Mercoledì 12 Dicembre 1995 – a 12 anni, 4 mesi e 8 giorni – mi innamorai per la prima volta di una graphic novel.
Non ero una novizia della nona arte. Da anni divoravo fumetti più o meno adatti alla mia età saltando con nonchalance dai personaggi allegri di Topolino alle torte rigurgitanti sangue di Dylan Dog. Ma quella fredda mattina d’inizio inverno, col cappello di lana ancora in testa e la cartella Invicta sulle spalle, mi aggiravo curiosa nel seminterrato della mia scuola elementare, trasformato per l’occasione in biblioteca itinerante. Era un’iniziativa di Rudy, l’eccentrico bibliotecario che, forte della sua missione di conquistare i concittadini al piacere della lettura, si presentava di tanto in tanto nelle scuole del paese con un furgoncino pieno di scatoloni. Spostava cattedre, svuotava palestre, spazzava pavimenti e li riempiva di tavoli su ruote, tutti perfettamente allineati, ogni centimetro occupato da libri.
In quel tripudio di parole noi bambini potevamo selezionare una sola lettura; e quasi congelati dall’ansia della decisione ci muovevamo cauti tra gli scaffali, sfogliavamo un tomo per poi riporlo al suo posto, temendo che il bibliotecario avrebbe prematuramente interpretato come scelta quella timida ispezione. Da mezzora sfioravo le copertine della sezione ‘Romanzi’ senza venirne ad una quando Rudy mi si avvicinò con uno strano libro in mano.
Era una graphic novel.
Il titolo Maus mi diceva poco e l’autore Art Spiegelman ancor meno, ma l’immagine della svastica in copertina circondata da topi vestiti da carcerati sollevò in me non poche riflessioni. Scoprii in seguito che le biblioteche di tutto il mondo abbondavano di racconti, film e fumetti sull’Olocausto. Ma mai più come in quel momento percepii chiaramente, in pochi tratti di matita e in un testo stringatissimo fitto di simboli, il vero orrore di quel massacro.
Attraverso uno stile giornalistico e allo stesso tempo artistico e coinvolgente, Maus racconta la vita quotidiana di Vladek, il padre dell’artista, internato ad Auschwitz e sopravvissuto al campo di concentramento. A differenza di altri libri sul tema non si propone di insegnare, non assume i toni retorici della lezione né pretende di ergersi a autorità morale. Eppure proprio attraverso il racconto di aneddoti famigliari e di eventi ‘da tutti i giorni’ Maus ti entra dentro immediato e penetrante, facendoti percepire l’incubo del Nazismo in ogni pagina, comunicando direttamente con la tua parte più umana.
Quella graphic novel, quella combinazione insolita di immagini simboliche e di poesia era in grado di parlare proprio a me, alla mia umanità. Com’era possibile?
Profondamente colpita dai super poteri di quel genere letterario, ne approfittai per consumare tutti i titoli più interessanti che mi capitarono fra le mani. Anni dopo appresi che Maus era considerato una forma di art-attivismo: un libro in grado di denunciare la violazione dei diritti umani grazie all’eloquenza visiva del reportage fotografico e al coinvolgimento emotivo proprio del prodotto artistico.
Sono passati più di 20 anni da quella prima incursione nel mondo delle graphic novel. I miei interessi sono maturati, i gusti impreziositi da centinaia di classici della letteratura e del cinema, le conoscenze approfondite da interminabili livelli d’educazione. Eppure la mia prima impressione non è cambiata, al contrario: l’amore infantile per le storie visive mi arde dentro come il primo giorno, e mi ha spinto a tuffarmi braccia e testa nella stesura e pubblicazione delle mie storie. È diventata la mia carriera.
Sono convinta che sia proprio la graphic novel, grazie alla sua capacità di rappresentare la realtà in modo diretto, la forma di espressione più umana su cui possiamo contare.
È umana perché si intrufola nella mente di tutti noi, mettendoci a disposizione una piattaforma per i pensieri e i timori più nascosti. È umana nella sua capacità di stabilire una comunicazione senza mediazioni tra autore e spettatore, esortando i contributi del primo e le interpretazioni del secondo a costruire insieme il senso dell’opera. È umana perché, usando le parole di Anstey & Bull, 2006, comunica un messaggio usando tre sistemi semiotici: quello linguistico, quello visivo e quello spaziale. Il primo prende in prestito dalla letteratura le parole e la narrazione, optando per un linguaggio conciso e funzionale alla storia, come quello dei dialoghi di un film. Il sistema visivo si riferisce alla scelta delle immagini, alla loro successione e inquadratura, mentre il sistema spaziale costruisce senso attraverso l’impaginazione, la vicinanza o distanza tra pannelli e la loro posizione nella pagina.
Questo intrecciarsi di registri, livelli e significati spinge il lettore a sviluppare nuove strategie di comprensione. Le modalità di lettura del racconto scritto e quelle d’ analisi di un’immagine non sono sufficienti: per capire una graphic novel bisogna far ricorso a interpretazioni interattive e multimodali, bisogna insomma utilizzare appieno la propria umanità.
Ma cosa si intende, esattamente, per umanità? Cosa fa di noi degli esseri umani?
Quando, all’età di 12 anni, mi ritrovai a leggere ‘Maus’ per la prima volta, quel che mi colpì non fu la descrizione degli eventi dell’Olocausto quanto la necessità dell’autore di raccontarli. Le pagine di Maus sono la strada su cui corre veloce una staffetta: quella tra le generazioni più anziane che hanno avuto esperienza diretta del Nazismo e le generazioni più giovani, che ne apprendono la testimonianza per la prima volta. I primi passano il testimone ai secondi, mantenendo vivo il ricordo e le lezioni imparate da precedenti disfatte.
La forza di questo libro in particolare, e delle graphic novel “d’attivismo” in generale, risiede proprio nella capacità di mantenere intatta la memoria. La estraggono dall’esperienza individuale per renderla collettiva; la strappano ai limiti temporali della vita fisica per affibbiargli i caratteri mitici dell’immortalità.
È la capacità di ricordare che ci rende umani.
Il dizionario Treccani ricorda che la memoria è “[…] la funzione psichica, che nell’uomo raggiunge il completo sviluppo, di riprodurre nella mente stati di coscienza passati (immagini, sensazioni, nozioni), di poterli riconoscere come tali e di localizzarli nello spazio e nel tempo”.
Le informazioni che abbiamo raccolto dall’ambiente esterno tramite gli organi di senso sono elaborate nel cervello sotto forma di ricordi. Questi ci permettono di imparare, di sviluppare la nostra intelligenza e di potenziare le capacità cognitive, psichiche e fisiche di ognuno di noi.
È grazie alla memoria se possiamo sviluppare il senso del sé.
Ma come chiunque dotato di un cervello sarà in grado di testimoniare, la memoria individuale è tutt’altro che perfetta. Dimentichiamo regolarmente quel che è successo poche ore prima o rammentiamo eventi che non si sono sviluppati nelle modalità in cui li abbiamo archiviati. Sin da quando i nostri preistorici antenati, armati di pigmenti di grasso animale, diedero forma ai loro ricordi sulle pareti delle caverne, cerchiamo di aggirare la fallacia della memoria inventandoci supporti esterni più duraturi. La scrittura, la musica, la fotografia, il cinema, il computer: il processo di potenziamento della nostra memoria si è intensificato esponenzialmente negli ultimi anni, tanto che oggi, senza i ricordi raccolti nella Cloud, il nostro senso del sé rischierebbe di sgretolarsi.
La “Nuvola” non è altro che una piattaforma di archiviazione accessibile a internet in ogni momento e luogo. Alzi la mano chi, dimenticato a casa il cellulare, non si è perso in strade sconosciute a causa dell’assenza del fidato Google Maps, o non si è presentato ad appuntamenti registrati in calendario perché non poteva ricordarne i dettagli. Se la memoria, oggi, esiste in gran parte fuori dalla nostra testa, e ha trovato nei dispositivi tecnologici che ci portiamo dietro un contesto molto più efficace, la domanda sorge spontanea.
Cosa accade quando permettiamo alla tecnologia di intervenire sui nostri ricordi?
È questa la premessa della mia ultima creazione, Brainbud.
20 anni dopo l’ormai famoso colpo di fulmine con Maus, in seguito a 7305 giorni spesi a leggere, imparare, scrivere e disegnare, eccomi a esplorare il tema della memoria e della sua fallacia in una mia graphic novel. Un tentativo di art-attivismo radicato nel genere della “speculative fiction”, questo libro prende spunto da fenomeni rilevanti della nostra comunità e ne ipotizza l’ evoluzione in un futuro prossimo, non ancora esistente ma del tutto credibile.
In Brainbud immagino una società dipendente, appunto, da Brainbud (letteralmente ‘amico del cervello’): un trattamento clinico per la ricostruzione dei ricordi.
C’è davvero bisogno di sottoporre a cure mediche la nostra memoria? Le statistiche sembrano propendere in questa direzione. Demenza senile, Alzheimer, gravi forme di amnesia: in seguito all’aumento dell’aspettativa di vita, le patologie e i disturbi della memoria incidono in maniera sempre più devastante nella nostra quotidianità. Come riportato dalla Bright Focus Foundation, al mondo ne sono affetti quasi 50 milioni di individui, specialmente in Europa, dove le varie forme di demenza costituiscono una delle principali cause di mortalità.
Come arginare questa crisi sanitaria incalzante?
Nella mia graphic novel la soluzione proviene da un gruppo di scienziate, impegnate a elaborare un sistema a cavallo tra neuroscienza e intelligenza artificiale. Brainbud è un dispositivo intra-auricolare che rileva i segnali elettrici del cervello associati alla memoria. Li archivia in un’applicazione digitale esterna, per sua natura impermeabile al deterioramento delle malattie, attraverso un modello di ‘deep -learning’ o apprendimento profondo. È questa una forma di machine learning che, attraverso l’ottimizzazione di processi di intelligenza artificiale, imita il modo in cui noi umani acquisiamo nuove conoscenze. Esponendo le reti neurali artificiali ad ampie quantità di dati, il deep learning insegna a una macchina – in questo caso il nostro Brainbud – come eseguire una serie di compiti e come ricordare eventi passati.
Fantascienza? Forse. Ma iniziative scientifiche di questo tipo sono in circolazione già da tempo. Basti pensare all’Human Connectome Project , lanciato nell’ormai lontano 2009 dalla National Institutes of Health, il cui obiettivo è costruire una mappa del cervello per individuarne le connettività anatomiche e funzionali, nella speranza di combattere le malattie dell’Alzheimer e della schizofrenia. E che dire di Neuralink, la compagnia statunitense di neurotecnologia dedicata allo sviluppo di connettori cervello-macchina? I suoi prodotti sono interfacce a banda larga che mettono il cervello in comunicazione con il computer. Consistono in un impianto inserito nel cervello che, attraverso una serie di minuscoli fili elettrici, capta il segnale elettrico dei neuroni e li immagazzina in un’ applicazione accessibile su computer e cellulare. Questa tecnologia si ripromette di curare una varietà di disturbi motori, sensoriali e neurologici tra cui, per l’appunto, quelli della memoria.
Non sono forse le stesse premesse di Brainbud?
Dopo anni di prove e tentativi, il progetto che racconto nella mia graphic novel raggiunge i suoi primi risultati. Permette infatti agli utenti di archiviare e rivivere i loro ricordi con l’accuratezza sensoriale delle percezione originale, e persino di condividerli con altri. A pensarci bene, la condivisione dei dati è lo stesso fenomeno alla base di Internet e della Cloud. Chiunque si trovi a caricare informazioni su Internet contribuisce a consolidare una super memoria collettiva, onnipresente e pervasiva, ricca di immagini, filmati, fotografie e testi che ogni utente potrà consumare, scaricare o modificare. Non è un caso che Brainbud funzioni allo stesso modo. Collegando tra loro le memorie personali degli utenti, il sistema getta le basi per una super memoria perfettamente funzionante e impervia ai danni fisici del tempo, in grado di aggirare le fragilità delle memorie individuali.
Ma quale sarà l’impatto sulle nostre funzioni biologiche di un’invenzione di questo tipo? Siamo ancora umani se permettiamo alla tecnologia di stravolgere la nostra memoria?
È qui che questa graphic novel, da racconto di finzione, si muove decisamente verso la critica della nostra, tutt’altro che fittizia, società. In Brainbud racconto cosa accadrebbe in un mondo incapace di opporsi al consumismo. Un mondo del tutto simile al nostro, dominato dalla legge del mercato e dai flutti imprevedibili della concorrenza. Un mondo in cui, se la nostra scienza avesse già raggiunto i livelli di conoscenza necessari per lo sviluppo di Brainbud, probabilmente si verificherebbero conseguenze non del tutto diverse da quelle ipotizzate nella storia.
Che cosa succede allora, senza spoilerare completamente il racconto? Quello che capita ad ogni servizio ridotto a mero prodotto di consumo.
Da trattamento esclusivo per pazienti con disturbi alla memoria, Brainbud si getta anima e corpo nella piscina dell’ideologia di Mercato fino a tramutarsi in qualcosa di irriconoscibile dal progetto iniziale. Giunge al punto di commercializzare quanto di più privato e autentico ci portiamo dentro: i nostri ricordi. Pubblicizzato come il modo più efficace di comprare i ricordi di altre persone e d’ accumularne le conoscenze senza sforzo, con applicazioni sempre più potenti nel campo dell’educazione, del lavoro, della difesa, persino dei trasporti e della sicurezza, Brainbud diventa essenziale al funzionamento della società. La dipendenza che si trova a generare nei suoi utenti e il conseguente sovraccarico delle funzioni cognitive umane condurrà a un immancabile disfacimento della società e del sistema stesso.
Come accennato in precedenza, l’archiviazione della memoria fa parte del nostro quotidiano da sempre. Tuttavia, solo da qualche decennio la realtà virtuale e il DeepFake sono passati dal conservare i nostri ricordi a alterarli. Si tratta di sistemi che, se adottati in maniera acritica, contaminano la nostra autenticità e senso del sé, esortandoci a essere qualcun altro, qualcuno costruito a tavolino. Il modo in cui la tecnologia sta cambiando la nostra quotidianità ci tocca tutti da vicino; ed è proprio esplorando il rapporto di dipendenza tra uomini e tecnologia, e le sue conseguenze nella vita reale, che questa graphic novel si propone di lanciare un sasso nel lago delle riflessioni sul tema. Sperando che un giorno, chissà, queste pietre si adagino una sopra l’altra, costruendo strutture nuove e accattivanti, capaci di proporre un’ alternativa al corrente paesaggio dominante del consumismo.
Ecco le prime pagine del Secondo capitolo, in cui Eva e Gina, due scienziate appassionate di tecnologia e amiche d’infanzia, gettano le basi del loro trattamento clinico Brainbud. La memoria e la sua fallacia sono i temi attorno a cui ruota la graphic novel: per rappresentare l’andamento non lineare dei ricordi, la narrazione oscilla tra livelli temporali, facendo uso di flash-back e flash-forward. Copyright testo e immagine Bruna Martini.
Ecco le pagine del Terzo capitolo in cui Brainbud, raggiunto il successo scientifico, subisce un’imprevedibile mutazione. Copyright testo e immagine Bruna Martini.
Bruna Martini è un’artista multimediale che vive tra l’Italia e Londra. Con un master di fotografia alle spalle e un decennio di esperienze nel campo dell’illustrazione e della cinematografia, i suoi lavori esplorano le commistioni tra generi d’espressione, sviluppando inediti matrimoni di girato e disegni, interviste e animazioni, pennelli e fotografie. Ha girato cortometraggi a sfondo ambientale e femminista che si sono aggiudicati premi in festival internazionali e nazionali.
Bruna ha pubblicato la sua prima graphic novel Patria. Crescere in tempo di guerra (BeccoGiallo) a inizio 2021. L’opera è stata selezionata tra i cinque migliori fumetti del 2021 dall’“Indiscreto” e ha ricevuto un encomio ufficiale da parte del Presidente della Repubblica Mattarella per il suo contenuto antifascista. Il suo secondo fumetto I Disertori – un’epica su identità nazionale e emigrazione italiana in Sudamerica – è in uscita con BeccoGiallo a inizio 2023.
Il suo ultimo libro Brainbud è in cerca di editore.
www.brunamartini.com