Il monumento è una forma di display. Questa parola assume diversi significati a seconda del contesto in cui è usata: deriva dal latino dis- (“a parte”) + plicāre (“piegare”) ovvero dispiegare, stendere, spiegare e può riferirsi a un oggetto, a una struttura, a un dispositivo o pratica che vuole richiamare all’attenzione mostrandosi in maniera evidente. Dunque, ha visceralmente a che fare con il visibile, perché tenta di attivare un’operazione di seduzione, deliberata o inconsapevole.
Allora mi avvicino e mi lascio sedurre. Scavalco il recinto e salgo sul podio per strappare quel gesto simbolico sotteso alla forma. Tocco la fredda zampa del leone, pronta a sferrare gli artigli, la gamba avvinghiata di un caduto appeso, il braccio teso di un generale. Gestualità del potere, di rivendicazioni e simbologie che non sento corrispondenti. Le avvolgo furtivamente, ma, badate bene, non tutti interi, solo una parte! Voglio scavalcare l’immagine totale del monumento perché il frammento sconquassa l’intero, disarma e profana le consolidate narrative di quel corpo.
Ecco, adesso il leone è ferito!
Lentamente, sfilo quella guaina di strati sovrapposti per ricavare un’impressione in negativo. É la pelle di un corpo vuoto che rimane appena fuori le forme ricorrenti del racconto collettivo. Oscillo fra le parti ricavate e quelle della mia stessa fisicità, e, mentre il monumento cade, lo indosso come fosse un trofeo che mi deforma in una sorta di anti-eroe. «[La pelle] è il primo a formarsi e il più sensibile dei nostri organi, il nostro primo mezzo di comunicazione e il più efficiente dei nostri mezzi di protezione […] Persino la cornea trasparente dell’occhio è ricoperta da uno strato di pelle mutata […] Il tatto è il genitore di occhi, orecchie, naso e bocca. È il senso che si è poi differenziato negli altri, un fatto che spiega l’antica definizione del tatto come “la madre dei sensi”» (Ashley Montagu, 1989, p. 9).
All’invenzione di una pratica, di un modo, di una prassi, di un tempo, nel quale riordinare l’esperienza di qualcosa di noto, inizia il divenire di qualcosa d’altro. Nelle vacillanti, imperfette, goffe maschere di scena il corpo smembrato rimane riconoscibile ma non del tutto. Caduco e contorto ammonisce un’altra storia, aderente alla vita che cambia, alla natura temporanea delle cose. Depongo le impronte su fragili sostegni che fanno emergere quella tensione fisica ed emotiva, come fossero costumi di uno spettacolo teatrale appena concluso o di là da venire. Le solide membra digradano a livello del piedistallo che si riduce a una linea, configurando un nuovo spazio d’azione e relazione con noi, corpi vivi. Il gesto si fa e si disfa, momento dopo momento, a partire dall’interazione tra le parti.
Si, perché l’uno agisce sull’altro come accade sul palcoscenico teatrale, dove in origine l’uomo intendeva rendere tangibile la relazione con il divino attraverso riti e danze, manifestando al contempo il bisogno di intrattenere e definire i rapporti sociali nella forma della festa e della finzione ludica. Non c’è più un confine invalicabile che differenzia e salvaguarda la presunta purezza delle singole identità. Attraverso il gioco, possiamo praticare l’esercizio dell’immaginazione, aspirando a manifestare liberamente la nostra presenza, per autodeterminarci. Ne Gli occhi della pelle. L’architettura dei sensi, Juhani Pallasmaa afferma che il tatto integra l’esperienza che abbiamo del mondo con quella che abbiamo di noi stessi e la condizione fondamentale affinché questo avvenga è quella di sopprimere la visione focalizzata che ci mette di fronte al mondo, in favore della visione periferica che ci avvolge nella carne del mondo.
«La percezione periferica inconscia trasforma la gestalt retinica in esperienze spaziali e corporee. La visione periferica ci integra con lo spazio, mentre la visione focalizzata ci spinge fuori dallo spazio, rendendoci semplici spettatori. Lo sguardo difensivo e sfocato del nostro tempo, appesantito dal sovraccarico sensoriale, può eventualmente aprire nuovi regni di visione e pensiero, liberati dal desiderio implicito dell’occhio del controllo e del potere. La perdita del focus può liberare l’occhio dal suo storico dominio patriarcale» (Juhani Pallasmaa, 2007, p.13).
Oggi siamo ingabbiati come Churchill! Anestetizzati, igienizzati, separati, ci stiamo trasformando in rigidi corpi alla ricerca dell’immunità che ci costringe a vivere a distanza nelle nostre case. Lo spazio domestico non è solo il luogo del confinamento ma anche della produzione, del consumo e del controllo che ci auto-somministriamo. E non è un caso che la soggettività contemporanea sia sempre più identificabile con un profilo virtuale senza pelle, senza mani, senza voce… la vita archiviata in nano memory card dalla capacità elevatissima per trattenere… che cosa?
Siamo cani con due teste, piedi senza tronco, brandelli di carne agli occhi del web mapping con cui crediamo di orientarci. Gli algoritmi digitali ci rivelano le proiezioni della nostra stessa immagine mutilata, e nello spazio sempre più rarefatto, non ci rimane che la pelle come ultimo confine poroso.
La Terra non ci basta più. Mentre sprofondiamo, le macchine toccano Marte.
La speranza di agire delle contro-narrazioni sta nell’impuro, nel frammento, nel margine, nell’imprevisto, nel temporaneo, nell’opacità.
Ai monumenti lasciamo la presunta eternità.
Noi, organismi plurimi, restiamo vivi!
Bibliografia
Pietro Gaglianò, Memento. L’ossessione del visibile, Postmedia books, Milano, 2016.
Ashley Montagu, Il linguaggio della pelle, A. Vallardi, Milano, 1989.
Juhani Pallasmaa, The eyes of the skin. Architecture and the sense, John Wiley & Sons Ltd, West Sessex, 2005.
Irene Coppola (Palermo, 1991). Artista visiva con base a Palermo e Milano. Tra le mostre e i progetti di residenza cui ha preso parte, si ricordano: AndAndAnd per Documenta13, il Do Disturb festival al Palais De Tokyo di Parigi, Dolomiti Contemporanee a Pieve di Cadore. Selezionata per la VI ed. dell’Italian Council nel 2019 compie un percorso di ricerca presso la comunità indigena di Guna Yala (Panama). Finalista del premio Cantica21, supportato da MAECI e MiBACT, realizzerà un progetto inedito per il Museo Riso di Palermo.