«L’oro e la cocaina sono feticci, il che vuol dire che sono sostanze che sembrano essere altro che materia minerale o vegetale. Appaiono più come persone che come cose, entità spirituali che non sono nessuna dei due, e ciò gli dona la sua strana bellezza»
(Taussig, 2013, p.24)
Vivere senza etichette può essere un’utopia come un’ingenuità. Una delle prime che ci porteremo dietro durante la nostra vita è sicuramente la nazionalità. Sui cittadini colombiani sicuramente si sentono le più (e meno) creative battute e osservazioni per la fama internazionale che si è guadagnata la nazione nel corso degli ultimi decenni con l’esportazione di sostanze illecite,inizialmente di marihuana ma poi più estesamente di cocaina. Non posso dire che siano tutte falsità, ma sicuramente lo definirei uno stereotipo alimentato dai mezzi di comunicazione di massa. La criminalizzazione delle droghe illecite ha dato come unico risultato la persecuzione delle classi più basse nella gerarchia del monopolio del narcotraffico.
Eloquente è la colonna di opinione scritta dall’ex presidente Alberto Lleras, pubblicata nel 1979 sul giornale El Tiempo, in risposta all’articolo The Colombian Connection della rivista statunitense Time dello stesso anno: «L’articolo di Time sulla Colombian Connection, nel quale ci conferiscono la dubbia onorificenza di essere i narcotizzatori, avvelenatori e corruttori di milioni di nordamericani, è già in viaggio verso tutti gli archivi, i computer, le fonti di informazione sul nostro paese e sull’America Latina (…) La guerra e la droga tingeranno la reputazione dei nostri compatrioti nei tempi futuri. E quando un senatore, un rappresentante degli Stati Uniti, un pedagogo europeo, o un geografo di qualsiasi parte del mondo avrà bisogno di sapere qualcosa sulla Colombia, lì si informerà della nostra perniciosa influenza su una società in maggioranza bianca, anglosassone e protestante (…) inventori dei più audaci ed efficaci metodi per arrivare al cuore di un popolo onesto e puritano con le sue barche, aerei, mafie, assassini, contrabbandieri, mulas, e tutta la parafernalia del deleterio inquinamento del nostro tempo. (…) La coca, che tradizionalmente masticava una minoranza indigena delle nostre isolate montagne, è diventata un articolo di lusso grazie alla politica del Governo nordamericano. Poco abbiamo a che fare con essa, con le sue origini, coi suoi fatali risultati. Ma ora siamo The Colombian Connection [1]».
Ecco però qualche fatto sulla pianta tradizionale delle comunità amerindie. La pianta di coca si consuma da circa quattromila anni nel mondo andino, e si ipotizza, originaria dei pendii degli Ande, si sia estesa dal nord dell’Argentina fino al nord della Colombia. Il primo studio scientifico sulla foglia di coca fu svolto solo nel 1975, confermando le proprietà che gli indigeni conoscevano già: è una delle piante più nutritive del mondo, contiene vitamine A, B, C ed E, potassio, calcio e quattordici alcaloidi diversi che aiutano a smaltire i carboidrati e, perciò, a reggere il mal de altura –mal di montagna–: un’ottima proprietà per affrontare le vette andine. Secondo Wade Davis, la quantità giornaliera che consuma un arhuaco fornisce il fabbisogno basico di vitamine richieste da un essere umano. Inoltre le foglie presentano una percentuale bassissima di cocaina: 0,56 grammi per ogni 100 grammi di foglie. Tutti questi dati smentiscono le speculazioni sui presunti effetti nocivi che la foglia causerebbe alle popolazioni indigene.
Etichettata come “l’invenzione del diavolo” fu vietata dagli spagnoli, per poi essere reintrodotta con le attività estrattive come le miniere di Potosí, dove fu promosso il suo uso per la coercizione al lavoro fisico dei nativi. I dati ci fanno anche comprendere la evidente differenza tra la coca e la cocaina. Quest’ultima fu sintetizzata dal chimico tedesco Albert Niemann nel 1859, sull’onda degli sviluppi tecnologici e farmacologici del tempo, come la sintetizzazione della morfina, dell’anfetamina, dell’acido acetilsalicilico –Aspirina– e della diacetilmorfina –eroina–, tutte ricerche svolte dall’industria tedesca con le aziende farmaceutiche Merck KGaA, Bayer, Berenguer e Knoll in prima linea. In effetti, la cocaina prodotta dalla Merck KGaA, è quella considerata di migliore qualità, un prodotto ineguagliabile anche secondo un insigne intenditore: Keith Richards. Attualmente per la produzione del cloridrato di cocaina nei laboratori clandestini del Sudamerica si impiegano diversi additivi: ad esempio benzina –per ottenere la pasta di coca–, ma anche magnesio carbonato leggero, acido cloridrico, acido solforico, permanganato di potassio, ammoniaca, acetone ed etere. (Rueda, 2019, pp. 30-33)
Proponendo questa prodigiosa, alchemica e misteriosa ricetta, l’artista Wilson Díaz (Pitalito, 1963) pubblicò il testo istruttivo Cómo obtener un kilogramo de cocaína de alta calidad en veinte pasos (con la mejor economía de materiales) nel progetto editoriale do it di Hans Ulrich Obrist. Il progetto di Obrist, nato nel 1993 da una conversazione tra il curatore, l’artista Christian Boltanski e l’architetto Bertrand Lavier, si presenta come un catalogo che raccoglie diversi testi istruttivi ideati da altrettanti diversi artisti di tutto il mondo, e si concretizza in un ricco archivio di improbabili guide DIY –Fai da te–. Mediante le istruzioni lo spettatore diventa parte performante dell’opera, capace di decidere se completare l’azione e dare una sostanza al concetto, oppure passare alla pagina successiva ed esaminare le prossime opere proposte. do it libera l’opera dal legame autoriale dell’artista, le azioni per la realizzazione dell’opera d’arte possono essere svolte in diverse occasioni e non si conservano tracce materiali di essa. Nella proposta di Wilson Díaz, l’artista mette in circolazione la ricetta –forse– poco conosciuta di una sostanza che permea il mondo dello spettacolo, cui il mondo dell’arte non è estraneo, rovesciando ancora il ruolo tra spettatore/creatore, che in questa occasione potremo sostituire con consumatore/produttore. L’aperta pubblicazione della ricetta e l’invito DIY a compiere le indicazioni per la produzione della cocaina espongono le problematiche culturali che la sostanza solleva dentro una società: dove risiede reato? nella coltivazione, nella produzione, nella vendita, oppure nel consumo? Espone, inoltre, l’ipocrisia nell’approccio alla sostanza, che dipende dal contesto in cui viene considerata. Lusso o lavoro?
L’operazione concettuale di Díaz in do it non è l’unica occasione in cui l’artista si è servito dell’estetica e della piattaforma dell’arte per rivelare le relazioni tra il mercato di stupefacenti e il mondo dell’arte contemporanea. Nelle opere Erythroxylon Novogranatense (2006) –nome scientifico della varietà colombiana della coca, solo una delle 250 specie esistenti– e Movement of the Liberation of the Coca Plant (2012-2014), le parole che danno i titoli alle opere diventano insegne verdi e luminose mediante l’impiego di lampade al neon, un dispositivo già introdotto come mezzo artistico dal minimalismo e concettualismo del XX secolo. In Nombres indígenas de la planta de coca (2003) le parole sono ancora le grafie che danno forma all’opera, in questo caso i caratteri vengono disegnati con il pigmento estratto artigianalmente dalla foglia di coca, dando tonalità organiche di colori terra.
Nella performance Vientre alquilado (2000) Wilson Díaz si mette nei panni delle “mulas”, quegli individui fondamentali nell’esportazione di stupefacenti, che, spinti dalla necessità economica, trasportano nascoste nello stomaco capsule di cocaina. Per la sua performance l’artista mangia i semi della pianta di coca prima di prendere l’aereo che viaggia da Cali (Colombia) con destino a Curaçao (Regno dei Paesi Bassi). Dopodiché, al suo arrivo nel paese estero, defeca e si prende cura delle piante nascenti. In altre opere come Fallas de origen (1997-2001), Jardines de plantas coca en Cali (2003-2008), El jardinero (2004), Cuarentena (2008) la pianta di coca viene messa in mostra più direttamente, in alcune occasioni è l’artista stesso a coltivare la pianta, in altre, documenta mediante la fotografia la presenza delle piante nel paesaggio urbano colombiano –specificamente nella cittá di Cali–, evidenziando i rapporti che esistono tra la popolazione e la pianta ancestrale: la pianta appare come ornamento inserito nella quotidianità oppure diventa una specie vegetale degna di cura. La pianta di coca è nelle opere di Wilson Díaz l’elemento nodale mediante il quale mettere in discussione il contesto stereotipato intorno ai narcotici e la cultura sviluppata attorno a essi. Díaz si serve degli stili dei movimenti post-avanguardia dell’arte, come la minimal art o l’arte di performance, per fare interventi critici su quelle sfere di mercato che possono offrire aggregati che conferiscono prestigio sociale, basati sul monopolio, l’esclusività, la sacralizzazione del consumo e la speculazione dei prezzi.
Così come per Wilson Diaz la pianta di coca è un materiale plastico da adoperare nelle arti, anche l’alcaloide cocaina è stato utilizzato come tale da tanti altri artisti dell’America Latina. Tra gli esempi più ricordati possiamo sicuramente citare l’opera del brasiliano Helio Oiticica Quasi Cinema. Blocks Experiments in Cosmococa (1973), progetto sviluppato insieme al regista Neville d’Almeida. I Cosmococa erano nove ambienti immersivi costituiti da proiezioni, tracce sonore e decorazioni specifiche per ognuno degli spazi enumerati dal CC1 al CC9. Al loro interno erano proiettati diversi ritratti di personaggi rappresentativi della cultura pop, come Marylin Monroe, Jimi Hendrix o Yoko Ono, sui quali venivano tracciate linee con la polvere di cocaina, delineando o modificando i tratti del viso esposto. In questi ritratti effimeri la polvere bianca si integra all’immagine del personaggio come una maschera o un trucco, facendo enfasi sulla natura dell’intrattenimento dello spettacolo: fasullo, tossico e illusoriamente piacevole. Sicuramente questi interventi hanno avuto influenza sugli artisti emergenti latinoamericani, che hanno trovato nella sostanza psicoattiva l’elemento sintomatico mediante il quale indirizzare le proprie critiche e riflessioni su di un contesto che dissanguava il continente.
Nel lavoro di Leonardo Herrera (Cali, 1977) la cocaina fu impiegata come materiale plastico con cui svolgere le proprie analisi delle problematiche che assillavano la sua città natale. Fu lui il primo artista colombiano ad impiegare la sostanza chimica per la pratica artistica in pubblico. Durante il Primer Festival de Performance de Cali (1997) l’artista scrisse con la cocaina i nomi di sei artisti da lui ammirati, per poi offrire le composizioni agli spettatori, invitandoli a interagire liberamente con l’opera/sostanza. Un decennio dopo, con la sua opera Ojo del diablo (2008) dichiarerà: «Cocaína da trabajo al mundo» –la Cocaina dà lavoro al mondo–. L’opera consiste nella frase dichiarativa stampata su un foglio bianco con un “inchiostro” corposo e appiccicoso, anch’esso bianco, avvalendosi così di un effetto ambiguo tra il visibile/invisibile, che ci ricorda una chiara, anzi chiarissima, realtà esposta davanti a noi. Contrariamente a Wilson Díaz, Herrera inizia la sua esplorazione artistica direttamente con la sostanza chimica, arrivando successivamente all’impiego della pianta. Svolge con essa alcuni lavori toccando tematiche legate alla coltivazione, e perciò agli aspetti ancestrali e intimi che si forgiano tra la popolazione e la pianta, dentro i quali l’artista trova forti legami familiari: «Semino perché ho capito che la coca non è ciò che mi è accaduto quando ero giovane, perché mia nonna mi ha insegnato da bambino che in campagna quella pianta era utilizzata per tante cose. Lei faceva dolci, bevande, pane, e mi massaggiava con essa quando mi facevo male.» (Rueda, 2019, p.28).
Il lavoro di Herrera si espande verso una ricerca che affronta l’influenza del fenomeno narco sulla sfera socio-culturale della Colombia, principalmente nella regione del Pacifico colombiano, enfatizzando la differenza tra la sostanza stupefacente –cocaina– e il simbolo sacro dei popoli ancestrali –la pianta di coca–. La sua analisi critica tocca anche le istituzioni, evidenziando gli scenari di conflitto ideologico dentro i quali si radicano modi di esclusione mediante le tensioni tra il privato e il pubblico, oppure tra il rurale e l’urbano. Nell’opera White Lady (2003) Leonardo Herrera coltiva a casa dei genitori quaranta piante di coca, esattamente il doppio della quantità permessa dalla legge. Le piante cresciute verranno poi adoperate dall’artista per la manifattura di fogli di carta per un libro d’artista, donando al prodotto ottenuto dalla pianta un’altra valenza, legandola al mondo del Fine Art, come supporto fisico per l’espressione artistica. Con questa azione di trasformazione Herrera affronta la questione della guerra dichiarata alle coltivazioni di coca, sottolineando la natura soggettiva e volontaria dell’impiego che può essere fatto di qualsiasi specie vegetale. Sempre con l’intenzione di spostare la visione criminalizzante e stereotipata della pianta di coca, nell’opera Erythroxylum novogranatense (2003) l’artista adotta il formato tradizionale della scienza botanica, inaugurato nel Vicereame della Nuova Granada da José Celestino Mutis con la sua Spedizione Botanica (1783-1816), per illustrare l’arbusto in una scheda scientifica, proponendo così una prospettiva alternativa nel dibattito sulle coltivazione “illecite”.
L’illustrazione botanica e classificazione scientifica è un formato tanto caro ad un altro artista colombiano. Alberto Baraya (Bogotá, 1968) è ampiamente conosciuto per il suo ricco archivio di riproduzioni plastiche di specie vegetali Made in China, che l’artista ha raccolto e classificato nel suo Herbario de plantas artificiales. Con la stessa sensibilità all’estetica del posticcio, in un’altra serie di lavori Baraya si interessa al mondo Narco, più precisamente a un’iconica costruzione: La Hacienda Nápoles di Pablo Escobar. La sconfinata fattoria fu per il narcotrafficante il luogo dove dare vita ai suoi più eccentrici desideri, si impegnò nel creare lì un “paradiso” in terra, importando animali esotici dall’Africa e dall’Asia, che oggi peraltro rappresentano un pericolo per l’ecosistema della Colombia. Alberto Baraya si interessa in particolare sulle conseguenze ambientali che l’introduzione di specie estranee porta al paesaggio e ai suoi abitanti, e dopo aver documentato gli scenari di quell’eccentrico passato restituisce pittoricamente immagini di vedute paesaggistiche che oscillano tra l’apocalittico, l’assurdo e l’onirico. Nei suoi dipinti diversi animali esotici si ritrovano insieme per contemplare un tramonto, specie geograficamente lontane l’una dall’altra, ma che in Colombia trovano il loro punto di incontro come esemplari d’intrattenimento per un narco-zoo. La Hacienda funziona oggi effettivamente come un parco dei divertimenti, è un tappa turistica che accoglie nelle sue installazioni attività di diletto familiare, silenziando gli orrori del passato e contribuendo alla mistificazione auratica della figura del criminale e del suo stile di vita. Il filtro della nostalgia, con il quale spesso si guarda al passato, viene posto su queste rovine di una Arcadia, una terra promessa, forgiata con plata y plomo.
Il fenomeno narco ha pervaso ogni aspetto della vita degli abitanti colombiani, non importa se immersi o lontani dai luoghi sotto questa legge, l’immaginario collettivo è ormai contaminato da miti, riferimenti e gusti della neoborghesia arricchita mediante il traffico illegale. La ricerca dell’artista Víctor Escobar (Neiva, 1966) si concentra sulle influenze che hanno l’estetica, il linguaggio e i desideri innescati dalla sfera narco sulla cultura nazionale. In opere come ¡GUACA-LA! (2007) e Caleta (2006) offre delucidazioni sull’adozione di un linguaggio –slang– caratteristico del mondo criminale nel gergo quotidiano. “Guaca” o “Caleta” –sostantivi– sono modi di dire per quei bottini celati che i trafficanti hanno lasciato sparsi e nascosti nelle loro proprietà. Si riferiscono a una cosa occultata, frequentemente sepolta in giardini o tra le mura di case o edifici. Questi sono i modi prediletti dai trafficanti per nascondere le esuberanti ricchezze in beni monetari che possiedono; ricchezza che non riescono ad amministrare e perciò devono trovare creative soluzioni per custodirla.
Questa urgenza ha spinto i neo-imprenditori ad affiancarsi ad architetti per la costruzione di ingegnosi spazi rinchiusi che alimentano tuttora l’immaginazione collettiva con un nuovo mito di El Dorado. Con questo concetto fondato sul desiderio celato, Víctor Escobar propone al mondo dell’arte caletas che irrompono e invadono gli spazi espositivi. Le mura del cubo bianco vengono sfasciate per rivelare una infrastruttura consolidata da blocchi di dollari o lingotti d’oro. Queste installazioni offrono allo sguardo del visitatore un piccolo frammento di quel tesoro occulto che probabilmente si trova in tanti muri delle città colpite dal fenomeno narco. Escobar utilizza gli “object trouvé” del mondo narco per proporli dentro la piattaforma dell’arte, troviamo così oggettistica come valigette, bagagli, capelli, gioielli e altri elementi decorativi che immediatamente ci riconducono a quel gusto esuberante. Inoltre, come farebbe tradizionalmente un’artista nel firmare le proprie opere, Escobar riporta il proprio cognome sugli oggetti d’arte, agendo ancora una volta sull’immaginario intorpidito dal narcotraffico per cui inevitabilmente lo riconduciamo al più noto Pablo. Víctor Escobar propone trappole visive del (in)desiderato, basandosi su uno sguardo voyeuristico mette in scena frammenti di una realtà velata. L’artista ritaglia ed estranea pezzi di “leggende urbane” per alterare lo spazio dedicato all’arte, alla contemplazione e all’oggetto del desiderio.
Ed è proprio sul potere d’acquisto dell’oggetto del desiderio –il mercato– che l’arte e il narcotraffico si incontrano per stringersi la mano in una stretta alleanza. Lontano dal falso stereotipo che connette le sostanze illecite con la creatività, è dentro l’economia dell’arte, un sistema poco tutelato, che il fenomeno Narco permea nella cultura alta. La nuova classe emergente trova in questo campo l’opportunità ideale per investire –riciclare– il sovrabbondante capitale in crescita. L’arte, inoltre, si presenta come quella disciplina che potrebbe conferire lo status sociale e il livello culturale tanto desiderato dai narcotrafficanti. Così, mediante le opere d’arte e le grossolane architetture i trafficanti hanno imposto il loro gusto, dando vita ad una nuova estetica: la Narcoestetica. Il fenomeno Narco si rivela non solo come un negozio di intraprendenza, ma penetra in tutti gli aspetti della vita dei colombiani: nella cultura, nella società e nella politica. Esso diventa etica, stile e storia.
Che lo vogliamo o no, la Narcoestetica è parte integrante dell’immaginario collettivo, accettiamo i suoi presupposti anche senza esserne consapevoli; essa ci perseguita coi suoi ritmi norteños –canzoni rancheras messicane che raccontano le valorose vicende dei narcoprotagonisti–, con il silicone insediato nel corpo femminile, con i suoi vocaboli, con la filosofia morale del “vivo vive del bobo” –lo sveglio vive grazie allo scemo–. I narcotrafficanti si sono poi avvalsi di galleristi degli Stati Uniti per investire in artisti colombiani e internazionali, spendendo il capitale guadagnato nel paese nordamericano in opere prevalentemente pittoriche per poi importarle in Colombia. Preferivano la pittura figurativa con rappresentazioni di nudi, cavalli, scene sdolcinate e popolari. Tra gli artisti più comprati c’erano Rodrigo Arenas Betancourt, Luis Caballero [2], Auguste Rodin, Darío Morales, Salvador Dalí, Enrique Grau, Claudio Bravo, Alejandro Obregón, Pablo Picasso e, il favorito in assoluto, Fernando Botero. Il boom del mercato dell’arte colombiano coincide con l’epoca più redditizia, e perciò più cruenta, del narcotraffico (1975-1993). Nel 1968 il prezzo massimo pagato per Fernando Botero fu di 900 dollari, nel 1992 fu di 1.540.000 dollari per l’opera La casa de las gemelas Arias (1973). Investire in Botero all’epoca non aveva nessun fondamento nel sistema dell’arte, non era presente in manifestazioni artistiche, non aveva nessun confronto con la critica, né godeva di visibilità alcuna in istituzioni d’arte; l’investimento nell’artista era generato dalla prevedibile crescita dei prezzi dovuta agli effetti della Guerra contro le droghe illecite e le esportazioni della mafia.
La crescente domanda fu corrisposta dall’artista, che saturò il mercato con opere di bassa qualità [3]. Ma la narcobolla doveva, prima o poi, esplodere. Dopo la caduta di Pablo Escobar, la cattura dei capi del Cartello di Cali e la condanna al figlio di Botero, Fernando Botero Zea, per arricchimento illecito, i prezzi delle opere di Fernando Botero crollarono sotto la metà dei prezzi raggiunti nel 1992. Il dipinto La casa de las gemelas Arias fu rivenduto nel 1996 a 737.000 dollari. Botero intraprese una corsa strategica per salvare il proprio patrimonio, donando 120 opere al Museo di Antioquia e 129 al Banco della Repubblica, vincolando il proprio nome alle due città più importanti della Colombia, e liberando il mercato dalla grande quantità di opere in circolazione. (Badawi, 2019, pp. 635-642).
L’eccentrico stile di vita della nuova classe sociale è ancora fonte di ispirazione e di ricerca per diversi artisti contemporanei, che attratti dalla superba opulenza si immergono nelle sue sgargianti forme per restituire a un pubblico diverso una visione critica, documentaria e occasionalmente anche ironica dello stile di vita che si è imposto come simbolo del trionfo. L’indagine artistica su questa classe sociale certamente non poteva avvenire contemporaneamente al suo emergere, e solo dopo qualche decennio gli artisti hanno iniziato a guardare indietro per trovare in quella storia un terreno da esplorare. Invece di negare una componente ormai connaturata nella cultura nazionale, la piattaforma dell’arte diventa uno spazio per riflettere su questi fenomeni, ed è interessante come le ricerche e le analisi accademiche si espandano per offrire diverse letture su quella nuova classe sociale. Trovo che questo sia un passaggio fondamentale per la comprensione del contesto che abitiamo, o meglio, è il primo passo verso la consapevolezza che, si spera, possa agevolare il superamento della vergogna e della criminalizzazione di attori che si sono visti immersi in questo mondo senza via d’uscita. Una ampia ricerca sviluppata in multidisciplinarietà tra Lucas Ospina, Omar Rincón y X Andrade, professori dell’Università de los Andes, combina prospettive di antropologia, giornalismo e Arti Visive per fornire uno studio completo ed un archivio che fece da base e supporto per la mostra Narcolombia, tenutasi nel 2021 nello spazio espositivo dell’Università.
Collaborando con il ricercatore e curatore Santiago Rueda la mostra dava un esauriente panorama della cultura narco nella Repubblica di Colombia, introducendo alle sue origini, evidenziando alcuni dei suoi personaggi principali –dove il mondo dell’intrattenimento e della politica si confondono–, mettendo in relazione le politiche internazionali e i loro effetti, e soprattutto raccontandone l’influenza sulla cultura visiva. Mettendo in mostra documenti, reportage, archivi, vignette ed altre opere hanno dimostrato come i valori narco siano ubiqui in ogni sfera della vita colombiana, dalla politica, all’estetica, alla morale, al linguaggio, alla moda. Il progetto di ricerca e i suoi derivati (narcofanzine, narcoexposición, narcoacademia, etc…) [4] adottano i colori sgargianti, l’epica scadente, la colloquialità per parlare di quella stessa realtà, senza barriere né di presunzione nè di eufemismo. Un approccio franco al fenomeno che ha dissanguato il paese per oltre cinque decenni è sicuramente un modo autentico per metterene in mostra la complessità, senza dimenticare l’umorismo e l’ironia perché, in fondo, mejor reír para no llorar.
Note
[1] Alberto Lleras, En portada de Time, El Tiempo, 28 Gennaio 1979.
[2] Tre disegni dei suoi riconoscibili nudi maschili, che evocano sofferenza e violenza, erano appesi nella casa El Diamante, proprietà della famiglia Escobar.
[3] Illustrativa è la tela del pittore trovata dopo l’attentato contro l’edificio Monaco, residenza della famiglia Escobar a Medellín, con la dedica alla moglie del capo: «A Victoria de Fernando».
[4] La mostra e il materiale Narcolombia sono fruibili virtualmente sul sito web.
Bibliografia
Andrade, X, Ospina L. e Rincón O., Nar-Colombia. Líneas de investigación y creación sobre estética y narcotráfico en Colombia, Litho copias calidad, Bogotá, 2020.
Badawi H., Recordar a Fernando, olvidar a Botero, Historia urgente del arte en Colombia, Editorial Planeta Colombiana, Bogotá,2019.
Rueda S., Plata y plomo. Una historia del arte y de las sustancias (i)lícitas en Colombia, Editorial Planeta Colombiana, Bogotá, 2019.
Taussig M., Mi museo de la cocaína, Universidad del Cauca, Popayán, 2013.
Paula Aguilera, curatrice e ricercatrice indipendente. Nata a Bogotá, Colombia. Risiede a Milano, Italia. Laureata in Design e Arti Visive, successivamente in Pratiche Curatoriali con la tesi Storie dell’arte contemporanea colombiana, focalizzata sul potere della scrittura nel creare versioni della Storia.