Teens Curators è il progetto di Palazzo Grassi dedicato all3 adolescenti; nasce nel 2013 con la volontà di ri-concepire lo spazio del museo dal loro punto di vista, ascoltandol3 e riconoscendo loro un ruolo attivo e creativo. L’opera d’arte offre l’opportunità di riflettere e argomentare su temi universali e contemporanei, trattati in modo spesso polisemico e provocatorio: l’adolescente al museo incontra questo mondo e sviluppa connessioni tra la sua esperienza personale e l’opera esposta, trovando uno spazio di autoaffermazione e di confronto con l’altro. La modalità peer-to-peer, che vede nell’adulto un facilitatore e non il depositario di un sapere indiscutibile, rende possibile l’espressione libera e la discussione.
Nell’ultima edizione, per un intero semestre, l3 partecipanti hanno attraversato le sale di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, osservato il comportamento dell3 visitator3 e ragionato sulle possibili strategie di mediazione per un pubblico di coetan3. A partire dalle mostre Marlene Dumas. open–end a Palazzo Grassi e Icônes a Punta della Dogana l3 ragazz3 si sono soffermat3 sul museo come un luogo dove sentirsi liber3, ascoltat3 e dove ascoltare a propria volta, dando origine a una zona di scambio e conversazione. Incontrarsi in museo per parlare e discutere davanti alle opere è diventato il fulcro di un’attività progettata per Punta della Dogana, dove piccoli gruppi di persone di età compresa tra i 15 e 19 anni sono invitati a occupare le sale espositive e generare dialoghi e confronti attorno a temi specifici e ogni volta diversi. L’attività, per il momento ancora in fase progettuale, ha richiesto una più radicale riflessione su come rendere il museo uno “spazio (più) sicuro” che accolga una pluralità di soggetti, per un ambiente aperto e accessibile. Il confronto ha visto la partecipazione e il tutoraggio dell’artista performer Giorgia Ohanesian Nardin, che da anni intrattiene una riflessione e critica sulla relazione tra soggettività subalterne e istituzioni culturali.
Cecilia Cabrio (C.C.): L’idea iniziale era creare uno spazio, all’interno del museo e della mostra, che fosse più a misura di adolescente: poi, man a mano che le riflessioni si sviluppavano, ci siamo concentrat3 verso un’idea più ampia di spazio (più) sicuro, cosa significa e che forma ha. A quel punto, ogni partecipante ha elaborato delle linee guida per la costituzione del proprio personale spazio sicuro.
Elisa Rocco (E.R.): La riflessione sullo spazio (più) sicuro è stata fondamentale per progettare un’attività specifica di incontro e discussione in museo. Abbiamo immaginato una serie di incontri a cui si accede tramite un’iscrizione, con un massimo di venti persone, ragazz3 della nostra età. La discussione prende origine dalle opere e unə facilitatorə si occupa di organizzare il discorso. Abbiamo anche ipotizzato delle regole condivise con il gruppo e modificate a seconda delle necessità, che servano da punti di riferimento su come comportarsi durante gli incontri.
Elena Valonta (E.V.): In generale, l’obiettivo è garantire una possibilità a tutt3 di discutere di ciò che si è visto e sentito durante la visita in mostra, per permettere a più persone possibili di sentirsi coinvolte dall’esperienza in museo. Molto spesso c’è un blocco rispetto all’arte, soprattutto per le persone più giovani e il progetto può quindi essere un’opportunità per sentirsi liber3 di esprimere ciò che si pensa senza paura del giudizio o di dire cose sbagliate; si tratta semplicemente di uno scambio di opinioni. Questo secondo me è la parte più bella del progetto.
Elena Teresa Martini (E.T.M.): Mi ricordo una delle riflessioni che avevamo fatto con Giorgia Ohanesian Nardin, sul fatto che un posto sicuro per tutt3 in realtà non esiste, o meglio, per ognunə ha una forma diversa.
Cecilia Bima (C.B.): Questo aspetto è infatti ciò che rendeva problematico e interessante il progetto: Giorgia ci ha aiutato a capire che non è corretto usare l’espressione “Safe Space” in senso assoluto, ma potremmo parlare piuttosto di “Safer Space”, nel senso di uno spazio più sicuro rispetto ad altri. Questo concetto è testimone della processualità dello spazio e della possibilità di modificarlo continuamente in base all’esperienza di chi lo attraversa. Quindi, per voi, cos’è uno spazio (più) sicuro e come si articola sulla base del vostro progetto?
E.T.M.: È un luogo dove non mi sento giudicata, un posto molto libero dove posso parlare, esprimere la mia opinione senza aver paura del possibile contrasto con un’altra persona o che una situazione mi triggeri dei pensieri negativi. È un posto dove vengo rispettata e dove io rispetto le altre persone, in un movimento reciproco, un po’ come un cerchio dove le cose che do, ritornano. Me lo immagino come uno spazio libero e circolare.
E.R.: Mi sento di aggiungere che per me deve essere uno spazio che conosco, familiare. Lo sto visualizzando in questo momento: ci devono essere delle cose che conosco, che mi viene naturale fare, cioè qualcosa che mi trasmetta calma e non mi metta in agitazione. Un qualcosa di caldo, cioè, mi immagino anche dei colori tipo il giallo, l’arancione, il rosso. Deve essere un luogo ospitale e caldo.
E.V.: Un elemento importante per me è la modalità con cui si sta nello spazio: mi piacerebbe che venisse usato tutto lo spazio possibile nella stanza, in modo che ognunə possa sedersi più comodamente, per esempio; è una cosa piuttosto banale, ma a scuola sono sempre molto scomoda e devo spesso trovare posizioni diverse, più o meno ogni due ore: e questo mi viene rimproverato. Mi piacerebbe quindi che ognunə potesse assumere la posizione che preferisce. Un altro esperimento possibile è di non vedere le persone che ci stanno vicino, perché, in qualche modo, sentire lo sguardo su di sé – anche se in uno spazio sicuro e accogliente – può comunque mettere in soggezione o in una condizione tale da non sentirsi liber3 di dire tutto quello che si vuole. In questo modo, sono sicura di non essere vista, se non da unə facilitatorə che è l’unicə a vedere le persone e dare loro la parola.
C.B.: Quindi, quali caratteristiche deve avere lə mediatorə per essere definitə tale e dunque essere nella posizione di poter guardare i partecipanti?
E.V.: Dovrebbe innanzitutto presentarsi all’inizio e forse definire il suo ruolo come puramente funzionale alla discussione, senza prenderne parte, e può intervenire solo ponendo delle domande.
C.C.: Per definire uno spazio “sicuro” serve proprio l’energia fisica tra le persone. Penso quindi all’aggettivo circolare, nominato da Elena Teresa: mi piace quando sento che niente cade nel vuoto, come se le cose rimbalzassero; quindi, se io lancio uno spunto oppure dico una parola, mi arriva un feedback di cui si può discutere. Allo stesso tempo, legato a quest’idea di rotondità, penso a un qualcosa di sicuro e accogliente. Per quel che riguarda l’idea di impedire la vista, proposta da Elena, penso sia interessante perché sposta il discorso su un altro piano, più astratto in un certo senso, concentrato sulla parola e sui significati.
E.R.: D’altra parte, creare un dialogo fondato solo sulla parola esclude chi la parola non ce l’ha, per esempio persone sorde. In questo caso, il ruolo dellə facilitatorə sarebbe quello di trovare altre modalità di partecipazione per queste persone, magari attraverso un disegno.
E.V.: In effetti, essere privati di uno dei sensi può spingere ad esaminare certe questioni in maniere alternative, attraversando il museo con altre parti del corpo. Ricordo, infatti, che avevamo anche ragionato su come le persone con disabilità potessero vivere il museo e le sue barriere. Quindi, sperimentare l’assenza di un senso può aumentare l’empatia e la collaborazione tra le persone. Ed è proprio parlando di sensi che per definire questo spazio utilizzerei l’aggettivo “morbido”. Mi piacerebbe anche che avesse un odore caratteristico; quindi, gli attribuirei l’aggettivo “profumato” e direi anche “semplice”, cioè vorrei che lì dentro l’espressione fosse il più facile possibile.
C.B.: Dunque, perché ci serve uno spazio (più) sicuro e perché il museo può diventarlo?
E.M.: Perché l’arte deve essere per tutt3, ognunə può fare arte, ognunə ha il diritto di poterla sperimentare come meglio crede. Per questo motivo è bene mettere a disposizione tutti i mezzi possibili per poterla vivere. Quindi, se per esempio sono in sedia a rotelle, non posso visitare una mostra d’arte a cui sono interessatə, vuol dire che non ci sono i mezzi necessari per esplorarla e per me quello non è uno spazio sicuro. Oppure, una persona neurodivergente potrebbe non sentirsi a proprio agio in un determinato luogo, perché non ci sono i mezzi per poterlo attraversare serenamente. È importante costruire luoghi (più) sicuri perché ci troviamo in un posto che è stato creato da persone delle generazioni precedenti, che hanno determinate idee, sono cresciute in un determinato modo, diversi da quello in cui stiamo crescendo noi. Dobbiamo quindi ricreare i nostri spazi, riadattarli alle nostre esigenze e renderli diversi da come ci sono stati consegnati dalle persone prima di noi.
C.C.: Oltretutto, il museo è frequentato sempre dallo stesso tipo di persone, è molto attraente per chi è già abituatə a quell’ambiente. Per chi non ne fa parte, sembrerebbe quasi che sia fatto solo per un’élite, che ha un livello culturale elevato. Ed è proprio questo il problema che abbiamo riscontrato durante l’elaborazione del progetto: come raggiungere persone molto diverse fra loro per creare una partecipazione varia e plurale? Certo, è più difficile raggiungere per esempio le periferie, ma il fulcro sta proprio nel trovare dei modi. Ho letto un articolo sul Museo Civico di Zoologia di Roma, che ha proposto un sondaggio riguardo la tipologia di pubblico del museo; i risultati dimostrano che è molto rara la frequenza di persone con disabilità, persone anziane o bambin3 molto piccol3; questo non perché lo spazio non sia accessibile dal punto di vista strutturale, ma perché spesso si tratta di categorie che non si sentono legittimate a attraversare quegli spazi. Il museo, quindi, ha il compito di manifestare la propria apertura e la propria accessibilità, che non vuol dire “concedere” loro l’accesso, ma far comprendere che il museo è per tutt3.
E.V.: Mi è venuto in mente che è anche uno dei pochi posti, soprattutto per unə adolescente, che non richiede qualcosa indietro. Per esempio, a scuola devi dare sempre un feedback di quello che hai imparato, che viene poi valutato. Il museo invece è un ambiente che appunto non richiede niente. Tu puoi entrare senza porti nessun problema rispetto a cosa hai capito o cosa non hai capito. E questo è relativamente raro.
C.B.: Quindi, cosa vi immaginate di fare in uno spazio (più) sicuro?
E.V.: Io penso che si possa semplicemente discutere di quello che si è osservato, senza alcun giudizio da parte dell3 altr3, e sviluppare una conversazione e uno scambio di punti di vista. Sì, mi piacerebbe servisse a questo.
E.R.: Io vorrei capire cosa mi piace e cosa non mi piace: una mostra di arte contemporanea può farmi scoprire cosa mi mette inquietudine, cosa mi ispira, cosa provo in determinate situazioni. Mi aspetto anche che mi rimanga qualcosa e che la mia esperienza possa lasciare qualcosa ad altr3, tramite un gesto o un oggetto.
C.C.: Per me il concetto di spazio sicuro parte dall’entrata e la sua accessibilità strutturale, ma anche e soprattutto a cosa si fa all’interno del museo. Forse uno spazio è (più) sicuro se ci permette di non fare niente, magari semplicemente guardare senza che ci venga richiesta una performatività.
E.T.M.: Per quel che mi riguarda, oltre a un confronto, avrei bisogno di fare quello che voglio, di essere libera di esprimermi e, se non riesco a comunicare con le parole, farlo in una qualsiasi altra forma che mi faccia sentire a mio agio; per esempio, disegnando o ballando, insomma qualsiasi cosa che lasci uno spunto da cui partire per riflettere. Ritorna l’idea di qualcosa di circolare che parte da un punto e ritorna, qualcosa di molto libero, senza vincoli.
C.B.: Uno spazio (più) sicuro è quindi un contesto di confronto e discussione. In che modo ci si relaziona a un eventuale conflitto o polarizzazione di idee?
E.T.M.: In uno spazio (più) sicuro il conflitto non si viene proprio a creare, perché se un’opinione contrasta con un’altra, non si deve necessariamente leggerlo come un affronto personale, ma la mia opinione deve essere rispettata come la tua. Non deve essere uno spazio in cui la differenza genera sensazioni negative, ma al contrario può essere un punto su cui ragionare, generare degli spunti di riflessione per poi eventualmente cambiare idea. Il concetto di conflitto mi fa pensare ad un ambiente rigido. Insomma, io mi immagino qualcosa di molto fluido: bisogna accettare in questi casi che le altre persone hanno opinioni diverse dalle tue.
E.R.: Proprio a proposito di conflitto, avevamo pensato sia di formulare delle regole, sia di istituire la figura dellə facilitatorə con l’obiettivo di garantire un’atmosfera costruttiva. Il conflitto può crearsi, ma è importante capire che non serve arrivare ad un punto finale o a una conclusione; cioè, si possono aprire determinati argomenti e lə facilitatorə deve essere preparatə a mediare.
C.C.: L’obiettivo del progetto è infatti di ricreare in piccolo, in maniera più intensa e possibilmente, più fruttuosa, la dimensione di comunità; raggruppare quindi persone diverse per “simulare” lo stare insieme con. Per rispondere alla domanda, di solito si tende a prendere posizione sul sì o sul no, dividendosi in due schieramenti, per sentirsi parte di un gruppo e vedere legittimata la propria opinione. Invece sarebbe bello destrutturare l’idea di società in cui bisogna essere unə contro l’altrə e dove le opinioni contrastanti sono in un’opposizione violenta. Invece, in uno spazio sicuro non si deve trovare una soluzione, ma si scambiano idee, non per vincere un dibattito, ma dicendo “ho assimilato dei nuovi punti di vista e ho avuto l’opportunità di esprimere il mio”.
E.R.: Nel progetto che abbiamo concepito, le persone che prendono parte agli incontri ed entrano nella stanza sono tutte pari, proprio per evitare quell’inquietudine di essere in disaccordo. Per esempio, un semplice gesto come togliersi le scarpe e stare tutti a piedi scalzi può aiutare a stabilire un rapporto di equità. È come un punto comune che mette tutt3 alla pari. Poi sta anche allə facilitatorə stabilire delle regole di base e far sì che se ne aggiungano altre o che alcune vengano modificate dall3 partecipanti: per esempio, “cosa ne pensate?”; “vorreste aggiungerne un’altra?,” oppure “c’è un argomento che non vorreste venisse trattato?”. Questo può tutelare e creare un legame di rispetto reciproco.
C.C.: Se immagino uno spazio sicuro una delle parole che mi viene in mente è “empatico”. Nel senso che quello che dovrebbe essere richiesto è appunto di avere attenzione per le esigenze di tutt3; e l’idea della condivisione delle regole credo si avvicini molto a questo, se ad esempio dicessi di non volere affrontare in questo spazio, in questo momento, la questione dei disturbi alimentari, è come se chiedessi alle persone vicino a me di rispettare questa esigenza e quindi di provare empatia nei miei confronti. È un modo per aiutarmi a passare un momento piacevole.
E.R.: Si può anche concordare un segnale specifico per quando non si vuole prendere parte a un discorso; per esempio, ci si può tranquillamente spostare senza dire niente, così che le persone capiscano che una persona non vuole essere interpellata riguardo quell’argomento.
E.V.: L’obiettivo, secondo me, non sta tanto nell’impedire il conflitto o la polarizzazione, quanto imparare ad affrontarli e a viverli: vedere cioè l’altrə come portatorə di un punto diverso, che non ha niente a che vedere con il giusto o lo sbagliato. Per questo il tema del conflitto deve essere visto in positivo: il punto, secondo me, è evitare delle reazioni aggressive o di supponenza. Mi viene in mente un amico con cui sono spesso in conflitto, perché esprime delle opinioni in maniera molto diretta e perentoria e con cui non sono in accordo. Un modo per entrarci in contatto è stato vedere la sua opinione a partire dalla persona che si dimostrava: nel senso, non sono d’accordo con tutto quello che pensi, però credo e ho fiducia nella persona che sei.
Come istituzione culturale e museo per lungo tempo si è ragionato sulla collezione e sulle opere, producendo contenuti e strumenti che ne facilitassero la fruizione da parte del pubblico adolescente. Oggi il discorso pare essersi spostato sullo spazio e le sue modalità di attraversamento: emerge la necessità di rimodellare i tempi e gli spazi dedicati al dialogo e alla riflessione, che siano liberi e accoglienti, aperti a tutte le soggettività. È fondamentale progettare delle occasioni di apprendimento e di educazione che tengano conto delle vulnerabilità, disarticolandosi dai meccanismi della performance e della prestazione. Il museo e le istituzioni culturali hanno la responsabilità di lasciarsi trasformare dalle persone che li abitano, creando un legame più autentico con il pubblico (anche) adolescente. In questo quadro, la figura dell’adulto mediatore si riconfigura, marcando ancora di più la sua connotazione di facilitatorə dei processi che permettono la realizzazione del safer space, in un orizzonte di relazione intergenerazionale.
Nota
La conversazione si è svolta il 30/08/2023 a Palazzo Grassi.
L’ufficio dei Servizi Educativi di Palazzo Grassi, attualmente rappresentato da Ester Baruffaldi, Cecilia Bima e Federica Pascotto, nasce nel 2009. Negli anni sono state sviluppate diverse linee di lavoro mirate all’inclusione e all’accessibilità, ma sempre con una specifica attenzione al pubblico adolescente. Nel 2013 nasce il progetto “Palazzo Grassi Teens”, con l’obiettivo di rimodellare il museo su misura per gli adolescenti, a partire dalle loro esperienze e dai loro desideri.