§archivio è potere
Archivio è contropotere.
Pratiche insorgenti, luoghi e antinomie
di Andrea Curtoni e Giulia Mazzorin

“Insurgent Urbanism” è un’espressione apparsa in letteratura intorno alla metà degli anni ’90 in un testo di James Holston[1], per enfatizzare l’opposizione esercitata da alcune parti della cittadinanza al progetto politico moderno di costruzione dello stato-nazione, inteso come l’unica fonte legittima di diritti, significati e pratiche. Nonostante tale espressione sia relativamente recente, possiamo riconoscere alle sue spalle una tradizione di studi che si sono concentrati sul tema del conflitto, dell’autorganizzazione, dell’informalità in ambito urbano e del conseguente rapporto con l’urbanistica.
Individuali o collettive, le pratiche insurgent costituiscono un dato tanto esistenziale quanto politico, possono soddisfare i diritti più elementari, oppure possono rappresentare l’insieme dei corpi che irrompono nella scena pubblica. In entrambi i casi, ed entro forme sempre differenti, al centro di queste pratiche ritroviamo la fisicità espressa da corpi in   relazione ad alcuni spazi critici. Dentro queste pratiche il corpo è il luogo di transito per rinnovare una relazione con lo spazio urbano e per elaborare nuove forme politiche e di  cittadinanza. Considerato questo, all’intersezione tra espansione ed erosione del concetto di cittadinanza si trovano numerose e interessanti implicazioni spazio-temporali.
Da questa premessa, il testo si propone di indagare e confrontare le pratiche e le  forme di archivio connesse al moltiplicarsi delle forme di rivendicazione dei diritti e della cittadinanza in ambito urbano e la loro implicazione sui piani topologico e nomologico, del luogo e della legge, del supporto e dell’autorità (Derrida, 1995). A partire da alcuni aspetti teorici, si osserverà il valore dell’archivio all’interno delle dinamiche urbane attraversate concependolo come momento di riscrittura e di contesa dello spazio (Miessen, Chateigné 2016), come confronto critico al contesto mutevole delle decisioni politiche e degli assetti proprietari, nonché come strumento di cura reciproca e soddisfacimento di necessità proprie dell’individuo.
Infine, sullo sfondo di queste ricerche, si può intravedere il contributo dei performance studies di matrice nordamericana che, a partire dagli anni ’60, hanno affrontato la questione della memoria specifica prodotta dall’evento performativo e delle rimanenze che continuano a prodursi oltre il tempo istituzionale dell’evento in sé. Un’ipotesi fondamentale, infatti, è che proprio per il loro carattere di impermanenza, per la mancanza di durata e per il loro carattere di imprevedibilità, le pratiche dirette d’azione urbana condividano con la performance quello che Peggy Phelan ha definito, nel suo testo seminale “Unmarked. The Politics of Performance” come “condanna”; ovvero l’impossibilità di assumere forma nella permanenza e durabilità nel tentativo di resistere all’oggettivazione e mercificazione dell’arte. Se è vero infatti che le ricerche della Phelan hanno privilegiato una comprensione della performance come rifiuto all’oggettivazione, gli studi di Rebecca Schneider hanno avuto il merito di introdurre il tema della performance come memoria, individuando nei modi in cui la performance viene documentata la possibilità di espandere l’ambito di  applicazione dell’archivio.

L’articolo presenta due esperienze d’archivio, entrambe concepite e sviluppate al Lido di Venezia, un territorio che, dal 2006 a oggi, ha rappresentato un caso esemplare di sottrazione – anche attraverso il commissariamento governativo – dalle procedure democratiche di pianificazione e di uso dello stesso da parte delle più spietate logiche della speculazione immobiliare. Questo ha significato la chiusura di importanti strutture ricettive alberghiere, come l’Hotel Des Bains, o militari, come la Caserma Pepe, la perdita di servizi sanitari, con la chiusura dell’Ospedale al Mare, l’erosione di aree ambientali di pregio naturalistico, con i lavori del Mo.S.E. In questo contesto, dalla fine degli anni ’90, cittadini e associazioni hanno promosso una serie di battaglie con l’intento di salvaguardare il proprio territorio dai numerosi progetti di trasformazione che lo hanno  riguardato. Nuovi processi di collettivizzazione hanno saputo riannodare le reti di solidarietà che storicamente hanno caratterizzato alcuni di questi spazi, come nel caso dell’ex Ospedale al Mare, oppure hanno saputo ri-significare radicalmente luoghi in disuso attraverso inedite pratiche culturali e sociali, come nel caso di riuso dell’ex Caserma Pepe.
Queste esperienze hanno avuto origine a partire dai vuoti lasciati dalla crisi economico-finanziaria mondiale (2006-2008), la quale ha segnato una battuta d’arresto per numerosi progetti in atto o previsti, evidenziando l’inadeguatezza o la inattuabilità di quel progetto complessivo di sviluppo del territorio. Le esperienze insurgent considerate sono identificabili come processi di riappropriazione e cura della città e si realizzano attraverso forme di auto-organizzazione. Sullo sfondo di questi casi si scorge il panorama complesso delle rivendicazioni urbane esplose negli ultimi anni a Venezia, come altrove in Italia.

Inventario OaM, 2017, image Giulia Mazzorin, 2017

I. Ex Ospedale al Mare
«[…] Il gioco e le esperienze culturali sono cose a cui diamo valore in modo speciale; esse legano passato, presente e futuro e mettono insieme tempo e spazio» (Abram, 1996). L’Archivio della Memoria dell’ex Ospedale al Mare è stato costruito nell’arco di sei anni, tra 2011 e 2017, durante e attraverso l’azione per la difesa del Teatro Marinoni, il padiglione ospedaliero più simbolico e comunicativo nella storia dell’ex nosocomio. Trentatré padiglioni, una grande spiaggia, una chiesetta e il teatro vennero costruiti per mezzo di donazioni tra fine Ottocento e inizio Novecento con l’intento di curare i bambini malati di tubercolosi attraverso elementi naturali quali l’acqua del mare, la sabbia, il sole, il vento, l’umidità e l’elettricità presenti nell’aria. Nel 1921 un comitato di Cittadini ebbe l’ambizione di introdurre l’arte come strumento di cura e fece costruire il teatro intitolandolo a Mario Marinoni, uomo di legge e filantropo che lasciò un segno molto importante nel dopoguerra operando per riorganizzare il tessuto lavorativo per le fasce più povere della popolazione. Giuseppe Cherubini affrescò il soffitto del teatro con la rappresentazione di Nettuno intento a giocare con i bambini in riva al mare. In seguito a un trentennio di progressivo abbandono, il 2006 vide la chiusura definitiva della struttura e il 2012 segnò l’isolamento fisico dell’area dal suo contesto urbano con l’applicazione di una rete di recinzione con conseguenti cartelli di divieto d’accesso. Tutto il mobilio, l’attrezzatura sanitaria, i dati sensibili, finanche gli appunti ed il materiale di lavoro quotidiano degli operatori, vennero lasciati nelle stanze dei padiglioni come in attesa di un ritorno. Privato del proprio sistema di vigilanza, con la chiusura della portineria, negli anni l’ex ospedale divenne un terrain vague, oggetto dei peggiori tipi di vandalismo e deturpato da profondi scavi attuati da un progetto di bonifica che prevedeva la rimozione dei suoli “contaminati”. A causa di progetti speculativi non ancora realizzati, il sito fu venduto molteplici volte e l’enorme eredità culturale insita nella storia del luogo fu totalmente rimossa dall’apparato decisionale, che perseguiva la volontà di trasformare l’ex ospedale in un resort di lusso. In questo contesto, nel 2011, nacque un comitato molto eterogeneo di persone che iniziarono a prendersi cura fisicamente del teatro e a elaborare un progetto alternativo alla vendita e privatizzazione del bene.

Untitled, photo Giulia Mazzorin, 2013

Se da un lato gli intenti del gruppo erano chiari, dall’altro le modalità d’azione e il reale contributo al progetto hanno prodotto forme di coinvolgimento e partecipazione molto diverse, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. L’esistenza di uno spazio abbandonato, forzatamente “isolato” ed escluso dalle dinamiche di relazione che ordinano la “società civile”, ha facilitato, infatti, la presenza di quelle persone che sono a loro volta escluse e “rimosse” da quella “società civile”, spesso perché incapaci di rispettarne le regole o di trovare uno spazio “adeguato” per l’espressione di sé. La presenza di un luogo come il Teatro Marinoni all’interno dell’ex ospedale ha facilitato la co-esistenza di persone molto diverse tra loro, per età, interesse, “status” civile e psicologico. Persone che molto difficilmente sarebbero entrate in contatto nella città consolidata hanno trovato all’interno del teatro un modo per incontrarsi, convivere e talvolta collaborare. In questo caso, la storia stessa del luogo, così eticamente significativa e sensibile alle necessità più strettamente legate al solo benessere psico-fisico dell’uomo, ha avuto un ruolo importante nel muovere anche le persone più “fragili” psicologicamente verso l’ideale di partecipare attivamente alla tutela di uno spazio così importante ed emozionalmente coinvolgente.                                                                 
Considerando l’eterogeneità di questo gruppo e le diverse temporalità di partecipazione, si può dire che l’unica azione che ha coinvolto veramente tutti gli individui sia stata la costruzione di un archivio di oggetti che potesse raccontare la storia dell’Ospedale al Mare. Se le diversità e le numerose fonti di stress ambientale sono state causa di conflitto e, talvolta, di distaccamento dal progetto complessivo, la costruzione di questo archivio è stata l’unica vera azione collettiva realizzata nella totale condivisione della pratica e degli intenti. Ogni personalità, infatti, ha raccolto, pulito e riutilizzato oggetti trovati tra le macerie dell’ex Ospedale, ritrovando nell’oggetto recuperato «quell’oggetto da amare e da cui essere amato» (Rugi, 2015) attraverso il quale attivare «la proiezione identificativa» (Bion, 1996) della creatività in una relazione soddisfacente tra interno (psiche) ed esterno (ambiente).
A seconda della maturità psichica individuale di chi lo costruiva, l’Archivio della Memoria poteva avere la funzione di essere un oggetto transizionale (Winnicott, 1951), oppure  creare la possibilità di accedere a quella zona intermedia chiamata spazio transizionale o esperienza transizionale.
Attraverso l’uso, prima, e la relazione, poi, con gli oggetti transizionali e gli spazi transizionali, l’uomo impara a soddisfare le sue necessità inconsce nella relazione con l’ambiente esterno, creando un modo per trasformare, oppure semplicemente negare, la frustrazione. Infatti, «la ricerca della felicità prende posto all’interno dello spazio transizionale nel quale la soddisfazione può realizzarsi oppure no» (Abram, 1996). Nel caso della costruzione dell’Archivio della Memoria, la soddisfazione si ripeteva con continuità, sia nella ricerca esplorativa dell’area per trovare l’oggetto da raccogliere, sia  nell’immaginare e agire la sua rifunzionalizzazione per valorizzarlo. Per le persone più fragili, la ricerca si tramutava sempre in un gioco avventuroso, per cui più era difficile raggiungere l’oggetto,  più l’azione assumeva il ruolo di gratificare la propria autostima, generando la possibilità di dimostrare agli altri la propria prestanza fisica e l’assenza della paura. Quando l’esplorazione era solitaria, la massima soddisfazione emergeva al ritorno, quando si esibiva l’oggetto recuperato e si raccontavano le varie vicissitudini affrontate per raggiungerlo.
Il riuso dell’oggetto, si materializzava in tre diverse forme. La prima implicava  nuovamente il gioco, per cui, per ridare vita all’oggetto, il soggetto ideava travestimenti e movenze ad hoc creando, di fatto, una situazione dinamica di contatto diretto tra il corpo-soggetto e l’oggetto-esterno. Nella seconda forma di riuso, l’oggetto veniva posizionato nello spazio come nuovo oggetto d’arredo, per  soddisfare necessità estetiche compositive o semplicemente per sostenere pratiche di vita quotidiana. La terza forma di riuso, comprendeva una pratica di accumulo/collezione degli oggetti più piccoli e minuti, per comporre la Libreria degli Oggetti in una stanza del secondo piano del teatro, dedicata alla loro esposizione/fruizione. Ogni oggetto dell’archivio era diventato un dispositivo che permetteva di raccontare tre storie: l’avventura che aveva portato al suo recupero, l’abilità estetico-creativa espressa nel suo riuso e il passato dell’ex Ospedale al Mare. In un certo senso, quel dispositivo era diventato uno strumento per raccontare sé stessi attraverso il racconto dell’altro, dall’esperienza di muoversi nello spazio (storia del recupero dell’oggetto), alla capacità di comporre lo spazio per soddisfare le più svariate necessità vitali (riuso), fino ad agire, nel suo comporsi, sulle capacità comunicative di ogni individuo.

Scrigno della Memoria, assemblaggio e photo Giulia Mazzorin, 2014

L’assenza di grossi stress ambientali legati allo svolgimento di questa pratica assopiva le frustrazioni interiori e assicurava la continuità dell’essere sé stessi nella relazione, senza la necessità di attivare meccanismi di difesa; in questo modo il rapporto e l’espressione del vero sé con l’altro (oggetto stesso e gruppo) poteva diventare una sede abbastanza solida per l’esperienza culturale, insieme a un luogo (l’azione nello spazio) dove ‘evadere’ per sentirsi bene (spazio transizionale).
Nel 2017,  l’impossibilità di trovare un accordo con la nuova proprietà dell’ex Ospedale per formalizzare il progetto di riuso proposto per il teatro ha portato alla fine dell’esperienza. Nel verbale di consegna delle chiavi è stato allegato un inventario di tutti gli oggetti che costituiscono l’archivio, con la sottoscrizione dell’impegno reciproco delle parti rispetto alla possibilità, assicurata al gruppo uscente, di poter recuperare questo materiale della memoria nel momento di avvio del cantiere per il restauro del teatro. La sottoscrizione dei documenti ha rappresentato un passaggio importante per il riconoscimento dell’archivio e, di conseguenza, delle azioni di cura e salvaguardia che l’hanno generato, nonostante la criticità della storia che entrambe incorporano. L’ultima azione realizzata all’interno del teatro, prima di uscire definitivamente dalla struttura, è stata proprio l’elaborazione di questo inventario, per il quale tutti gli oggetti della memoria sono stati trasportati al piano terra nella sala del teatro e poi fotografati e catalogati. A lavoro concluso, si è verificata l’ultima forma di riuso di tutti gli oggetti nel loro insieme, come corpo della memoria depositato ordinatamente, e con estrema cura, sotto l’affresco del Cherubini ad occupare l’intera sala del teatro. La memoria stessa del luogo appare oggi come l’unica abitante dello spazio e la sua presenza è stata in grado di ostacolare l’uso di quella sala, riservata alle autorità, per la presentazione dell’ultimo progetto proposto da T-Resort e Club Med in merito alla riconversione dell’ospedale in centro turistico-ricettivo di lusso. La riunione che doveva svolgersi all’interno del teatro è stata spostata nella chiesetta e quegli oggetti occupano tuttora lo spazio, e, in un certo senso, lo difendono, mentre dimostrano la volontà e l’attesa di un altro futuro.

Corpo della Memoria, assemblaggio Andrea Curtoni, Giulia Mazzorin, photo Giulia Mazzorin, 2017

II. Ex Caserma Pepe
Il secondo caso riguarda il progetto di un archivio immateriale (virtuale), costruito attorno alla narrazione condivisa delle pratiche di riuso dell’ex Caserma Pepe avvenuta tra 2014 e il 2019 e all’idea di riprendere possesso del luogo in reazione alla chiusura inaspettata dell’esperienza stessa.
In questo paragrafo verranno evidenziati alcuni aspetti di una ricerca in corso sul valore dell’archivio come momento critico di riappropriazione dello spazio e di riaffermazione della sua memoria attraverso una meticolosa ricostruzione e rappresentazione virtuale. L’archivio e la riappropriazione dello spazio intrecciano la volontà di continuare a mantenere viva l’esperienza nel tempo e avviare una riflessione sul significato del virtuale.
Nella fattispecie, possiamo individuare alcune interessanti implicazioni, sul piano topologico e nomologico, a partire da un duplice confronto con la realtà: da un lato con il mutare delle politiche promosse dall’Agenzia Nazionale del Demanio e la conseguente chiusura dei progetti di Temporary Use, dall’altro con il recente distanziamento fisico e confinamento, conseguenti alla diffusione pandemica del virus Covid-19.
Più in generale, la situazione politica, economica, ambientale e sociale contingente fa appello con insistenza ad una riflessione sul tema dei confini, sia in scala macroscopica – chiusura delle frontiere – sia in scala microscopica – a livello del proprio corpo.
Quale ruolo assume l’archivio all’interno di queste dinamiche nel momento in cui l’archivio stesso viene concepito come sconfinamento nello spazio virtuale?
Quando il contatto fisico tra le persone viene vietato, o quantomeno limitato, il rapporto fra reale e virtuale cambia radicalmente, ma anche, quando il virtuale è una scelta obbligata, anziché una mera modalità di rappresentazione, qualcosa della sua virtualità, del suo “non esistere per davvero” scompare per sempre e il virtuale si mescola con il reale (Böhm, 2020). La virtualizzazione dell’esperienza non viene intesa quindi come perdita, ma come tentativo di riappropriazione del posizionamento fisico e degli oggetti di archivio.
Alla luce di tali considerazioni, la costruzione di questo secondo archivio è da intendersi nel complesso come esperienza ri-mediata; un’azione comunque in grado di restituire il campo relazionale di interazioni, tecniche, storie, ma anche resti, tracce e relitti di informazioni di cui si è fatta esperienza “nell’incontro” tra lo spazio abbandonato e la sua riattivazione. Come nel caso precedentemente affrontato la costruzione dell’archivio attraversa diverse fasi.

Mappa Azione, 2016-2018, image Andrea Curtoni, 2020

Una prima traccia di documentazione è stata prodotta durante lo svolgersi dell’azione  stessa ed è stata raccolta in un sito internet (biennaleurbana.com) costituito da una mappa e dalla visualizzazione dei flussi di informazione generati all’interno di gruppi Telegram, il servizio di messaggistica istantanea e voice-over IP. Questo primo livello ha riguardato lo sviluppo inedito di un “ponte” tra il servizio Telegram e la pagina web ed è stato concepito fin da subito come meccanismo istantaneo di produzione narrativa dell’azione condivisa (della posizione e di svariati media). Un secondo livello dell’archivio è stato elaborato insieme all’artista Michele Böhm[2], pioniere della computer grafica in Italia e dello studio Codenrama[3], che si muove per approfondire la tensione tra “oggetto scritto” e  “residuo vitale”, tra l’amore archivistico e la rievocazione. L’oggettualità è restituita da un modello tridimensionale e da un rilievo fotogrammetrico, in grado di misurare l’involucro edilizio e di restituire l’aspetto rovinoso della caserma, nonché dalla ricostruzione virtuale delle micro-architetture realizzate durante l’esperienza di uso temporaneo. La vitalità dell’esperienza emerge invece nella virtualizzazione attraverso una rievocazione delle dinamiche delle persone indaffarate nelle attività realizzate e dalla possibilità di ospitare un nuovo programma culturale.
Come nella tradizione classica dell’archivio “burocratico”, l’archivio dell’esperienza di riuso dell’ex Caserma Pepe funziona come un’istituzione mnemonica, ovvero funziona in una sorta di correlazione tecnologica con la memoria (Spieker 2008); in questo caso, però, è la struttura spaziale ad agire come Mnemotecnica. “Lo spazio virtuale” sostiene Böhm «viene concettualizzato come un Locus che contiene un numero arbitrario di Loculi, sottoregioni dello spazio, per l’esattezza parallelepipedi. La cosa importante da capire è che il virtuale può raffinare se stesso sino a diventare costruzione di un mondo, o sperimentazione sulla costruzione di un Locus della mente, qualcosa che, avendo al proprio centro la mappatura, ha un interesse per la moderna geografia e che, configurandosi come mnemotecnica, accende importanti riflessioni sull’archivio» (Böhm, 2020).
Al contrario dell’archivio moderno, investito della preoccupazione del XIX secolo di registrare e preservare il “tempo nel flusso” (Spieker, 2008; Doane, 2002), nell’archivio a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, come affermato da vari teorici (Ernst, 2005; Spieker, 2008; Foster, 2003), le relazioni tra le parti non possono più essere ridotte a disposizioni o categorie formali; mostrano piuttosto una tendenza all’entropia. Hal Foster ci suggerisce quindi che ora abbiamo a che fare con un archivio entropico in cui gli “ordini di cose” vengono “sciolti” (Foster, 2003). «Questo non vuol dire che non sussistano più problemi di sistemazione gerarchica dell’informazione, ma invece ci ricorda che accanto alla ricerca strutturata e organizzata sempre maggior peso ha la ricerca generalizzata, interdisciplinare, selvaggia, in cui il contesto semantico è dato dall’incrociarsi di alcune parole-chiave» (Böhm, 2020).
Infine, nel testo Archival Art: Negotiating the Role of New Media Susanne 0. Sæther, nel condurre la propria ricerca sull’archivio in relazione ai nuovi media, ha posto l’accento sul rapporto tra l’utente e l’archivio, la posizione dell’artista e la struttura del contenitore.
Seguendo la struttura proposta dalla studiosa possiamo sostenere che nell’epoca della simulazione, resa possibile dalla proliferazione delle schede grafiche ad alte prestazioni, è possibile immaginare ciò che l’artista Michele Böhm ha definito cornice senziente e produrre un mondo virtuale come casa e macchina della memoria. L’immersione è quindi, in questo caso, il risultato dello sconfinamento spaziale nel virtuale, ma dentro una cornice senziente. (Böhm, 2020).

Untitled, 2016-2018, image Michele Böhm, 2020

III. Conclusioni
In che senso ed entro quali limiti queste esperienze insurgent possono delineare un campo d’interesse per la riflessione intorno al rapporto tra l’Archivio e Potere? Due archivi, uno materiale e uno immateriale, mostrano le possibilità di provocare un empowerment individuale e collettivo. La costruzione del primo archivio è stata un’attività culturale che ha facilitato l’accesso a quell’area intermedia dove fare esperienza della relazione tra   mondo interno e mondo esterno, per entrare in contatto con il vero sé attraverso l’esercizio della propria creatività, intesa come «il fare che emerge dall’essere» (Winnicott, 2002). In questo senso, l’Archivio della Memoria dell’Ospedale al Mare ha avuto il potere di generare un processo di apprendimento emotivo capace di rafforzare l’individuo nell’esercizio delle proprie capacità ambientali. L’oggetto ospedaliero fungeva da contenitore positivo della proiezione del sé e della propria relazione con l’altro, perché la cura dell’oggetto e la sua rifunzionalizzazione generava sempre una risposta gratificante all’azione trasformativa   attuata dal soggetto. Inoltre, la relazione oggetto-individuo aveva anche un ruolo sociale, nel senso che l’azione di ‘ridare vita all’oggetto’ aveva un valore simbolico riconosciuto dall’intero gruppo, sia come atto trans-formativo/riparatore, che come mezzo utilizzato per comunicare all’esterno gli intenti del gruppo. L’archivio è, infatti, la testimonianza fisica di una storia scomoda che ostacola l’accettazione da parte dell’opinione pubblica di un progetto di riqualificazione dell’area non consono al valore prodotto durante le fasi di vita dell’Ospedale. Il secondo caso riguarda il progetto di un archivio virtuale dell’esperienza di riuso dell’ex Caserma Pepe che nasce dall’idea, o meglio, dalla necessità di reagire per riprendere possesso di un luogo sottratto insieme alla possibilità di continuare l’esperienza stessa. Smaterializzandosi nel virtuale, l’archivio riesce a mantenere viva quella tensione tra “oggettualità” del documento e “vitalità” attraverso la quale l’azione riesce ad estendere se stessa, garantendosi una permanenza nello spazio anche con la possibilità di organizzare una programmazione culturale. Infine, lo spazio virtualeriesce a produrre quello che Foster ha definito una contro-memoria foucaultiana estendendo la riflessione sul ruolo dei supporti della memorizzazione, organizzando lo spazio virtuale come Locus della mente. (Böhm, 2020). Entrambi gli archivi, a partire da queste considerazioni, si configurano dunque come dispositivi in grado di mettere in crisi l’archè in senso nomologico, l’archè del comando, (Derrida, 1995) configurandosi come azione “antinomica”, e, in ultima istanza, come contropotere.

Untitled, 2016-2018, image Michele Böhm, 2020

Note
[1] James Holston è antropologo e docente di Antropologia Socioculturale alla Berkeley University. La sua ricerca più recente ha esaminato l’insorgere di forme democratiche di cittadinanza nel contesto dell’urbanizzazione e di quei movimenti di cittadini che              insorgono in relazione ai progetti degli Stati-nazione che mirano a produrre la nazione e gestire la dimensione sociale imponendo un futuro incarnato entro piani, progetti di      pianificazione urbana, piani di sviluppo, leggi e governo.
[2] Nei primi anni ‘80 Michele Böhm fonda con Marco Tecce la Crudelity Stoffe, che propugna l’Abolizionismo. Negli anni ‘90 si dedica alla creazione di software legato all’analisi delle immagini e al riconoscimento dei caratteri e nel decennio attuale al Fotorealismo Elettronico. Nel 2007 fonda con Francesco Palenga lo studio Codenrama. Ha esposto al Beaubourg, alla Biennale, al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.
[3] Codenrama nasce nel 2007 e si occupa principalmente di Computer Vision, Fotorealismo, Simulazione, Motion Capture e nuovi metodi di rilievo 3d per produzione di video digitali per il cinema e la pubblicità.

Bibliografia
Abram J., Il linguaggio di Winnicott. Dizionario dei termini e dei concetti winnicottiani. Franco Angeli, Milano, 2002.
Baroni M.R., Psicologia ambientale. Il Mulino, Bologna, 1998.
Bion W.R., Cogitations: pensieri. Armando editore, Milano, 1996.
Derrida J., Mal d’archivio: un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996.
Doane M.A., The Emergence of Cinematic Time: Modernity, Contingency, the Archive. Harvard University Press, Cambridge-Mass.,2002.
Foster H., An archive impulse, Fall 2004, No. 110, Pages 3-22 Posted Online March 13, 2006, October Magazine, Ltd. and MIT Press, Cambridge-Mass., 2006.
Grav O., Virtual Art: From Illusion to Immersion, MIT Press, Cambridge-Mass., 2003.
Holston J., Spaces of Insurgent Citizenship in Leonie Sandercock (edited by) Towards Cosmopolis: Planning for multicultural cities. University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 1998.
Holston J., Insurgent Citizenship. Disjunctions of Democracy and Modernity in Brazil. Princeton University Press, Princeton, 2008.
Holston J., Appadurai A., Cities and Citizenship, Public Culture 8, 1996, pp. 187-204 The University of Chicago 1996.
Ittelson W.H. (a cura di) La psicologia dell’ambiente. Il contributo della psicologia, geografia, architettura e urbanistica allo studio delle relazioni tra ambiente e processi psicologici. Franco Angeli, Milano, 1978.
Miessen M., Chateigné Y., The archive as a productive space of conflict, Sternberg Press, Berlin 2016.
Phelan P., “The Ontology of Performance. Representation without Reproduction”, in Unmarked. The Politics of Performance, Routledge, London and New York, 1993.
Rugi G., Trasformazione del dolore. Tra psicoanalisi e arte: Freud, Bion, Grotstein, Munch, Bacon, Viola. FrancoAngeli, Milano, 2015.
Schneider R., “Archives. Performance Remains”, Performance Research, 6 (2), 100-108, 2001.
Sæther S., Archival Art: Negotiating the Role of NewMedia, in Eivind Røssaak (edited by) The Archive in Motion. New Conceptions of the Archive in Contemporary Thought and New Media Practices.
Spieker, S.,The Big Archive: Art from Bureaucracy, MIT Press, Cambridge-Mass., 2008.
Wolfgang E., Art of the Archive. In Künstler: Archiv—Neve Werke zu historischen Bestanden, Verlag der Buchhandlung Walther König, Koln, 2005.
Winnicott W., Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Bariatti, Armando, Roma,1974.

Giulia Mazzorin è project manager nell’ambito di progetti di rigenerazione urbana attraverso programmi di produzione artistica e culturale. Ph.D. in urbanistica con tesi transdisciplinare sulla relazione Interno/ Esterno – Uomo/Ambiente. European Master of Urbanism (IUAV/Venezia, TU Delt/Olanda, KU Leuven/Belgio, Parsons, the New School of Design/New York), si è laureate con lode allo  IUAV di Venezia con una tesi transdisciplinare di action-research in Paraguay. ÈCo-fondatrice del progetto Biennale Urbana, Venezia, e coordinatrice del progetto d’uso temporaneo dell’ex Caserma Pepe al Lido di Venezia.

Andrea Curtoni ha ottenuto un Ph.D. in Urbanistica all’Università IUAV di Venezia con una ricerca incentrata sulle pratiche insorgenti e la riappropriazione della città.  Si è laureato con lode in Architettura presso lo IUAV, ha frequentato l’European Master of Urbanism e i corsi presso la Parsons The New School for Design di New York. Collabora dal 2011 con il laboratorio d’arte urbana ON/Stalker di Roma. Co-fondatore del progetto Biennale Urbana (Venezia), dal 2016 al 2019 ha coordinato il progetto di ri-uso temporaneo dell’ex Caserma Pepe al Lido di Venezia.