Nel momento in cui concepiamo la performance come strumento di intervento all’interno della realtà in cui prende vita è necessario domandarci come possiamo farci carico della sua trasmissione e conservazione. L’Hemispheric Institute of Performance and Politics nasce, secondo il progetto di Diana Taylor, proprio con lo scopo di dare vita a soluzioni archivistiche adatte alla performance e alternative rispetto all’impostazione logocentrica tradizionale (Taylor, 2003). L’idea di “archiviare” la performance – strumento politico essenziale – pone inevitabilmente sfide teoriche che non possono essere tralasciate. Nell’ampio dibattito sull’ontologia della performance, che riunisce studiose e studiosi di performance studies, a partire dall’inequivocabile posizione di Peggy Phelan – che nega ogni riproducibilità della performance affermando che «performance’s only life is in the present» (Phelan, 1993) –, la svolta essenziale si realizza con Rebecca Schneider che sostiene: «performance remains, but remains differently» (Schneider, 2001). Schneider propone di spostare il focus dell’analisi dall’aspetto di potenziale riproducibilità a quelli che identifica come “i resti della performance”, con cui inevitabilmente gli studiosi del settore devono confrontarsi. A partire da questa intuizione, si sviluppa il pensiero di Diana Taylor, che fa notare come per concepire un processo di trasmissione della performance – che è materia viva, imprescindibile dal corpo e da una dimensione comunitaria – sia indispensabile ripensare il concetto stesso di archivio, tradizionalmente vincolato all’impostazione logocentrica occidentale. Taylor sceglie di valorizzare la dimensione del repertorio, complementare all’archivio e capace di fare memoria della prassi e della sua trasmissione e, con questo obiettivo, nel 1998 fonda presso la New York University l’Hemispheric Institute of Performance and Politics, meglio noto come Hemi.
Nel paradigma del repertorio, la performance si inscrive nell’accezione dell’embodied practice, ma il repertorio non dispone di una dimensione corporea: è quindi indispensabile collocare queste pratiche in un preciso contesto storico, artistico e sociale, perché possano essere comprese. Il repertorio non nasce per risolvere le criticità legate alla necessità di tenere traccia della liveness della performance (Auslander, 1999), ma si confronta con una dimensione di potenzialità, provvisorietà e contingenza, a differenza dell’archivio che tiene fede a criteri di fissità e autenticità. Dati questi presupposti, resta l’esigenza di ideare una modalità di condivisione delle embodied practices che permetta di cogliere il senso del sapere che queste pratiche veicolano, anche per chi non partecipa direttamente (e cioè tramite la presenza fisica) alla loro trasmissione. È per rispondere a questa esigenza che nasce l’archivio dell’Hemispheric Institute.
Perché trasmettere la performance?
Il progetto archivistico in questo caso non risponde semplicemente a un’esigenza conservativa concreta, ma si confronta con quesiti che ne definiscono la finalità: perché è importante trasmettere, per quanto possibile, la performance? Quali strumenti utili ci offrono determinate prassi? In che termini s’intende la performance in relazione a dinamiche imprescindibili per ogni archivio, quali la trasmissione di una memoria collettiva e la definizione di un immaginario culturale?
Lo sguardo di Taylor sulla questione è chiaramente posizionato, come testimoniano alcune tra le sue principali monografie. In Theatre of Crisis (Taylor, 1991) l’ambito teatrale e performativo è analizzato come dimensione di elaborazione di possibili reazioni a una situazione di conflitto politico-sociale. La tesi di Taylor è che il cosiddetto “teatro della crisi” rispecchi e, al tempo stesso, metta in discussione le dinamiche di violenza che emergono in situazioni di tensione. La performance inizia così a configurarsi come un possibile strumento di intervento politico, perché si rivela predisposta a dare testimonianza di situazioni conflittuali e a proporre strategie di reazione. A partire da questa consapevolezza, Taylor in Disappearing Acts (Taylor, 1997) sceglie di analizzare le modalità con cui la performance si pone in relazione con le tensioni sociali, configurandosi anzitutto come strumento di resistenza, mobilitazione e antagonismo e, successivamente, fornendo utili elementi per la trasmissione di un patrimonio culturale.
Qual è il ruolo della performance nella trasmissione della memoria e dell’immaginario collettivi? Idee apparentemente astratte, come il concetto di razza e genere, in che modo sono influenzate dalle embodied practices? Come lavora la performance nella trasmissione di memorie traumatiche? In che modo una nuova concezione di archivio/repertorio ci aiuta a ripensare la nostra identità culturale? L’archivio e il repertorio come si relazionano in termini politici? Quali ricadute concrete ha sulla collettività l’interazione tra questi due patrimoni?
Come dichiarato in The Archive and the Repertoire (Taylor, 2003) Taylor sceglie di affrontare questi interrogativi in maniera estremamente pragmatica: attraverso la realizzazione di un archivio/repertorio multimediale che si offre contemporaneamente come dimensione di elaborazione critica – relativa all’ambito performativo – e come realtà concreta di azione sul territorio, proponendo un’idea inedita di trasmissione del sapere. Interagendo infatti in maniera estremamente varia con le realtà che documenta, questo archivio mantiene in vita i processi creativi e i percorsi di attivismo politico dei collettivi con cui collabora e crea molteplici alleanze.
Le molte vite della performance
L’attività di ricerca di Diana Taylor e la collaborazione di studiosi, artisti, ricercatori e attivisti porta alla nascita dell’Hemispheric Institute Digital Video Library (HIDVL), che – con più di 900 ore di streaming – è attualmente il più grande archivio video open source del continente americano.
Ma la proposta di Taylor non si esaurisce in questa attività di raccolta, selezione e catalogazione: la sfida è realizzare attività di varia natura che collaborino alla contestualizzazione del materiale video a cui l’archivio dà accesso, perché la prassi rischia di risultare indecifrabile, se privata del contesto artistico, storico, politico e geografico in cui è concepita. Le molte vite della performance non si esauriscono nella sua dimensione corporea, ma nemmeno nella registrazione digitale: ritornano in un continuo di sparizioni, riapparizioni, occorrenze e variazioni, trasformando l’archivio da sterile spazio di conservazione a dimensione performativa e vitale. Attraverso l’archivio video e le numerose attività complementari, prende forma una dimensione d’indagine multidisciplinare decoloniale capace di valorizzare la performance come strumento politico, che facilita la comprensione di prassi artistiche nate in contesti differenti. L’Hemi ha dato vita a una vasta rete di realtà che riunisce più di 60 università americane, centri culturali, associazioni impegnate nella lotta per i diritti umani e la giustizia sociale, creando numerosi spazi di dialogo, dibattito e scambio creativo: pubblicazioni periodiche, corsi, workshop, convegni, archivi digitali e materiali, residenze artistiche ed eventi locali, a cui prendono parte persone provenienti da tutta l’America.
Tra le iniziative realizzate dall’Hemi spiccano gli “Encuentros”, convegni itineranti a cadenza biennale, che permettono ad artisti, studiosi e attivisti provenienti da tutto il continente di entrare in dialogo e di condividere i propri lavori. Le riflessioni emerse durante gli Encuentros successivamente sono sviluppate attraverso attività diversificate: le pubblicazione della rivista e-misférica (diretta dall’Hemi), i progetti collettivi promossi a livello locale (come i percorsi di formazione per giovani attivisti e i laboratori di ricerca sulle azioni collettive), i corsi interdisciplinari promossi da molte università associate e le pubblicazioni della casa editrice HemiPress. Con questi strumenti molteplici l’Hemi si impegna concretamente ad ampliare il concetto tradizionale di produzione e trasmissione del sapere. Adottando metodologie di ricerca interdisciplinare, focus su esperienze di apprendimento site-specific e un approccio laboratoriale, l’Hemi cerca di ridefinire gli strumenti pedagogici a disposizione e di mettere in pratica forme di trasmissione del sapere alternative. Tutte queste prassi nascono come forme di dialogo con il materiale conservato dalla Video Library, che garantisce accesso gratuito alla più grande raccolta di materiale relativo all’ambito performativo dagli anni Settanta ad oggi. Per ogni artista, collettivo o compagnia che ha collaborato alla nascita dell’HIDVL è disponibile un profilo – realizzato in collaborazione con il soggetto descritto – finalizzato a contestualizzare i video archiviati attraverso risorse di varia natura (immagini, testi, interviste e ulteriore materiale video). Tutti i contenuti sono consultabili in inglese, spagnolo e portoghese, così da essere comprensibili per tutti gli abitanti del continente americano. Gli autori delle performance detengono il copyright dei propri lavori e le copie originali dei video, che sono sempre restituite al proprietario dopo la digitalizzazione, finalizzata all’inserimento nell’archivio dell’Hemi. Oltre alle collezioni dedicate a specifiche realtà artistiche, l’archivio rende disponibili interviste a studiosi e attivisti, registrazioni di conferenze e incontri e i video delle performance realizzate durante gli Encuentros.
L’archivio è dunque concepito come realtà ibrida vitale grazie all’apporto di contenuti e pratiche di natura disparata. L’Hemispheric Institute Digital Video Library non si pone come una soluzione al problema dell’archiviabilità della performance, ma come uno stimolo al confronto; la sua stessa esistenza – inscindibile dalle numerose attività promosse dall’Hemi – lo configura come una realtà in divenire che, per certi versi, ha molte vite, come la performance che si impegna a trasmettere (Taylor, 2019). «And what about embodiment? Embodiment as in “having a body”, thinking, working, remembering, and expressing through our bodies, is central to performance studies where we focus mainly […] on incorporated behaviors and practices. Archives don’t have bodies» (Taylor, 2019).
Con questa affermazione Taylor richiama implicitamente quanto evidenziato da Lepecki (Lepecki, 2010) e Schneider (Schneider, 2001) in merito alla trasmissibilità delle performance attraverso il corpo. Indubbiamente l’archivio multimediale dell’Hemi è privo di una dimensione puramente corporea: infatti, nonostante esista una sezione dell’archivio finalizzata a conservare reperti materiali e nonostante la rete di associazioni e istituti di ricerca permetta in molti casi una “trasmissione corpo a corpo” delle conoscenze, non si può dire che l’archivio dell’Hemi disponga di una vera fisicità. Tuttavia, grazie all’ausilio di molteplici modalità di conservazione, catalogazione e condivisione, questo archivio riesce a tenere traccia di molte delle vite della performance (Taylor, 2019).
L’archivio è dunque un deposito sterile e fine a se stesso solo nel momento in cui ciò che conserva è inteso come non modificabile e necessariamente originale. Grazie a una rete di realtà attive sul territorio, Hemi ambisce a ridare vita ai materiali di cui si prende cura attraverso l’archivio, incaricandosi di trasmettere una memoria, di incentivare lo scambio culturale, il confronto critico e la visione di determinate pratiche come possibili modalità di messa in discussione e ridefinizione dell’identità culturale. In questo processo di trasmissione del sapere, il supporto digitale ricopre un ruolo essenziale, ma il ricorso alla tecnologia naturalmente non risolve il problema dell’archiviazione e della trasmissione della prassi, bensì lo problematizza (Taylor 2010). Riconosciuta l’importanza della performance come strumento di trasmissione del sapere, di elaborazione dell’identità culturale e di conservazione della memoria collettiva, l’archivio – estraneo alla logica logocentrica tradizionale – si configura come una dimensione ideale per mettere in discussione le dinamiche di potere legate alla conoscenza. Hemi non si limita a catalogare il materiale raccolto da collettivi artistici, attivisti e centri di ricerca, ma spesso dà vita ad alleanze virtuose con i soggetti la cui eredità si impegna a trasmettere. Tra le collaborazioni più interessanti compaiono quella con The Illuminator, collettivo artistico newyorkese ospitato in residenza artistica dall’Hemi nel 2016, con Mujeres Creando, gruppo femminista radicale boliviano, e con Mapa Teatro, tra le principali compagnie teatrali sperimentali colombiane.
Questi casi sono preziosi per lo studio del lavoro dell’Hemi, perché testimoniano la capacità dell’archivio di incoraggiare la creatività dei soggetti con cui collabora e tenere traccia dell’aspetto relazionale e delle strategie di resistenza sottese alle espressioni artistiche.
The Illuminator
The Illuminator è un collettivo artistico newyorkese che persegue una linea di impegno civile attraverso l’utilizzo di proiezioni luminose in forma di guerrilla performance. Il collettivo – nato nel marzo 2012 a partire dal movimento Occupy Wall Street – promuove interventi di proiezione come strumenti d’azione nello spazio pubblico. Queste performance vogliono essere un invito a trasformare la strada da luogo di transito e consumo passivo in spazio di impegno, conflitto, consapevolezza e dialogo.
Il collettivo – composto da attivisti, videomaker, artisti visivi e programmatori – si propone come portavoce di un ipotetico supereroe chiamato “Illuminatore”, simbolo del desiderio comune di far luce sulle ingiustizie sociali e dare visibilità alla lotta per i diritti umani. Il collettivo si impegna ad adottare uno stile comunicativo chiaro e immediato per rendere accessibile a tutti la sua missione: favorire il pensiero critico nella soffocante cultura visiva e mediatica contemporanea.
La richiesta di una maggiore uguaglianza fiscale, sociale e giudiziaria – centrale in performance come Tax Evaders, The Lottery of Birth e Wheel of Justice – è solo uno dei tanti temi oggetto delle azioni di The Illuminator. Tra gli elementi distintivi dell’attività artistica e politica del collettivo, infatti, vi sono l’attitudine a prendere posizioni nette di fronte a fatti d’attualità e a creare alleanze con altri gruppi di artisti e attivisti. Da questi presupposti nascono performance finalizzate a utilizzare gli spazi pubblici per dare visibilità a urgenze comuni: il problema del debito studentesco, l’impellente questione climatica, l’opposizione alle politiche di respingimento e deportazione dei migranti e la necessità di creare alleanze con movimenti femministi e LGBTQ+.
L’estrema varietà di temi affrontati si coniuga con l’utilizzo di una strumentazione e una metodologia che resta sempre pressoché invariata: un van bianco, ormai simbolo del collettivo, su cui è montata una pedana utilizzata per muovere un proiettore. Tutti gli interventi realizzati da The Illuminator circolano on-line e gli utenti possono accedere gratuitamente alle risorse digitali necessarie per realizzare le proiezioni in autonomia. Il caso di The Illuminator, analizzato in relazione al lavoro dell’Hemi, è particolarmente fortunato perché parallelamente ai canali social del collettivo, che forniscono molto materiale con una contestualizzazione minima o talvolta assente, l’Hemi svolge un lavoro di selezione, contestualizzate e, talvolta, di incentivo alla creazione.
The Illuminator non si limita a organizzare proiezioni di diapositive su edifici pubblici, ma cerca di coinvolgere chi assiste alla performance per favorire il dibattito su urgenze comuni. Il collettivo ha sperimentato in più occasioni l’utilità di semplici videogiochi che, proiettati e utilizzati direttamente dai passanti, favoriscono l’interazione. Il caso più recente è quello di Border Blaster – letteralmente “distruttori di muri” –, azione ispirata alla recente politica statunitense di respingimento dei flussi migratori provenienti dal Messico. L’installazione prevede la proiezione dell’immagine di un muro che può essere distrutto solo grazie alla collaborazione tra gli spettatori che, attraverso l’utilizzo della voce, producono un’intensità sonora tale da abbattere la barriera. Il caso di Border Blaster è interessante perché l’idea dell’opera è stata ispirata direttamente dall’Hemi, che ha invitato The Illuminator a collaborare in occasione dell’ultimo Encuentro avvenuto nel giugno 2019 a Città del Messico.
Mujeres Creando
Mujeres Creando è un collettivo femminista radicale composto da donne di diverse culture, origini e condizioni sociali. Fondato a La Paz nel 1992, Mujeres Creando utilizza la creatività come strumento di resistenza e partecipazione sociale adoperando come spazio d’azione privilegiato la strada, intesa come luogo di apparizione in cui performare la propria identità (Butler, 2015), lontana dagli stereotipi di genere. Mujeres Creando agisce attraverso performance – denominate nella maggior parte dei casi come semplici “acciones públicas” – e graffiti. Il collettivo porta avanti una costante campagna di informazione e sensibilizzazione attraverso pubblicazioni periodiche, la gestione di un consultorio e di un centro di accompagnamento per donne vittime di violenza.
L’attività del gruppo è importante soprattutto in prospettiva diacronica, perché si tratta del movimento femminista più longevo e conosciuto della storia boliviana. Sfortunatamente però, a causa della scissione verificatasi all’interno del gruppo nel 2001, nell’attuale sito del collettivo è reperibile esclusivamente materiale relativo ad azioni recenti. In questo senso, l’attività di documentazione svolta dall’Hemi è molto preziosa, perché permette di ricostruire l’evoluzione del movimento sin dalle origini attraverso materiale altrimenti inaccessibile.
Tra i video conservati dall’Hemi quello intitolato Acción 4 testimonia il modo in cui il collettivo, già negli anni Novanta, denunciava la discriminazione verso le donne indigene convenzionalmente identificate come “cholitas” (vezzeggiativo del termine chola, letteralmente “meticcia”, utilizzato con valore dispregiativo dai conquistatori spagnoli). In questo video alcune donne, in abiti tradizionali, svolgono il ruolo di performer avvicinandosi alle clienti di un centro commerciale di La Paz e offrendo un piccolo fiocco rosa simbolo di Mujeres Creando. L’archivio dell’Hemi contestualizza questa performance riflettendo sulle reazioni delle clienti avvicinate, spesso imbarazzate, diffidenti o infastidite. Questa azione può essere considerata un’esemplificazione di quella dinamica di visibilità e invisibilità imposta che è stata analizzata da Taylor in Disapperaring Acts (Taylor, 1997): la condizione delle donne indigene è infatti elemento costitutivo della società boliviana, eppure spesso è omessa o ridotta ad aspetto folkloristico, perché optare per una soluzione semplificatoria è più immediato rispetto a un possibile processo di decolonizzazione e ripensamento della storia culturale. L’Hemi, in collaborazione con tante realtà come Mujeres Creando, si impegna a proporre modelli alternativi.
Mapa Teatro
Tra le principali compagnie artistiche colombiane, Mapa Teatro realizza progetti teatrali, performance e installazioni adoperando forme espressive sperimentali e una commistione di linguaggi artistici. Sin dalla sua creazione, Mapa Teatro ha dato vita a uno spazio favorevole alla trasgressione dei confini – geografici, linguistici, artistici – finalizzata alla messa in scena di impellenti questioni locali e globali. La compagnia si identifica in uno «spazio di migrazione in cui entrano continuamente in dialogo mito, storia, attualità, vita privata e dimensione collettiva»[1]. La gentrificazione, la pervasività della violenza sociale, le carenze del sistema carcerario e la complessa identità delle città multiculturali sono solo alcuni dei temi affrontati da Mapa Teatro che, in linea con quanto espresso da Taylor (Taylor, 1997), si interroga sul valore del teatro e della performance come strumenti di elaborazione di traumi e memorie collettive.
L’archivio dell’Hemi documenta gran parte dell’attività di Mapa Teatro e fornisce una testimonianza capillare dell’opera più celebre e complessa della compagnia: il Proyecto C’úndua. Questo lavoro, costituito da tre diverse performance e sviluppato dal 2000 al 2005, si articola a partire dalla demolizione di El Cartucho (una delle zone più pericolose e antiche di Bogotá), decisa dall’amministrazione Peñalosa in vista della realizzazione di un ampio parco pubblico – il cosiddetto Parco del Terzo Millennio –, tuttora poco sicuro e frequentato. Il Proyecto C’úndua è esemplificativo del modo di lavorare della compagnia, che adopera prevalentemente un approccio laboratoriale in fase di studio e affianca la prassi performativa a installazioni artistiche, rielaborandola attraverso variazioni successive. L’archivio dell’Hemi consente di ricostruire tutto il processo e di approfondirne le implicazioni. Il caso è stato infatti studiato a lungo da Taylor, perché dimostra l’utilità della performance come strumento di messa in discussione e rielaborazione di un’identità culturale[2], capace di testimoniare un vissuto collettivo e contribuire, in maniera anche estremamente concreta, al processo di ripensamento del contesto urbano.
The Illuminator, Mujeres Creando e Mapa Teatro sono solo tre tra i tanti casi che si potrebbero citare per testimoniare che l’archivio dell’Hemi si nutre della continua interazione con le realtà che documenta e che il rapporto dinamico e generativo con i collettivi artistici può articolarsi in varie forme. L’esistenza di questo archivio, infatti, non può prescindere da contributi complementari quali: l’esistenza di materiale documentario che è catalogato, conservato e reso accessibile; la promozione di incontri di diverso tipo, durante i quali agli artisti è concessa un’ulteriore occasione per contestualizzare il proprio lavoro e ricevere stimoli da realtà analoghe; e, infine, la richiesta sporadica rivolta ad alcuni gruppi di progettare performance o installazioni in vista di alcuni eventi ideati dall’Hemi e focalizzati su temi specifici. L’attività dell’Hemi concretizza quindi quelle che Taylor identifica come le due principali caratteristiche dell’archivio vivo: l’esistenza in divenire e la vocazione politica.
Note
[1] Mapa Teatro Web Site
[2] Per la questione dell’identità culturale come polo di contraddizione tra un’utopia postidentitaria, orientata a rinunciare al concetto stesso di identità, e forme di resistenza, si veda Paul B. Preciado, L’identità non esiste ma il potere la usa, in «Internazionale», 20 febbraio 2020: LINK
Bibliografia
Auslander P., Liveness. Performance in a mediatized culture, Routledge, Londra-New York 1999.
Butler J., Notes Toward a Performative Theory of Assembly, Harvard University Press, Cambridge 2015.
Lepecki A., The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances, in «Dance Research Journal», XLII, 2, 2010, pp. 28-48.
Phelan P., The Ontology of Performance: Representation Without Reproduction in Id., Unmarked:The Politics of Performance, Routledge, Londra-New York 1993, pp. 146-193.
Schneider R., Re-Do: Performing Remains (2001), in Id., Performing Remains. Art and War in Times of Theatrical Reenactment, Routledge, Londra-New York 2011, pp. 87-110.
Taylor D., Theatre of Crisis: Drama and Politics in Latin America, Kentucky University Press, Lexington 1991.
Id., Disappearing Acts: Spectacles of Gender and Nationalism in Argentina’s “Dirty War”, Duke University Press, Durham-Londra 1997.
Id., The Archive and the Repertoire: Performing Cultural Memory in the America, Durham-Londra, Duke University Press 2003.
Id., Save As… Knowledge and Transmission in the Age of Digital Technologies, in «Imagining America», n.7 (2010), pp. 1-24.
Id., Politics, Aesthetics and Performing Arts: The Archive and the Many Lives of Performance in Per-formare il sociale. Atti del Convegno (Università Cattolica del Scaro Cuore, Milano, 20-21 settembre 2019).
Sitografia
Hemispheric Institute of Performance and Politics: LINK
Archivio video dell’Hemispheric Institute: LINK
The Illuminator: LINK
Mujeres Creando: LINK
Mapa Teatro: LINK
Federica Scaglione (1995) è caporedattrice e responsabile della Sezione Teatro di Birdmen Magazine, con cui collabora dal 2017. Svolge attività di segreteria organizzativa, ufficio stampa e curatela di progetti partecipativi per realtà teatrali genovesi e pavesi. Ad aprile 2020 si specializza in Filologia Moderna. Scienze della Letteratura, del Teatro e del Cinema presso l’Università di Pavia con una tesi sull’archiviabilità della performance incentrata sul lavoro di Diana Taylor.