Forse questa prospettiva ci aiuta a capire perché le distinzioni di genere tra i fatti e le finzioni, tra il documentario e la rappresentazione immaginaria, tra l’arte e l’antropologia, tra la poetica e la prosa del quotidiano, scivolano verso uno stato più fluido che rivela, racchiusa nella condizione precedente di distinzione, l’autorità non incline a considerare le pulsioni estetiche ed etiche che eccedono il suo dominio. Con questa prospettiva in mente posso trovarmi in navigazione per il Mediterraneo, e la modernità, approdando alla questione dell’arte, spingendomi in viaggio sotto il vento inquisitorio della memoria. A questo punto emerge dall’arte stessa la tempesta turbolenta del sublime, dove la bellezza di linguaggio, suono e immagine, è elaborata in una vita crudele, ferita dall’oblio, dall’ingiustizia e dall’esercizio brutale di poteri arbitrari. Si delinea qui una poetica scomoda ed inquietante che promette di disturbare e deviare la configurazione sedimentata nel senso scontato, per spingerla verso i territori moribondi di una topologia pronta a essere abbandonata.
In questa ottica, l’opera d’arte, nel richiamare l’altrove, l’alterità, propone e promuove qualcosa che eccede l’atto dell’essere appropriato.
Era la seconda giornata, verso sera, quando abbiamo incontrato il poeta. Alto, abbronzato e con un codino, lui ci fermò sul sentiero per chiederci da dove venivamo. Santa Cruz: aah, il paese di quella gran poetessa Adrienne Rich. I nomi – Robert Duncan, Gary Snyder – cadevano sui prati delle montagne. Italia… Parlando di Fellini, il poeta del cinema, ci siamo ritrovati nell’atrio dell’Hilton di Beverly Hills nel 1952 per raccontarci come l’arrivo di Anita Ekberg faceva fermare tutto.
Lui ha settanta anni e vive tutta l’estate qui nella Sierra, portando la gente a cavallo tra le cime di mattina presto. Più tardi quella sera, passando lungo il sentiero vicino alla sua tenda, abbiamo sentito il ritmo misurato della poesia che arrivava da un mangianastri. Sotto le stelle, i nostri sacchetti appesi agli alberi lontani dagli orsi, le parole restavano sospese nell’aria dell’alta montagna: il ritorno… la ripetizione… la replica…2
Come scheggia del tempo che apre uno squarcio sull’altrove, l’arte interrompe e interroga qualsiasi inquadratura che cerchi di radicare il mondo nel senso fisso o assoluto di sé. L’arte – quella che entra ed esce dall’inquadratura – è dunque l’interrogazione dell’atto di inquadrare il mondo, l’intervallo che evita la riduzione di una rappresentazione razionalistica, ossia trasparente ai nostri sensi. Forse, è questa ‘immagine del mondo’, che secondo Heidegger nasceva per la prima volta con la modernità, forse è questo modo di inquadrare tutto secondo il punto di vista singolo, astratto ed universale del soggetto umanistico che l’insistenza dell’arte fa incrinare. Qui il mondo oscilla sulla soglia di un archivio poroso ed un’eredità misconosciuta, da cui emerge la continua ‘minaccia’ critica dell’opacità. Qui, come ci suggerisce Benjamin, l’analisi che orbita attorno alla continua conferma dell’occh-io perde di senso in confronto al linguaggio, che pone perpetuamente il transito di una traduzione che sfugge a qualsiasi arresto soggettivo. E’ nell’estetica del transito, nell’insistere del mondo stesso, che l’opera d’arte svela la precarietà della verità e la storicità radicale del suo accadere3. Nel rendere sospetta la metafisica dell’Arte, l’opera annuncia la morte di qualsiasi umanesimo.
Tra i limiti del linguaggio, i confini della rappresentazione, e la promessa del non-detto, e la storia del silenzio che avvolge ogni linguaggio e la sua rappresentazione del mondo, l’arte fa emergere la tensione tra il conscio e l’inconscio, tra la chiusura della certezza e la vulnerabilità dello sconosciuto. L’arte propone un percorso destinato a rendere tutto incerto. Incamminandosi nelle ombre gettate dall’opera d’arte, la presunta omogeneità discorsiva della politica, dell’identità, della storia stessa, si annuncia invece come luogo del raddoppiamento, del perturbante e della dispersione. L’unicità desiderata dal soggetto umanistico si è scontrata con altri desideri, altre ragioni, altri… Il suo punto di vista universale è dislocato e disperso in un corpo, in una formazione storico-culturale… in transito. Il ‘mondo’ si è frantumato in diverse geografie, ognuno il luogo di sensi e direzioni diversi. William Blake pretendeva di raccogliere il mondo in un granello di sabbia, Walter Benjamin cercava nel frammento urbano, nei detriti della metropoli, il sintomo di una costellazione che illuminava il senso del tempo della modernità. Tolta dalla sua astrazione metafisica, l’arte si ritrova nel viavai del mondo, i suoi linguaggi promuovono un tragitto tra l’ordinario e lo straordinario, aprendo una spaccatura nel tessuto del quotidiano.
Come interrogazione l’arte vera, non quella superficiale dell’abbellimento, fa vacillare le cose domestiche con l’annuncio dell’estraneo, della presenza inquietante di qualcosa che non si riesce a ‘vedere’ o mettere a fuoco. L’arte rivela in sé la sollecitazione dell’alterità e la fuga del senso nell’altrove; con ciò essa si offre come il cancello sul futuro ed annuncia il futuro prossimo nell’accadere ora: il Jetz. Qui, per esempio, nel contesto del festival Sintesi della musica elettronica che si svolge a Napoli, si vive l’esperienza di salire lo scalone massiccio di un edificio barocco mal illuminato, per poi uscire dalla luce gialla, crepuscolare, e ritrovarsi bagnati dalle onde di suoni elettronici nell’istante in cui il futuro investe il passato.
Citare il tempo in cui accade la fusione transitoria tra il passato e il presente nella configurazione del futuro, significa insistere sul tempo come limite della mortalità dove ci si ritira dal compito violento di inquadrare, e perciò disciplinare, il mondo secondo le esigenze idealistiche del soggetto onnipotente. Indagare sui linguaggi e nei linguaggi — visivi, musicali, letterari, critici — che tale rappresentazione impiega (e, allo stesso tempo, nega) offre a tali linguaggi la possibilità di prendere un altro cammino.
Insistere sulla valenza ontologica dell’arte significa non solamente ripristinare i ‘margini’ inosservati della vita quotidiana, ma soprattutto rifiutare quell’inquadramento che cerca di rendere il mondo trasparente, vuoto e perciò pronto a essere gestito dalla logica unica e universale che stabilisce il suo senso, e quindi la conferma del soggetto che si impone sul vuoto che ha prodotto. L’arte propone un senso diverso, in transito, aperto, un sens, una via per cui ci si incammina senza la garanzia della comprensione piena, completa, finale, concludente. Al posto dell’occhio sapiente e universale dell’umanesimo occidentale da cui ogni comprensione parte per ritornare e concludersi, forse sarebbe il caso di adoperare la figura artigianale più umile e immediata del Disk Jockey. E’ una figura che non pretende di inventare le cose, che non pretende che i linguaggi partano da lui o lei, ma solo di rimaneggiare i linguaggi, cercando di farne un nuovo ritmo, una nuova figura, sforzandosi di individuare un percorso incerto che riconosce che tutti i linguaggi ci precedono e ci eccedono.
Qui il tempo-spazio della modernità stessa, quel tempo-spazio omogeneo e vuoto che sta aspettando l’arrivo del ‘progresso’, viene piegato e rielaborato in modo vario per permettere che emergano dalle sue ondulazioni altri tempi, altri luoghi, altre storie. Citare il passato in questa chiave ci invita ad abbandonare uno storicismo per cui la Storia è intoccabile, racchiusa in sé, che ci rende vittime di un destino già deciso alle nostre spalle. Citare il passato come luogo di frammenti sospesi e rivisitati nell’operato dell’arte significa re-citarlo per svelare i percorsi contingenti che ci chiamano indietro mentre ci portano in avanti. La memoria… di un’infanzia berlinese, di un giardino zoologico, di una città dove ‘perdersi, come ci si perde in una foresta, è un’arte da conquistare’ (Walter Benjamin)… di un’adolescenza a Belfast, ‘dove si sentiva il silenzio alle undici e mezzo nelle lunge notte estive mentre suonava Radio Luxemburg e le voci sussurravano sul fiume di Beechie…’ (Van Morrison). Qui la memoria come linguaggio dell’ora offre un tempo piegato per spiegarsi nelle scintille temporali, temporanee…
Qui, nel canto di Van Morrison, un corpo maschile si articola e si trasmette attraverso la musica: l’insistenza della voce, la ‘grana’ direbbe Roland Barthes, richiama dei limiti mentre contemporaneamente si estende oltre, quando la voce scende nella respirazione del senso, nell’essere e nell’infinito del suono. Mi trovo ancora in California, al sud di Big Sur, osservando l’oceano attraverso i pini, nella speranza di avvistare delle balene, e nel mio orecchio intimo sento un’altra canzone:
Foghorns blowing in the night
Salt sea air in the morning breeze
Driving cars all along the coastline
This must be what it’s all about… 4
Il tentativo di spiegare tale musica richiede un’attività destinata a fallire, destinata a cadere prima di arrivare all’oggetto desiderato; significa trovarsi a mormorare davanti all’indicibile. Allora come mai si scrive di queste cose? Forse puramente per lanciare un segno, lasciare una traccia, collegarsi ad un suono e il sogno che esso dissemina nella sua scia, e cercare lì un passaggio nel mondo. La canzone non significa qualcosa di preciso. Essa è un evento sonoro dove l’accidentale e l’intenzionale sono congiunti. Non si tratta di un’appropriazione verbale, di un tentativo di spiegare e rendere trasparente il suono come se fosse un nucleo di senso e intento stabile. Si tratta, invece, di cercare nel passaggio del suono, nel frammento che arriva alle mie orecchie, una risposta che sollecita il mio, il nostro, senso di essere.
Tutto questo significa ancorare il proprio sapere in un modo diverso e accettare che il carattere incompleto, piegato ed aperto del paesaggio offra un senso diverso del proprio posto nel mondo. Se la prosa pretende una sequenza lineare, una traduzione trasparente e la riconferma di chi parla, la poetica, l’intraducibile, ci offre il discorso frammentario, spesso opaco: un viaggio lungo uno spiraglio che tende verso l’infinito. Renderci conto di questo connubio complesso, non significa solamente radicare la storia in una maniera diversa, è anche un invito a rompere la barriera tra storia e poetica. Da questo movimento emerge la dispersione e la dislocazione della prospettiva del soggetto dell’umanismo occidentale. L’unicità del punto di vista unico da cui parte tale prospettiva viene disturbata dai cambiamenti di visuale nel passaggio terrestre, e perciò aperto. La logica che permette la corrispondenza immediata tra l’oggetto osservato e la semantica del soggetto che osserva si perde nel profilo di un movimento che muta costantemente.
Qui si passa dall’appropriazione del mondo sostenuta dall’insistenza grammaticale di una logica lineare che parte dal soggetto per concludersi e chiudersi nell’oggetto ad una comprensione composita, frammentaria, sostenuta dagli elementi in cui ci muoviamo – il paesaggio, l’aria, il terreno sotto i piedi, l’acqua intorno, il vento sulla faccia, i segni nella strada, i rumori nella notte, il sangue che canta nell’orecchio: una poetica del luogo, una intensità storica che precede ed eccede lo spazio astratto nominato dalla Storia. Si passa dalla ‘verità’ come proprietà statica, atemporale, sradicata e metafisica, dove lo spazio risulta vuoto e neutrale, e l’ambiente fornisce solamente uno sfondo per gli atti della ragione, ad un ambiente carico dove linguaggio ed essere sono iscritti nel profilo del paesaggio, nell’insistere dei suoni, delle situazioni e dei luoghi che forniscono il piegamento e lo spiegamento del mondo che si sta attraversando.
Invece di cercare la spiegazione e racchiuderla nella conferma dello stato delle cose attuali, si tratta di essere interpellati ed investiti da qualcosa che resta irriducibile al proprio possesso. L’immagine – visiva, acustica, letteraria – che ci si trova davanti non rappresenta una fetta della realtà congelata in una fotogramma, in un quadro, in un testo, in un suono, ma promuove l’apertura sull’altrove: i luoghi fuori luogo, per prendere in prestito il titolo della manifestazione artistica che si svolge ogni anno nelle montagne del Matese5. Non si tratta di un documento astratto della vita, ma del testimone delle vite vissute, negate, dimenticate; quei paesaggi invisibili ancora da venire e da vivere. In questa ‘schisi fra l’occhio e lo sguardo’ del mondo che ci guarda, si registra il trauma che investe l’io completo e possedente, rivelando le crepe e le linee di fuga nell’altrove6.
Il mondo che emerge dall’immagine fornita dall’arte precede ed eccede il senso che ognuno di noi cerca nella rappresentazione. In questo eccesso possiamo riconoscere l’operato del linguaggio. È il linguaggio che dissemina il desiderio per un senso che viaggia sotto un cielo troppo vasto per essere posseduto o spiegato in modo esaustivo o concludente. Da questa movimento e migrazione del linguaggio, dalle sue derive e dalle sue pieghe, affiora una poetica che riscrive il senso abituale, esponendolo all’altrove, allo spaesamento e alla deriva. In questa maniera, viaggiando con e dentro l’immagine, possiamo raccogliere l’interpellanza perpetua – quell’aperto annunciato da Rilke (e in seguito da Heidegger) – e dunque i limiti dei nostri modi di appropriarci del mondo.
Nella fenditura fornita dall’immagine artistica, l’immaginario emerge bruscamente dal silenzio della memoria per interrompere e interrogare la costellazione del senso con il desiderio di qualcos’altro, qualcosa in più che ci prometta un mondo ancora da narrare. Qui un’eredità eterogenea, complessa e sempre incompleta, si trasforma in una partenza e un divenire che ci permette, nelle parole di Ingeborg Bachmann, di affrontare ‘le strade inesplorate sulle pareti ripide del cielo’7.
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1 Alcune di queste osservazioni sono state elaborate inizialmente per presentare le opere di Isaac Julien (Fantôme Afrique, 2005) e Trinh T. Minh-ha (The Desert is Watching, 2003; Bodies of the Desert, 2005) a Letino, nel Parco Regionale del Matese, il 7 agosto 2006, all’interno della rassegna «Luoghi fuori luogo».
2 Appunti da un viaggio nel Kaiser Wilderness, Sierra Nevada, California, giugno 1994.
3 Beatrice Hanssen, Walter’s Benjamin’s Other History. Of Stones, Animals, Human Beings, and Angels, Berkeley & Los Angeles, University of California Press, 2000.
4 Van Morrison, ‘So Quiet in Here’, Enlightenment, Polydor 1990.
5 Questa manifestazione è affiancata da «Villaggio dell’Arte» che ha visto la partecipazione di persone locali con artisti invitati nella realizzazione di opere in loco. Nel 2005 e 2006 gli artisti seguenti hanno aderito al progetto: Laloba, Thomas Link, Feld 72, Bill Hackney, The Harrison Studio, Giuliano Mauri, Bruno Donzelli, Cristina Piza Lopez, Luigi Spina, Michele Iodice, Pasquella Musella, Giuliano Orsingher, Stalker/Osservatorio Nomade.
6 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Torino, Einaudi, 2003.
7 Ingeborg Bachmann, «Salmo 2», Anterem, n.72, p.39.
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Iain Chambers teaches cultural and postcolonial studies at the University of Naples, “Orientale”, and is author of Urban Rhythms: pop music and popular culture (1985), Popular Culture. The metropolitan experience (1986), Border dialogues. Journeys in postmodernity (1990), Migrancy, culture, identity (1994), Hendrix, hip hop e l’interruzione del pensiero (with Paul Gilroy) (1995), Culture after humanism (2001); and most recently, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2008) and Mediterraneo Blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi (2012).