aurale agg. [dall’ingl. aural, der. del lat. auris «orecchio»]. – Nel linguaggio tecnico-scientifico, che si riferisce o appartiene al senso dell’udito, e quindi alla trasmissione dei suoni: informazioni aurali. [1]
Dietro all’immobilità fisica delle opere e al (quasi) silenzio delle sale, si cela la frenesia di pensieri, voci e sguardi dei visitatori, che si trovano davanti (spesso per la prima e unica volta) a lavori fra i più emozionanti e significativi della storia dell’arte.
Il mio progetto vuole raccogliere e far tesoro di questo brusio frenetico di pensieri. Non si tratta tanto di pareri estetici o annotazioni critiche, è piuttosto un intricato susseguirsi di riflessioni e considerazioni personali, spontanee e sincere, forse anche ingenue e naïve, ma che celebrano e manifestano il potere generativo di senso che ha l’arte. [2]
Il museo dovrebbe fungere da generatore di senso per il proprio pubblico, stimolando la curiosità, suscitando reazioni. Solitamente, i riscontri del pubblico cosiddetto “generico”, aggettivo in effetti lievemente screditante e dalle allusioni farmaceutiche, sono destinati a rimanere sotto traccia, non (r)accolti quindi destinati alla dispersione. Al contrario i resoconti, commenti e osservazioni del pubblico “specialistico” si trovano formalizzati e reperibili facilmente per la consultazione. Dunque si può affermare che i commenti del pubblico dei non-addetti ai lavori siano da ricondurre a quella categoria del detto sottovoce, così basso da non essere quasi percepito, tanto da confondersi con il brusio ambientale che accompagna le visite nei musei. Ma siamo certi sia giusto assecondare questa suddivisione gerarchica – quella, appunto, tra pubblico specialistico e pubblico generico? Attraverso questo quesito non si vuole sottovalutare il percorso altamente periglioso e selettivo, compiuto da chi ha avuto il merito (e probabilmente anche un pizzico di fortuna) di divenire una voce o una firma autorevole. Non si intende altresì proporre una rivoluzione, una sovversione dell’ordine precostituito. Per quanto, con tutta probabilità, si configurerebbe come un esercizio dai risultati inattesi. Tuttavia, siamo certi che i commenti del pubblico specialistico siano più meritevoli di attenzione rispetto a quelli espressi sottovoce da coloro che non presentano una particolare formazione? In quale modo raccogliere e restituire, conferire una dignità a questi commenti, amplificare il brusio del pubblico di fronte alle opere esposte in un museo? E infine: tali commenti possono rivestire un’importanza e orientare successivi allestimenti da parte di conservatori, allestitori, curatori?
Claire Bishop prende posizione, anche se, va sottolineato, con specifico riguardo alla situazione e alle politiche culturali dei musei d’arte contemporanea, avanzando l’ipotesi critica di una “contemporaneità dialettica” che non designa uno stile o un periodo in sé, quanto piuttosto un modo di accostarsi alle opere (Bishop, 2017 p. 13). «Questo guardare alla storia» scrive Bishop «restando concentrati sul presente, permette di comprendere l’oggi con uno sguardo al futuro e reimmaginare il museo come un agente attivo, calato nella storia, che pone domande e articola un dissenso creativo. Non vuole uno spettatore incantato in una contemplazione auratica di singole opere, ma uno consapevole di avere di fronte questioni e posizioni da leggere e magari contestare. Infine, defeticizza gli oggetti, accostando sempre opere d’arte a materiale documentario, copie e ricostruzioni. Il contemporaneo non è più una questione di periodizzazione o un discorso, ma piuttosto un metodo o una pratica, potenzialmente applicabile a ogni periodo storico» (Bishop, 2017 p. 67).
“Il presente intervento intende ragionare appunto sulla relazione, troppo spesso non raccontata, tra le opere conservate in un museo storico e il pubblico non specialista, applicando il filtro di una sensibilità artistica contemporanea: immettendovi una sensibilità artistica contemporanea. Vediamo dunque cosa accade quando un artista entra in un museo riflettendo proprio sulle relazioni tra opera e pubblico, quale metodo applica per dare una nuova voce e dignità alla fruizione e agli esercizi di apprezzamento da parte di quest’ultimo. La mia riflessione si articola prendendo le mosse da un progetto – Aurale. Brusii per audioguide di Claudio Beorchia – che, a mio parere, è riuscito in una per nulla scontata impresa di raccolta, rielaborazione e restituzione delle manifestazioni spontanee del pubblico di fronte alle opere d’arte.
Partiamo dal titolo e dalla scelta di questo aggettivo: aurale. Esso richiama certamente il celebre testo di Walter Benjamin rispetto al concetto di aura, all’unicità e alla preziosità dell’opera d’arte; anche l’aggettivo aureo è del resto prossimo nella sequenza del dizionario. Ma la scelta di questo aggettivo è soprattutto legata alla natura dell’intervento: un invito a prestare attenzione, a sintonizzarsi sulle frequenze basse dei brusii del pubblico.
Si tratta di un progetto artistico che è stato selezionato in occasione della Prima Residenza d’Artista organizzata dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia: un progetto, in pratica, già destinato a entrare nella storia recente dell’istituzione veneziana. Beorchia presenta un trascorso da musicista, sa bene quanto l’ascolto rivesta una valenza fondamentale – la distinzione dei suoni, la loro riproducibilità e accordo. Aurale è in effetti un progetto che si basa sull’udito: l’ascolto lo genera e attraverso l’ascolto può essere successivamente riprodotto ad infinitum. Ed ecco i non detti del pubblico che, come è stato già sottolineato, restano tali in quanto non effettivamente taciuti ma per il fatto di non essere stati sedimentati. Beorchia li rimette a disposizione del pubblico, di quanti abbiano intenzione di riascoltarli.
Nel corso dei mesi di permanenza nelle sale del museo, infatti, l’artista ha prima di tutto annotato diligentemente i commenti “origliati” dal pubblico, suddividendoli per sala e per opera, quindi riversandoli in un database appositamente concepito, funzionale al facile reperimento di queste informazioni.
Le trascrizioni ordinate dall’artista hanno costituito la base per la composizione di un testo: in quanto progetto artistico e non scientifico, a Beorchia era ovviamente concesso un certo margine di libertà, inoltre non gli era richiesto di essere esaustivo.
In una fase successiva, il testo è stato animato attraverso le voci di coloro che nel museo lavorano – coinvolgendo in maniera assolutamente trasversale tutte le professionalità del museo. Non stupisce l’entusiasmo, tangibile in occasione dell’inaugurazione della mostra di presentazione finale dell’intervento di Beorchia, e la partecipazione da parte di coloro che hanno deciso di prestare la voce, conferendo una dignità inedita alle reazioni del pubblico.
Le derivanti registrazioni sono quindi confluite all’interno di in un’audioguida in edizione limitata, decorata dall’artista secondo ispirazioni cromatiche che attingono alle opere d’arte, nelle quali l’artista si è trovato immerso per il periodo della residenza. Per circa un mese, queste audioguide hanno affiancato quella ufficiale del museo, con la differenza sostanziale della gratuità della distribuzione. Erano infatti offerte all’ascolto a chiunque ne facesse esplicita richiesta, anche inconsapevole del percorso che le aveva generate, ma sicuramente attratto da questi feticci dipinti a mano, appoggiati su un prezioso cuscino.
Al centro della mappa delle professionalità museali è collocato il direttore, la figura centrale e inderogabile del museo. Il direttore è̀ il garante dell’attività del museo nei confronti dell’amministrazione responsabile, della comunità scientifica e dei cittadini. A lui afferisce la piena responsabilità dell’attuazione della missione e delle politiche del museo, della sua gestione, della conservazione, valorizzazione, promozione e godimento pubblico delle collezioni, nonchè della ricerca scientifica svolta dal museo. È il responsabile diretto e indiretto delle risorse umane e finanziarie, dell’attuazione delle funzioni del museo e dell’insieme delle sue relazioni interne ed esterne.[3]
Veniamo ora alla cornice istituzionale e all’inquadramento della principale sostenitrice e fautrice della Residenza – la direttrice delle Gallerie dell’Accademia al tempo della messa a bando dell’iniziativa. Per effetto di una procedura di selezione internazionale fortemente voluta dall’ex- ministro Dario Franceschini, svoltasi nell’estate del 2015 e definita dai media “la rivoluzione Franceschini”[4], vennero selezionati venti nuovi direttori per altrettante importanti istituzioni pubbliche – quote rosa al pari di quelle blu: dieci donne e dieci uomini. Tra i nomi selezionati, compariva quello della veronese Paola Marini, distintasi per la sua specializzazione in arte veneta. Nell’ottobre 2018, dopo appena tre anni di attività, la direttrice si vide costretta a lasciare l’incarico per sopraggiunti limiti di età. Nel corso della brevissima direzione, Marini ha dovuto relazionarsi con la contingente problematica della contrazione della superficie espositiva, a causa del cantiere ancora in atto, e quindi con la sfida di un riallestimento, in pillole, del rilevante patrimonio delle Gallerie. Il percorso espositivo, che ancora conserva alcuni dispositivi espositivi progettati da Carlo Scarpa, è stato arricchito e affiancato da una proposta di mostre temporanee.
Ogni direttore cerca di lasciare traccia del proprio passaggio, una sorta di legato culturale che può essere rintracciato nei progetti di espansione architettonica degli spazi, riallestimenti delle collezioni, arricchimento delle collezioni che può restare per molto tempo “non detto” all’interno dei depositi in attesa di essere riscoperto. Quello che ci interessa rilevare in questa sede è una peculiare apertura verso il contemporaneo attuata da Paola Marini attraverso la mostra di Philip Guston (1913- 1980) e di Georg Baselitz (1938 -)[5], entrambe curate dal basco Kosme de Barañano, in simultanea con l’apertura delle ultime due edizioni della Biennale Arte di Venezia. Il dialogo con il contemporaneo per Marini non si è cristallizzato soltanto nella realizzazione di queste mostre, come ha modo di annotare la stessa all’interno del catalogo della mostra dedicata all’opera di Baselitz: «Sollecitata dallo sguardo degli artisti, oltre che di orgogliosi cittadini, di attenti studiosi, di turisti sempre più numerosi e globalizzati, i capolavori della raccolta veneziana sono capaci di suscitare interrogativi e risposte sempre nuovi. Ed è anche per questo che in concomitanza con la grande retrospettiva di uno dei pittori più importanti e influenti dell’ultimo mezzo secolo, il primo artista vivente a cui dedichiamo una mostra, siamo lieti di presentare, in un apposito spazio, il risultato della prima edizione di una Residenza d’Artista che ha portato Claudio Beorchia in Laguna per realizzare un originale progetto artistico consacrato al rapporto tra il museo e il suo pubblico» (Marini, 2019, p. 8).
La direttrice verrà certamente ricordata per aver fortemente caldeggiato l’istituzione di questa prima Residenza d’artista. I programmi di questo tipo, internazionalmente noti attraverso l’acronimo A.I.R. (Artist in Residence), si potrebbero far risalire al Prix de Rome, istituito addirittura sotto il regno di Luigi XIV e finanziato dallo Stato francese come riconoscimento per i più talentuosi studenti dell’Accademia, che potevano così trascorrere un anno di formazione e studio a Roma. Lucia Giardino, oltre a ricostruire la genesi di questi programmi di scambio culturale, ne ha affrontato le declinazioni nell’epoca globale, arrivando a identificare gli artisti selezionati per questi programmi come “esploratori del Terzo Millennio” (Giardino, 2012). Nello specifico, l’artista selezionato per la residenza veneziana ha in effetti potuto esplorare e risiedere in diversi paesi, proprio attraverso una sorprendete enfilade di residenze, come testimoniato nel suo curriculum [6]. La cosa abbastanza sorprendente da notare è che mentre Baselitz ha alle sue spalle la potente galleria Gagosian, Beorchia non ha ancora trovato una galleria che lo rappresenti o che lo sostenga finanziariamente. Tuttavia proprio attraverso le residenze artistiche, trova il modo di finanziare e realizzare i propri progetti.
Nei panni di un custode curioso
- Vestirsi come un guardia sala e aggirarsi in incognito per le Gallerie. Ascoltare con attenzione ciò che dicono i visitatori davanti alle opere; eventualmente interagire con loro, dando il via a dialoghi e considerazioni. Annotare gli scambi più poetici e originali che scaturiscono dall’osservazione delle opere, ma anche quelli più inattesi, intimi e personali a cui le opere assistono.
- Rielaborare le annotazioni raccolte in un’operazione letteraria sperimentale, dando vita ad un testo che racconti con coralità il rapporto fra i visitatori e l’ambiente delle Gallerie, il legame che si viene a creare fra gli osservatori e le varie opere che si susseguono nelle sale.
- Realizzare una registrazione audio del testo elaborato; organizzarla e implementarla nei dispositivi audioguida delle Gallerie. Mettere le audioguide a disposizione dei visitatori [7].
Il 19 settembre 2018 il sito del museo pubblicava la notizia relativa al vincitore della Prima edizione della Residenza d’ Artista [8]. La Residenza presentava ovviamente dei vincoli: riflettere sulla realtà specifica dell’istituzione ospitante e depositare una traccia tangibile all’interno del museo, un’opera destinata a fare parte del suo patrimonio, delle sue collezioni. Claudio Beorchia ha risposto a questi due vincoli presentando un progetto intrinsecamente site responsive in quanto traeva ispirazione e nutrimento dal luogo che lo ospitava, ma soprattutto dal capitale umano che vi transitava: il pubblico. Si è trattato di un progetto human specific perché agiva e traeva ispirazione dal tessuto antroposferico, presente al pari di quello sedimentato nel museo: custodi e pubblico, ma anche, ovviamente, opere d’arte prodotte da altri uomini. In questa fitta rete di relazioni tra passato e presente si innesta poi il corpo dell’artista: la sua sensibilità e autorialità, che ne determinano la sintesi e la selezione (testuale) finale. Un’opera che, come suggerito dal suo titolo, si trova materialmente depositata all’interno di audioguide in esemplari limitati e dalla veste riconoscibile, anche rispetto alle audioguide già in uso presso il museo. Una delle caratteristiche dei lavori di Beorchia risiede nella particolare attenzione e utilizzo della scrittura a partire dalle tre istruzioni o regole che si è autoimposto e che ho riportato nella citazione di apertura.
Sulla scorta di queste istruzioni, si delinea un intervento artistico che potremmo classificare, situare tra il performativo e il relazionale. La relazione è un concetto particolarmente stringente per questo progetto in quanto ne determina oltre che l’andamento, lo sviluppo, ma anche l’esito e la formalizzazione finali. Infatti è proprio dalla relazione con i visitatori (attraverso l’ascolto delle loro reazioni di fronte alle opere) e dal contributo offerto dal personale del museo, che vengono generate le audioguide di Beorchia, contenenti una riscrittura del brusio del pubblico. Queste speciali audioguide vengono quindi distribuite gratuitamente ai visitatori che ne facciano richiesta, instaurando in questo modo ulteriori flussi di relazioni.
Quale sarà lo stupore dei visitatori, una volta entrati in possesso della decorata audioguida nel sentire, al posto di una spiegazione piana, monocorde ma storicamente sostenibile, questo genere di comunicazioni:
SALA XX
“Sediamoci, che sembra di essere su una panchina in Campo.
Come stare in una piccola Piazza San Marco.
Passami il binocolo.
Ci sono cose diverse: tanti più camini, il ponte è di legno, le gondole hanno il tettuccio…
Quante volte siamo venute in queste sale a vedere i personaggi dipinti, è come far visita a vecchi amici.
(…)
Andiamo a vedere com’era Rialto.
Chissà se l’acqua era pulita in quell’epoca.
(…)
Mi sa che era la capitale della moda prima di Milano.
Sembra una sfilata, una gara di bellezza.
(…)
Mi sembra una Venezia laica e aperta.
Sono dipinti che, con la scusa delle vicende sacre, raccontano un mondo di altre cose.
Tutte queste figure sembrano muoversi e procedere da un quadro all’altro, è un flusso di umanità…
Beh, dai, non è poi così diversa la città oggi.
Questa Venezia è riconoscibile, ma non esiste più.
Vedi Venezia e poi muori.” [9]
Nel periodo della Residenza, oltre alla presenza nelle sale per la raccolta del materiale (brusii), l’artista ha anche avuto modo di organizzare tre laboratori didattici rivolti famiglie e bambini dai 6 anni di età, e diversi incontri con gli studenti frequentanti alcuni corsi universitari a Venezia [10].
Insomma, sia attraverso una presenza pervasiva all’interno del museo, sia attraverso l’incontro con giovani in formazione, Beorchia si è messo al servizio del Museo, tendendo, è il caso di dirlo, orecchie e mani verso il pubblico. La mostra finale legata agli interventi artistici progettati, sviluppati e quindi realizzati a Venezia, nel corso della Residenza, è rimasta aperta al pubblico per un mese, dal 12 aprile al 12 maggio. Occupava lo spazio di una delle sale, alle spalle della biglietteria, restaurate di recente (2015) dal figlio di Scarpa, Tobia. Erano esposti all’interno di teche una delle quattro audioguide; un leporello contenente il manoscritto dell’artista; una mappa del percorso del museo rielaborata dall’artista che proponeva un’originale circolazione e fruizione del percorso – una sorta di caccia all’opera d’arte; su alcuni schermi a parete veniva trasmesso il video-documentario dell’intera attività.
I materiali prodotti in occasione della Residenza assegnata a Claudio Beorchia si trovano in questo momento catalogati e inseriti in una cassa conservativa in deposito presso le collezioni del Museo. In questa cassa sono presenti le audioguide decorate dall’artista, il cuscino in velluto e passamaneria sul quale erano poggiate, i quaderni e i materiali relativi al lavoro di trascrizione, anche l’abito indossato da Beorchia durante i mesi di residenza e il suo badge.[11] La loro vita futura resta tutta da scrivere, se e in quali contesti questi materiali verranno utilizzati in occasioni di altre mostre o richiesti in prestito da altre istituzioni. In attesa di rivelare il loro potenziale di riflessione sulla vocazione universale delle opere d’arte conservate nei musei, trascendendo i confini istituzionali dell’istituzione che ha ospitato e sostenuto il progetto di Beorchia. A breve, con tutta probabilità, i file audio contenuti nelle guide realizzate dall’artista verranno messi online sul sito istituzionale a disposizione di tutti.
Il 15 maggio 2019, l’ANSA annuncia che sarà Giulio Manieri Elia a dirigere le Gallerie dell’Accademia di Venezia. [12] Una nuova pagina nella storia dell’istituzione veneziana sta per essere scritta, restiamo in attesa di capire se Manieri Elia seguirà le orme di Marini rispetto al contemporaneo e rispetto ai futuri sviluppi della Residenza d’Artista.
Gli artisti sono capaci attraverso la loro sensibilità, creatività e intuizione di mostrarci percorsi nuovi, nuove traiettorie o di indicarci una nuova possibile modalità di rilettura, a volte addirittura di riscrittura della storia. Un caso particolarmente emblematico in tal senso è stato certamente il celebre progetto espositivo concepito dall’artista afroamericano Fred Wilson, Mining the Museum, una collaborazione tra il Contemporary Museum e la Maryland Historical Society di Baltimora (4 aprile 1992 – 28 febbraio 1993) (Corrin 1994). Attraverso quella ormai leggendaria esposizione, Wilson fu capace di mostrarci attraverso il medium espositivo gli aspetti più scabrosi e le omissioni storiche, frutto di uno scavo, una ricerca all’interno dei depositi. Wilson, un artista concettuale e non uno storico, fece emergere la brutalità del passato schiavista, “semplicemente” selezionando ed esponendo alcuni pezzi rimasti sepolti in un deposito.
Certamente l’attivazione della Residenza d’artista alle Gallerie dell’Accademia di Venezia ha portato una nuova linfa al museo, in un momento non semplice di passaggio di consegne ai vertici, ribadendo la vitalità sottesa, serpeggiante tra le sale, nella relazione tra pubblico e opera.
La bellezza, per dirla con le parole di Salvatore Settis, va coltivata ogni giorno dai vivi se vogliamo che qualcosa resti. Tutti siamo chiamati a farci promotori della vitalità della bellezza se intendiamo preservarla per le generazioni che verranno e renderla presente nelle nostre vite (Settis 2014). Il progetto di Beorchia ci manifesta, con tutta la semplicità e la verità della sua sorgente popolare, quanto la bellezza presente nel patrimonio sia capace di palesarsi, rendersi significante e significativa non soltanto per gli eruditi e per i funzionari del Ministero, una netta minoranza della popolazione che da sola non può porsi come unica promotrice della sua tutela.
Note
[1] Treccani, (consultato 14 aprile 2019).
[2] Dalla proposta progettuale Aurale. Brusii per audioguide, p. 2, testo inedito, per gentile concessione dell’artista che ringrazio per la disponibilità, per avere generosamente risposto alle mie domande e, a volte, provocazioni.
[3] Carta nazionale delle professioni museali 2008, p. 7, disponibile al link (consultato 20 giugno 2019).
[4] Il Sole24Ore
[5] Rispettivamente: Philip Guston and the Poets (10 maggio – 3 settembre 2017) e Baselitz Academy (8 maggio – 8 settembre 2019). Nel caso di Baselitz il catalogo è stato realizzato insieme alla galleria Gagosian.
[6] Claudio Beorchia (consultato 10 maggio 2019).
[7] Dalla proposta progettuale Aurale. Brusii per audioguide, p. 1.
[8] La commissione presieduta da Paola Marini, direttrice delle Gallerie, e formata da Michele Tavola (Gallerie dell’Accademia di Venezia), Gloria Vallese (Accademia di Belle Arti di Venezia), Liza Fior (We are here Venice e muf architecture/art) e Angela Vettese (Università IUAV di Venezia). Il progetto è stato organizzato dal Museo in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, con l’associazione We are here Venice, presieduta da Jane Da Mosto, e con il fondamentale sostegno di London Stock Exchange Group Foundation e di altri donatori. Beorchia è stato selezionato all’interno di cinquantaquattro progetti pervenuti da parte di artisti provenienti da sei diversi paesi europei (Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia, Svizzera). Fonte (consultato 8 aprile 2019).
[9] Estratto dal testo di Claudio Beorchia, per gentile concessione dell’artista.
[10] I laboratori “Collage con l’artista” hanno avuto luogo il 27 gennaio, 24 febbraio e 17 marzo 2019, a loro finalità principale era quella di consentire, attraverso una serie di esercitazioni di manipolazione, di rafforzare l’osservazione delle opere d’arte
[11] Dalla bozza relativa all’inventario consultata dall’artista.
[12] Ansa (consultato 15 maggio 2019).
Bibliografia
Bishop C., Museologia radicale, Monza, Johan & Levi Editore, 2017 (2013).
Corrin G. L., Mining the Museum an Installation by Fred Wilson, New York, New Press 1994.
de Barañano K. (a cura di), Baselitz Academy con un’introduzione di Paola Marini e un testo di Michele Tavola, New York, Gagosian 2019.
Giardino L., “Artists in Residence: the Explorers of the Third Millenium”, in Florence in Italy and abroad from Vespucci to Contemporary Innovators, Firenze, Florence Campus Publishing House, 2012, pp. 150-164.
Settis S., Se Venezia muore, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2014.
Eleonora Charans (Avellino, 1979), storica dell’arte e delle esposizioni, è Dottore di ricerca in Teorie e Storia delle Arti presso la Scuola di Studi Avanzati in Venezia, con una tesi sulla collezione di Egidio Marzona. È docente a contratto per il corso “Exhibitions, New Media and Performing Arts”, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento delle Arti, laurea magistrale nuovo curriculum internazionale Arts Museology and Curatorship (AMaC).