roots§routes è un magazine con una linea editoriale dettata dalla sua redazione che garantisce la qualità e la coerenza degli interventi. Ritenendo però necessaria una costante apertura verso qualsiasi contributo di qualità, che corrisponda alle finalità condivise da tutti i redattori, valuta importante la possibilità di ospitare, accanto agli artistə e ai ricercatorə invitati, contributi che possano arrivare da contesti non conosciuti direttamente.
roots§routes a tale scopo lancia una Call for Proposals, invitando artistə e ricercatorə a inviare proposte di contributi, partendo dal tema della rivista del quadrimestre seguente.
La proposta di contributo dovrà essere inviato sotto forma di abstract di un massimo di 350 parole compilando l’apposito box sottostante o inviando una email all’indirizzo redazione@roots-routes.org con nell’oggetto: “Article Submission” specificando il numero per il quale si intende proporre il contributo tra quelli elencati dalla redazione. È inoltre richiesto l’invio di una biografia breve e una selezione di pubblicazioni. L’abstract potrà essere scritto in una delle seguenti lingue: inglese, italiano, francese, portoghese o spagnolo.
In caso di interesse della redazione verrà inviata una risposta positiva all’indirizzo email da cui è giunta la proposta, nella quale si chiederà di inviare il contributo per intero nella lingua scelta dal proponentə.
La redazione, al ricevimento dell’intero contributo, si riserva il diritto di chiederne parziale modifica o, in caso di evidente non coerenza con il concept inviato, di rifiutare il contributo stesso.
In caso di rifiuto verrà inviata una email di comunicazione con una motivazione allegata.
a cura di Viviana Gravano
Tutte le declinazioni del termine “fascismo”, dopo la Seconda Guerra Mondiale e la conseguente caduta delle due principali dittature dell’inizio del XX secolo in Germania e in Italia, hanno acquisito un significato più largo, divenendo spesso un aggettivo generico per indicare chi si rifà esplicitamente a chi usa una violenza sistematica, chi ha atteggiamenti sopraffattori e a chi tenta di affermare un potere autarchico. Si è iniziato ad usare l’epiteto “fascista”, inteso in senso negativo, come esplicito insulto, in una maniera in qualche modo generica, popolarizzata, depotenziandone il significato originario, e attuale.
Si sente dare del fascista al presidente della Russia Putin, al neo-presidente statunitense Trump, al capo di stato di Israele Netanyahu, solo per citare alcuni esempi. Il dubbio che sorge è che questa dicitura, spalmata su qualsiasi forma di governo autoritario contemporaneo, finisca per innacquare le reali forme di neo-fascismo che rinascono in particolare in quei paesi dove il fascismo originario è nato. Questa considerazione non è una sottigliezza filologica, o un invito al purismo filosofico, ma parte dalla constatazione che la destra in Italia, ad esempio, quella che si ispira chiaramente al fascismo delle origini, o gli insorgenti movimenti neo-nazisti in Germania, hanno imparato a usare l’appropriazione linguistica e culturale per rigirare il significato delle fonti documentarie, e produrre revisionismi storici per sdoganare le rispettive dittature. Porre qualsiasi regime super conservatore, suprematista, nazionalista e razzista, in una sorta di calderone in cui “un po’ tutti” in fondo possono essere definiti fascisti, è una deriva perlomeno complessa, se non pericolosa. E chi sta costruendo nuove forme dittatoriali non a caso si sta impossessando di certe iconografie, non tanto per disegnare una reale aderenza ai principi dei fascismi originari, ma per poter avere una identità immaginifica facile da evocare. Questo ha portato a dire, ad esempio in Italia, che essere stati fascisti o comunisti era la stessa cosa, solo la faccia opposta della stessa medaglia, per poi raccontare la Resistenza come una guerra civile tra due parti avverse, colpevoli delle stesse violenze in momenti diversi.
Pluralizzare il termine “fascismo” in “fascismi” può acquistare un significato preciso: individuare tutte le forme che i neo-fascismi hanno creato nel tempo, declinando non generiche attitudini oligarchiche, ma ispirandosi a un preciso e circostanziato periodo storico, a una ben delineata visione culturale, a un pensiero filosofico e persino “scientifico”.
In questo numero di roots§routes magazine vogliamo parlare delle diverse eredità che il fascismo ha lasciato, attraverso una serie di variazioni successive, che mantengono un legame essenziale con la loro “casa madre”, che in Italia è quella del fascismo del duce. Quel fascismo mussoliniano, primo modello di fascismo in Europa, declinato poi nel nazismo genocida della Germania, e nelle due dittature di Francisco Franco in Spagna e di António de Oliveira Salazar in Portogallo, ambedue esplicitamente ispirate all’esperienza italiana.
Il dittatore italiano, fin dai suoi primi discorsi pubblici (Cfr. Ben-Ghiat, 2004), ha espresso la sua personale volontà di creare prima un movimento, e poi un potere, che seppure incorporato letteralmente nella sua figura, gli sarebbe sopravvissuto. Ogni atto politico, qualsiasi azione di comunicazione o culturale, erano mirate a immaginare un futuro del fascismo, ben oltre la breve vita del suo stesso fondatore. Questa considerazione deve far rileggere tutta la storia del fascismo in Italia, e oggi è ben chiaro, e più in generale in Europa, come una storia che non finisce con la morte di Mussolini e con la caduta formale del suo governo dittatoriale, ma scrive nuove pagine subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, e sa come sopravvivere in assoluta continuità con il periodo precedente.
L’architettura, le città di fondazione, la modifica dell’odonomastica pubblica, la produzione massiccia di riviste, periodici e libri, la produzione di un’arte di regime, la costruzione di un “corpo” fascista, l’invenzione di rituali collettivi, l’invasione delle colonie, sono atti che non hanno un valore legato al “qui e ora” di Mussolini come uomo, ma si innestano come radici profonde nel popolo italiano, disegnando immaginari e visioni collettive. Il post-regime, pur producendo una Repubblica costituzionale e antifascista nata dalla Resistenza, non ha potuto e né saputo, se non in minima parte, depotenziare le basi di un pensiero forte in Italia.
Il dopoguerra ha costruito a livello legale e istituzionale una continuità con la dittatura, in primis grazie all’indulto firmato dall’allora ministro comunista Palmiro Togliatti (Cfr. Franzinelli, 2016), che ha permesso di fatto il reintegro di tutte le figure chiave negli apparati dello stato come politici, amministratori e magistrati. Parallelamente si è poco parlato della massiccia ricollocazione delle persone del mondo della cultura nei loro posti di potere, riassorbite in una generica quanto falsa compagine antifascista, che ha negato da subito il coinvolgimento essenziale nella macchina della propaganda di regime di intellettuali e artist* di ogni genere. Intellettuali “indipendenti”, artist*, direttori e direttrici di musei, funzionari* degli apparati dei diversi ministeri della cultura e dell’istruzione, non hanno subito pressoché nessuna conseguenza dell’essere stat*, spesso non sottomessi al fascismo per paura o per necessità di sopravvivenza, ma perché partecipi in base a una loro evidente e dichiarata adesione. Veri e propri aedi di Mussolini, suoi fondamentali strumenti di persuasione di massa, promotori e promotrici delle aberrante visioni razziste del fascismo in centinaia di mostre, riviste e eventi pubblici, dal 1946 sono divenuti martiri del regime, vittime impossibilitate alla resistenza e quindi costrett* a una sorta di autoesilio in patria.
Ancora oggi si discute con grande acrimonia nel mondo accademico della storia dell’arte, sulla necessità di non stigmatizzare artisti come Sironi, Campigli, Carrà e Funi. Dunque, vorremmo rileggere alcune frasi dell’inizio del Manifesto della Pittura Murale, firmato dagli stessi artisti nel 1933: «Quello che fin d’ora si può e si deve fare, è sgombrare il problema che si pone agli artisti dai molti equivoci che sussistono. Nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione educatrice. Essa deve produrre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà a essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. La concezione individuale dell’‘arte per l’arte’ è superata» (Cfr. Pittura murale, 1932 e Manifesto della Pittura Murale, 1933).
Non solo emerge una più che chiara volontà di aderire al fascismo, ma appare altrettanto evidente l’intenzione di esserne lo strumento fondamentale di “educazione”, quindi di manipolazione collettiva. Come è possibile ancora oggi, produrre mostre e pubblicazioni che parlano di Sironi solo come creatore di capolavori, senza minimamente fare cenno al suo ruolo fondamentale di costruttore di un certo immaginario fascista? Nel catalogo della mostra a La Sapienza che nel 1985 celebrava il cinquantennale della fondazione dell’Università, il testo di Massimo Carrà, figlio del pittore Carlo, parlando dell’attitudine di suo padre nel dipingere il grande affresco Il Giudizio Universale per il Palazzo di Giustizia di Milano nel 1933, scrive: «Ed è un concetto che Carrà mostra di aver voluto perseguire nel dipingere questi due affreschi dove iconografia e narrazioni si rivelano come occasioni, o pretesti, in funzione dei valori di spazio, del ritmo compositivo e delle soluzioni formali» (M. Carrà, 1985, p.17).
In un paese come l’Italia, che vanta una storia di studi iconologici di altissimo valore, una ricerca di stampo warburghiano di lunga tradizione, si giustifica quasi sempre, come in questo caso appena citato, l’adesione al fascismo come una scelta che prescinde dai valori formali espressi, al di là delle implicazioni contenutistiche, etiche e di propaganda. L’equivoco più interessante di questa lettura assolutoria verso le arti in epoca fascista, è pensare che la riproposizione di stilemi e di forme neo-romane, l’uso iperbolico della monumentalità in pittura come in architettura, l’arcaismo, siano valori assoluti, adottati dagli/delle artist* in modo indipendente, e non come segni essenziali della adesione alle richieste estetiche del regime e di Mussolini in persona. L’arte al tempo del ventennio, a cui il duce ha permesso anche di cambiare forma molto più che in altre dittature, non certo per fluidità o tolleranza, ma per poter inglobare nel suo pensiero unico tutt* gli/le artist*, ha prodotto opere prone alle idee del regime, disegnandone immaginari profondi e radicati nella cultura italiana, tali da contaminare e alimentare ancora sotterraneamente quelli attuali.
Si è spesso parlato del fatto che le arti, nel senso larghissimo del termine, essendo di fondo nate a fini propagandistici per il regime, non possano in qualche modo nemmeno essere definite come “arti”, eliminando così alla radice il problema di porsi domande sul chi e sul come gli/le artist* contribuirono in maniera determinante all’affermazione del fascismo in Italia.
Questa posizione, apparentemente antifascista, nasconde la volontà di non affrontare in maniera chiare e finalmente decisa, le pesanti eredità culturali che il fascismo ha lasciato nel nostro paese, che in questo modo, etichettate solo come “propaganda” possono sfuggire a una seria analisi storica e iconologica, che ne rivelerebbe la loro pervicace presenza nei nostri immaginari di oggi.
In che modo i “fascismi” attuali vivono in maniera quotidiana e pervicace nei nostri spazi di vita?
Questo permette ad esempio, di mantenere in luoghi pubblici, che ci rappresentano come comunità di una Repubblica antifascista, oggetti simbolici, opere d’arte, che esaltano in modo chiaro simboli legati alla dittatura.
Quando nel 2017 Il Ministero dei Beni Culturali, decide di restaurare l’affresco L’Italia fra le arti e le scienze di Mario Sironi nell’Aula Magna dell’Università la Sapienza di Roma, fa riemergere i fasci littori, la scritta dell’anno fascista e Mussolini a cavallo su un arco romano, che un parziale intervento dei partigiani nel 1946 avevano rimosso. Una foto recente raffigura il Presidente Mattarella di spalle che assiste alla celebrazione ufficiale della restituzione del dipinto, e guarda l’affresco tornato al suo “originario splendore”. Il sito istituzionale dell’Università scrive nella scheda dedicata al restauro: «La scena fissata in una dimensione atemporale, si compone di figure monumentali che si dispongono ai lati dell’Italia: la Botanica, la Geologia, la Mineralogia, la Geografia, la Pittura, l’Architettura, la Scultura, la Giurisprudenza e la Letteratura. Figure che nel loro insieme alludono alla ricchezza e al valore della conoscenza, in uno scenario roccioso su cui domina imponente la figura della Vittoria alata. Con la caduta del fascismo, il dipinto venne occultato con fogli di carta da parati incollata e inchiodata sulla superficie pittorica. Nel 1950 il murale venne quasi interamente ridipinto per eliminare i simboli fascisti e annullare la matrice stilistica sironiana dell’opera» [1].
Un’arte di regime ha dunque il dono di restare atemporale. Sembra si dimentichi che le figure definite come monumentali e di chiara ascendenza neo-romana fanno riferimento alla vera ossessione di Mussolini per il ritorno alla potenza dell’impero romano, che servì per giustificare tra le altre cose all’occupazione e al genocidio di popolazioni nelle colonie italiane. Nel 1934, all’assemblea nazionale del PNF, Benito Mussolini dichiara: «[…] dopo la Roma dei Cesari, dopo quella dei Papi, c’è oggi una Roma, quella fascista, la quale con la simultaneità dell’antico e del moderno, si impone all’ammirazione del mondo». Il lavoro di rimozione dei simboli fascisti più espliciti da parte dei partigiani viene definito come un “occultamento” e come un tentativo di annullare la matrice “stilistica” di Sironi, che va quindi considerata come un assoluto valore al di là del suo essere foriera di un pensiero oppressivo e neo-imperiale (Cfr. Visser, 1992, p. 5).
Vogliamo invitarvi e invitarci a riflettere, in questi tempi di neo-fascismi dichiarati, filologici e non più malcelati, in che modo le eredità di quel tempo, pervicaci e diffuse nel nostro paese e sempre più spesso in Europa, siano oggi strumenti di pericolosa rinascita, e allo stesso tempo organismi culturali capaci di prendere nuove forme, di definire nuove accezioni, restando però di fondo fedeli a quelle istanze iniziali, a quegli immaginari e a quelle visioni che sono nate proprio per sapersi sempre riciclare e per permettere sempre di sopravvivere.
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Note
[1] Si veda il sito dell’Università La Sapienza al seguente link https://orientamento.uniroma1.it/views/cu/cu-aula-magna.html
Bibliografia
Ben-Ghiat R., Fascist Modernities, Italy, 1922-1945, Berkley-Los Angeles-London, University of California Press, 2001; trad. it. La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2004.
Carrà M., Carrà e la pittura murale, in cat. mostra 1935. Gli artisti nell’università e la questione della pittura murale, Università La Sapienza Multigrafica Editrice, Roma 1985.
Franzinelli M., L’amnistia Togliatti. 1946 Colpo di spugna sui crimini fascisti, Feltrinelli, Milano 2016.
Pittura murale, in «Il Popolo d’Italia», 1º gennaio 1932
Manifesto della Pittura Murale, in «Colonna», dicembre 1933.
Visser R., Fascist Doctrine and the Cult of the “Romanità”, in «Journal of Contemporary History», n. 27, 1992.
DEADLINE
PARTECIPAZIONE CALL FOR PROPOSALS
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invio abstract entro 03 marzo 2025
UNICA USCITA
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pubblicazione il 15 maggio 2025
consegna articolo entro 20 aprile 2025