archivio è potere
Archivio. Autobiografia di un museo
di Isabella Collavizza

Archivi, memoria e autorevolezza. Una premessa.
Nel rispondere all’ambivalente titolo Archivio è potere, cui è dedicato il presente numero della rivista, non sembra possibile prescindere dalla nota definizione di Jacques Derrida, che nel termine archivio individuava «due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano, ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dei comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo da cui l’ordine è dato» (Derrida 1996, p. 11).
Per il filosofo, l’archivio, inteso come contenitore e contenuto, come spazio e concetto, è dunque, descrivibile quale luogo e tempo del “cominciamento”, dove si dà avvio a un processo, ma anche, quale circostanza dove si pratica l’ordine, ovvero l’esercizio di potere sul prodotto di un’attività data (di un soggetto produttore). Tale esercizio di potere andrebbe poi inteso in senso più ampio con l’estensione alla produzione in divenire, come si dirà più oltre, per la capacità dell’archivio di creare “occasioni” attivando riletture e innescando nuovi processi, critici e creativi.
Così anche chi si occupa di archivi e li comunica gioca un ruolo fondamentale ed esercita un’autorità, poiché gestisce con competenza scientifica il patrimonio e ne governa l’informazione, che non si esaurisce nella dimensione tecnica dell’azione dell’archivista, ma nella condivisione, difesa e comunicazione del valore conoscitivo e processuale dell’archivio quale portatore di contenuti diversi, economici, politici, etici, civili, sociali, culturali (Valacchi 2019). All’archivista spetta dunque il compito di attivare nuove “alleanze” coinvolgendo attori con competenze diverse, da storici dell’arte a operatori della didattica, da informatici a comunicatori, che possono diventare parte attiva di questo complesso percorso.
Nella letteratura critica si è andata affermando una concezione che vede nell’archivio non esclusivamente l’esito di un processo naturale ma piuttosto sociale su cui pesano condizioni di natura diversa; l’archivio diventa allora la dimensione fisica dell’autorevolezza (economica, politica, culturale…) del soggetto produttore, manifestazione di un bisogno di controllo strutturato sulla società (Zuliani, 2014).
Strumento imprescindibile per esercitare tale ambita autorevolezza è la conoscenza della memoria. Forte è il bisogno di conservare la memoria del proprio fare per dare legittimità ai propri diritti, alla propria immagine e competenza, che si traduce in garanzia per il presente e per il futuro. L’archivio quale garanzia di profondità e spessore cronologico si identifica nell’espressione fisica e tangibile dell’identità dello stesso soggetto produttore. Le testimonianze archivistiche, di qualunque supporto si parli, sono portatrici, dunque, di quella memoria che coincide con l’identità, individuale o collettiva, sempre più oggetto dell’attenzione della nostra società.
L’uso identitario degli archivi è legato al concetto fortemente funzionale di identificazione da parte del soggetto-istituto produttore che opera in una dimensione di recupero della propria memoria, rispondendo a una necessità conoscitiva, ma anche, e soprattutto, al bisogno di guidare e definire la propria immagine e le scelte in una prospettiva di evoluzione che guarda al futuro. Gli archivi vengono così a riposizionarsi nel presente in un quadro rinnovato utile a garantire loro la sopravvivenza e lo sviluppo attraverso nuove forme di valorizzazione in grado di dilatarne i confini.
Riprendendo la riflessione di un lungimirante Michel Foucault (1969), gli archivi per loro natura sono portati a sopravvivere e trasformarsi, interrogandosi e modificandosi; concetto ripreso e ampliato più di recente da Mario Lupano (2013) che, nel riferire sulla pratica del “mostrare l’archivio”, affida ai patrimoni archivistici il compito di smantellare certezze, ovvero insinuare dubbi e porre domande esponendosi e mettendo “a rischio” gli stessi al fine di attivare nuovi processi.

Archivi e musei
Lo sterminato repertorio di testimonianze conservato presso un istituto museale narra del soggetto museo raccogliendo in sé frammenti della sua esistenza che sono fondamentali per la ricostruzione della componente identitaria e per la trasmissione della sua unicità. Gli atti prodotti dal museo, sia esso pubblico o privato, dalla fondazione ad oggi, testimoniano il suo divenire attraverso le tracce materiali della quotidianità dell’istituto fatta di regolamenti, certificati, bilanci, verbali di riunioni, corrispondenze, documentazioni sulle relazioni esterne e sulle diverse attività svolte al suo interno. L’archivio museale si racconta attraverso testimonianze diverse – per natura e supporto – che tracciano una storia fatta di persone, opere, luoghi, momenti, progetti e missioni che, come un filo rosso, accompagnano – o dovrebbero accompagnare – le scelte, la programmazione e la politica museale guardando al futuro (Calcagno, Collavizza 2018).
Specialmente a partire dagli anni Ottanta la ricerca artistica e la museologia iniziano a riconsiderare il ruolo dell’archivio quale strumento per attivare nuovi e inediti rapporti tra museo, pubblico e artisti in un dialogo alla pari tra storia e contemporaneità. Più recente è l’affermazione di un bisogno consapevole di una nuova e attiva interazione tra museo, biblioteca e archivio-centro di documentazione dove la vita dell’istituto si alimenta del confronto interdisciplinare tra collezioni e patrimonio archivistico, che qui assumono un ruolo centrale – e non esclusivamente per lo storico dell’arte – nel processo di ricostruzione dell’identità.
Contro l’isolamento fisico della testimonianza archivistica, il sempre più esteso uso di strumenti digitali, in grado di andare oltre ai limiti posti dalle barriere fisiche, ha certamente favorito la valorizzazione delle potenzialità relazionali di cui è portatore tale patrimonio. La delocalizzazione digitale suggerisce infatti approcci più versatili agli archivi.
Da sempre considerato spazio chiuso, non accessibile, separato dal museo e assoggettato a rigide norme di catalogazione e di normalizzazione delle informazioni, l’archivio necessita sempre più di essere restituito e valorizzato attraverso una visione totalizzante dell’istituzione; patrimonio archivistico da intendersi, dunque, quale elemento fondante(e non complementare) del museo. Accanto alle collezioni museali, l’archivio si identifica come parte integrante di strategie digitali pianificate a sostegno della missione del museo, quale spazio di promozione e condivisione della conoscenza. Da Torino, con il Museo Egizio, a Londra, con il Victoria and Albert Museum e il Tate Archive, o ancora, dal Van Abbemuseum di Eindhoven alla Moderna Galerija di Lubiana attraverso il progetto L’Internationale, sono diverse le istituzioni che hanno scelto di rileggere il ruolo delle proprie collezioni e del patrimonio archivistico avviando azioni di decolonizzazione di musei e archivi (Zanella  2019).
Documento e opera possono così relazionarsi superando categorie già codificate e divisioni imposte tra museo e archivio dando origine a progetti diversi dove, ad esempio, come più di recente ricordato dalla letteratura critica, la testimonianza archivistica può diventare metafora per l’artista che ripropone una rilettura dei documenti scelti come elementi di nuovi linguaggi concettuali e visivi; o ancora, come destinataria di pratiche di rivalutazione del valore semantico del suo patrimonio (Baldacci 2016), con lo “slittamento del posizionamento del documento dallo spazio dell’archivio all’ambito estetico” (Zanella 2019, p. 129).
Esempio significativo di come l’archivio possa essere riconosciuto, oltre che per le dimensioni storiche ed estetiche, anche, e soprattutto per il suo potenziale di soggetto narrante la vita dell’istituzione, attraverso la sua peculiare storia e identità, è il Museum’s Records Management Program del MoMA di New York, finalizzato a promuovere e concretizzare una riflessione sulla natura e sul valore delle relazioni tra collezioni archivistiche e collezioni museali. Il programma nasce per conservare, valorizzare e rendere fruibile non solo la documentazione relativa l’attività sulle opere del museo, ma anche le testimonianze legate al lavoro di direttori, curatori e delle persone che hanno fatto la storia dell’istituzione. Il MoMA Archive, oltre a produrre un programma di esposizioni dedicate agli archivi, si impegna a promuovere progetti con cui l’archivio si integra alla rete. In particolare, il museo può vantare un progetto strategico, di riconosciuto valore e successo, mirato a garantire l’autorevolezza dell’istituzione attraverso il racconto condiviso della storia della sua politica identitario-espositiva. Si tratta dell’Exhibitions histories, un programma avviato nel 2014 con il proposito di concludere entro cinque anni la digitalizzazione e messa in rete dell’archivio di tutte le esposizioni curate dallo stesso MoMA a partire dal 1929. La conoscenza di tale patrimonio archivistico diventa allora imprescindibile per il recupero di quella ricercata identità che può fungere da attivatore, non solo di nuove conoscenze, ma anche di nuovi processi che, qui nello specifico, possono contribuire alla programmazione della futura politica espositiva del museo.

Archivi e mostre. Per una politica espositiva della Fondazione Querini Stampalia di Venezia
L’identità nel caso di un museo è determinata dal contenitore e dai suoi contenuti – le collezioni – che possono essere quelli intrinseci al bene stesso, restituiti dal tempo e reinterpretabili, ma anche costituiti da prodotti e da quelle sovrastrutture temporanee come i servizi e gli eventi. Per le mostre, in particolare, l’archivio nella sua dimensione culturale si fa portavoce di un ampio processo di produzione che, dal progetto scientifico alla sua realizzazione, vede il coinvolgimento di attori diversi all’interno di un sistema produttivo multisettoriale, attraversando un ricco quanto eterogeneo materiale in grado di innescare una fitta rete di relazioni tra contenuti differenti  e nuovi virtuosi processi.
Da tale assunto ha preso avvio il progetto di ricerca sull’archivio della Fondazione Querini Stampalia di Venezia: sede di una collezione permanente, casa storica del ‘700, spazio adibito ad ospitare mostre temporanee di arte contemporanea, testimonianza visibile dell’architettura contemporanea con le aree attribuite a Carlo Scarpa e a Mario Botta, biblioteca, spazio di incontro ma anche, e qui soprattutto, archivio (Trevisan 2010).
Depositario della memoria culturale, sociale e amministrativa dalla sua fondazione nella seconda metà dell’Ottocento, l’archivio si estende su tre piani per 180 metri lineari organizzati in diverse sezioni: “Amministrazione”, “Patrimonio”, “Biblioteca”, “Pinacoteca” e, la serie qui oggetto di indagine, “Manifestazioni culturali e mostre” (Archivio Querini Stampalia, s. III H 2). La scelta di privilegiare quest’ultima sezione specifica risponde sia alla naturale esigenza di circoscrivere una ricerca altrimenti troppo estesa, per cronologia e per consistenza di materiale, sia a un interesse particolare della stessa istituzione per il tema delle mostre temporanee, quale strumento di conoscenza identitaria e di valorizzazione attraverso le due variabili dello sviluppo culturale ed economico.
Per la prima volta, il ricco materiale d’archivio attraverso cui si dipana la storia delle mostre, per diverse ragioni spesso invisibile, viene codificato nella sua totalità superando studi circoscritti a singole figure. L’archivio ripercorre la vita delle mostre nella sua stretta relazione con la vita dell’istituzione, facendo luce sull’orientamento della politica espositiva attraverso gli indirizzi di gestione della sua macchina contenutistica e organizzativa con uno sguardo nuovo sulla storia dei suoi attori protagonisti e delle opere, sulla storia degli allestimenti, così come sulla storia della grafica che attraversa la preziosa raccolta del materiale pubblicitario e degli apparati didattici dei numerosi eventi queriniani. 

Busta contenente materiale didattico espositivo, Archivio Fondazione Querini Stampalia

È un’inedita e stimolante panoramica quella che emerge dall’indagine archivistica condotta attraversando quarant’anni di attività espositive organizzate presso l’istituto queriniano, per il periodo compreso tra il 1963, anno di inaugurazione della prima mostra, e il 2004, che coincide con la fine della direzione di Giorgio Busetto.
Di una storia delle mostre queriniane si inizia a parlare, infatti, dal 1963 in coincidenza con il completamento dei noti interventi di Carlo Scarpa voluti da Manlio Dazzi ma seguiti da Giuseppe Mazzariol, direttore dell’istitutzione tra il 1958 ed il 1974, e finalizzati alla creazione di un nuovo spazio espositivo affidato al progetto dell’architetto Carlo Scarpa. I primi anni di attività sono segnati da una serie di proposte dedicate all’arte contemporanea, a cadenza annuale e di durata limitata, in uno spazio che ambiva a diventare occasione di studio e confronto tra opere e artisti viventi, spesso trascurati dalle altre gallerie e istituzioni cittadine. Dal concetto di mostra quale “operazione conoscitiva” nasce Nuova Tendenza 2 (1963-1964),manifesto d’indirizzo della neo-nata sede espositiva, dove ad essere protagonisti non sono dipinti o sculture, bensì oggetti di serie (tecnologico-artistici e di design) di cui si invita a riconsiderare le possibili funzioni, abbandonando qualsiasi attesa puramente estetico-contemplativa, per rispondere ad una precisa esigenza culturale “privata di interessi economici e turistici, e di significati polemici” al fine di colmare il “vuoto didattico” cittadino, secondo la definizione del suo direttore (Mazzariol, 1963). Come emerge dallo spoglio della corrispondenza che arricchisce i fascicoli di questi  primi anni, è il carattere di necessità culturale a indirizzare le mostre successive, da Viani – Pizzinato (1964) a Mario De Luigi e Pierluca degli Innocenti (1966): «l’idea di queste mostre è di stabilire un contatto sul piano culturale contemporaneo tra Galleria e Biblioteca […] in modo che la Querini non venga confusa con una delle solite Gallerie tipo Cavallino e Traghetto» (AQS, III H 2, f. 1966, lettera di G. Mazzariol a D. Valeri, 13 giugno 1966). Nell’autunno dello stesso anno sarà la volta di Giancarlo Franco Tramontin (1966), che in una lettera, quasi a fine mostra, ringraziava il direttore per la sua disponibilità ricordando l’importanza della sede scelta: «ciò che lei mi ha offerto non è una galleria ma una sede di Cultura e di ricerca contemporanea aperta a tutte le arti» (ivi, lettera di G. Tramontin a G. Mazzariol, 16 novembre 1966).

Fotografia della mostra G.F. Tramontin, Sala Scarpa 1966, Archivio Fondazione Querini Stampalia
Poster della mostra Ung-Noo-Lee, 1972, Archivio Fondazione Querini Stampalia

La vocazione alla ricercata autenticità delle proposte è alla base di scelte espositive spesso eterogenee; dalla più piccola esposizione dell’artista e amica Lotte Frumi (1969) al caso emblematico di Ung-Noo-Lee (1972), «tra le Mostre queriniane degli ultimi anni, fatto eccezionale per le sue qualità poetiche e per vastità e profondità culturale» (comunicato stampa, agosto 1972).
La Fondazione dà voce alla città anche con le sue mostre. Lo sguardo della Querini, in quel preciso dibattuto momento storico, si rivolge alle possibili e favorevoli ricadute positive sulla Venezia e sullo sviluppo culturale del pubblico, sulla scia dell’allora vivace “problema Venezia” su cui lungamente si è soffermata la letteratura, e che qui, nella programmazione espositiva, trova traduzione nella mostra dedicata nel 1973 all’amico architetto Le Corbusier – Le Corbusier purista e il progetto di Pessac – con uno sguardo curioso e inedito su un periodo di grandi dibattiti ideali, di profondo impegno dell’architettura europea e dell’edilizia sociale, di cui la stessa istituzione qui si fa portavoce. Un’iniziativa, di grande successo, di pubblico e di critica, da cui prende avvio l’attività di collaborazione tra istituzioni culturali e università.
Con l’uscita di scena di Mazzariol nel 1974, a segnare il passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta è la mostra I giochi veneziani del Settecento nei dipinti di Gabriel Bella (1978); fedele all’ispirazione del testamento di Giovanni Querini Stampalia, la Fondazione sceglie con questa mostra di presentare e rendere godibile parte del suo patrimonio storico-artistico dando la parola ai dipinti di Gabriel Bella, che diventano oggetto di un importante programma di recupero artistico-conservativo e critico. La corposa documentazione d’archivio restituisce l’estensione del progetto espositivo, compreso il lavoro editoriale sul ricco catalogo.

Materiale preparatorio per le schede e copertina del catalogo della mostra I giochi veneziani del Settecento nei dipinti di Gabriel Bella, 1978, Archivio Fondazione Querini Stampalia

Un progetto, questo, ricordato per il grande successo di pubblico che porta a ben due proroghe e definito dall’allora presidente Germano Pattaro nel discorso di apertura “primo esperimento di riallestimento in chiave didattica della nostra Galleria”. In perfetta coerenza con le premesse teoriche della mostra, l’evento dà avvio a una serie di progetti espositivi organizzati in parallelo al pluriennale programma di restauri e finalizzati alla valorizzazione delle proprie collezioni storiche, rispetto agli eventi per la gran parte di arte contemporanea promossi da Mazzariol.
A nove anni dall’esposizione dedicata a Bella e a tre anni dalla nomina effettiva come direttore, carica che manterrà dal 1984 al 2004, Busetto organizza la celebre mostra I Querini Stampalia: un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano riletta nel contesto socio culturale cittadino del Settecento dove protagonista è la collezione del museo. Progetto che prende avvio con i primi interventi finalizzati al recupero di una porzione del Palazzo da destinare ad area espositiva e con un programma di formazione di un gruppo di studiosi cui affidare il lavoro di riordino e ricerca finalizzato alla pubblicazione del volume dedicato all’Archivio Privato della Famiglia Querini.
La ricca documentazione d’archivio che attraversa la serie di mostre con cui ci si affaccia agli anni Novanta rispecchia l’intensificarsi di una programmazione sempre più fitta, che prende vita da importanti progetti a lungo termine alimentando un’intensa attività di conoscenza e recupero del patrimonio museale, con nuove forme di collaborazione tra enti locali. Sono progetti che vedono concretizzarsi il ricercato e virtuoso legame che unisce l’evento temporaneo all’esposizione permanente, coniugando la ricorrente necessità di contenere le spese con la promozione di nuovi progetti di ricerca, impegnandosi nell’organizzazione di convegni, lezioni, giornate di studio.
Quale «naturale continuazione e verifica della giornata di studio tenutasi ad Este nel novembre del 1987», come precisato nella presentazione del catalogo a firma di Giulio Carlo Argan, nel 1990 viene organizzata la mostra dedicata allo scultore Gino Cortelazzo. Ulteriore esempio, questo, del ruolo riconosciuto dall’istituzione alla ricerca storico-artistica che, in questa sede, con Cortelazzo, era stata fonte ideativa imprescindibile del progetto scientifico della mostra.
Attenzione, questa, per la ricerca che accompagna la programmazione espositiva e di cui, a titolo di esempio, si segnala la mostra dedicata alla raccolta di disegni di Carlo Scarpa (1996), catalogata e studiata per la pubblicazione del corposo catalogo, o all’evento dedicato a Michelangelo Pistoletto (1998) con l’applaudito progetto degli specchi per la Sala Scarpa, che «tagliando lo spazio in orizzontale, verticale o seguendo piani obliqui imprevedibili, accolgono e mettono letteralmente in luce la stratificazione culturale propria della Querini» (rassegna stampa).

Rassegna stampa della mostra Michelangelo Pistoletto, 1998, Archivio Fondazione Querini Stampalia
Fotografia della mostra Ilya/Emilia Kabakov. Where is our place?, 2003, Archivio Fondazione Querini Stampalia

Gli anni Novanta confermano l’interesse per ogni forma artistica, dalla fotografia al design, dall’architettura, all’artigiano locale, di cui un esempio significativo è rappresentato dalla fortunata serie di mostre dedicate al vetro veneziano. 

Il costante interesse per il contemporaneo, sotto la guida di Chiara Bertola, si apre alla scena internazionale con mostre quali, tra le altre, 20 Artisti per Sarajevo con La materia dell’ornamento, installazione di Joseph Kosuth (1997), gli eventi Boris Mikhailov (1999) e Lothar Baumgarten (2001), o ancora, per citare solo alcuni degli esempi possibili, il progetto Ilya/Emilia Kabakov. Where is our place? (2003) attraverso il dialogo tra due esposizioni simultanee, una della fine dell’Ottocento, l’altra contemporanea.
Un dialogo tra la memoria e il contemporaneo che, per questa prima fase di ricognizione archivistica, si ferma al 2004, in attesa del completamento della ricerca sugli ultimi vent’anni di esposizioni.
Il quadro emerso, ad oggi, conferma dunque l’impegno professato dalla Fondazione nei suoi primi quarant’anni di attività evidenziando la natura e gli indirizzi di gestione della politica espositiva che, dall’arte antica agli artisti contemporanei, riflette l’ampiezza degli interessi e delle competenze degli stessi direttori. A emergere è la forza dell’indotto conoscitivo delle mostre della Fondazione, che si presentano come un fenomeno non solo commerciale ma anche, e soprattutto, sede e momento di condivisione di ricerche storiche, di scoperte scientifiche, di restauri; lo testimonia l’intensa attività divulgativa e comunicativa, che ha permesso a tale patrimonio di diventare parte della memoria collettiva della società intellettuale veneziana, e non, a ricordare anche la forte e connotata funzione sociale dell’istituzione museale e la sua vocazione originaria a ricoprire il ruolo di istituto rivolto alla crescita culturale.
L’eredità che Carlo Scarpa ha lasciato alla Fondazione imponeva, e lo impone tuttora, di valorizzare la disciplina stessa del “saper mostrare”, che si alimenta delle scelte di allestimento, così come, e soprattutto, dei contenuti. Da qui la necessità e la volontà di accogliere l’invito di Scarpa – al “mostrare” – ripercorrendo la storia delle esposizioni queriniane a partire dal ricco patrimonio archivistico in vista di una sua più estesa valorizzazione e condivisione sviluppando le potenzialità della comunicazione digitale con un prossimo progetto di catalogazione e pubblicazione online dell’archivio mostre.

Riflessione conclusiva
Riprendendo l’assunto iniziale, la ricerca, ancora aperta, sul caso studio della Fondazione Querini Stampalia sembra portare alla luce almeno tre interrogativi sottesi alla riflessione sul potenziale degli archivi come fonte di memoria e strumento attivatore di nuovi processi, in specifico per la realtà museale: come un museo può collegare e vivere il proprio presente e la propria strategia culturale in relazione alla storia depositata nel proprio archivio? Come condividere la ricchezza di un archivio che oggi sembra noto soltanto ai pochi tecnici che lo gestiscono? Come può la conoscenza depositata nell’archivio del museo diventare origine di un processo di innovazione?
Una risposta riassuntiva può forse essere trovata in un più consapevole riconoscimento del valore dell’archivio quale centro di produzione di cultura, non solo da conservare. Si tratta infatti di un capitale culturale di conoscenze che va condiviso al di fuori dei confini stessi dello spazio archivio e dell’attività dell’archivista. Tale condivisione deve allora tradursi in una presa di coscienza da parte del management del soggetto museo del valore di tale conoscenza, della sua riscoperta identità, e della necessità di una partecipazione da parte di tutti gli attori coinvolti nel processo progettuale, di conservazione, di produzione e di comunicazione dell’istituto e delle sue attività – comprese le mostre – attorno al quale si addensano le diverse professionalità presenti (personale e collaboratori). Sull’esempio di quanto accade nel mondo dell’impresa, dove la memoria storica viene oggi recuperata per sostenere l’identità della stessa e per collegarla alla comunicazione dei prodotti e del brand, l’archivio può farsi spazio e momento di formazione (interno ed esterno) in grado di attivare un senso di appartenenza e di riconoscibilità da parte di tutto il personale aziendale. Strumento di riconoscibilità sociale e di vantaggio competitivo – dove la memoria storica è risorsa inimitabile, fonte inesauribile di narrazione e strumento di comunicazione, l’archivio va inteso nella forma di un esercizio di autoriflessione del museo stesso, per attivare nuovi processi innovativi che, ad esempio, nel caso specifico della ricerca queriniana possa contribuire a sostenere le scelte della programmazione espositiva.
In un momento di possibili cambiamenti futuri lavorare sull’archivio significa cercare nuove connessioni tra la ricca storia culturale dell’istituzione e i suoi futuri cambiamenti, raggiungendo la necessaria sostenibilità in termini di portata del mercato, mantenendo la capacità di differenziarsi dalla concorrenza.
L’ordinamento e il metodo di organizzazione e comunicazione degli archivi sono azioni che la gestione museale dovrebbe governare, dunque, come contributo alla gestione di se stessa e dimostrazione nel presente (e nel futuro) dell’inevitabilità dell’uso degli archivi quale strumento di “potere”.

L’indagine sull’archivio della Fondazione Querini Stampalia nasce nell’ambito di un assegno di ricerca dedicato al tema degli archivi, indagato in un contesto di impresa e di produzione culturale (assegno FSE – Regione Veneto; Dipartimento Management, Università Ca’ Foscari di Venezia – tutor: Monica Calcagno). La ricognizione archivistica è proseguita grazie al sostegno della Fondazione Querini Stampalia finalizzata alla pubblicazione dei risultati della ricerca all’interno del volume dedicato alle celebrazioni per i 150 anni dell’istituzione (in corso di stampa). Per la disponibilità alla consultazione del materiale si ringrazia la Fondazione Querini Stampalia, in particolare nelle persone del direttore Marigusta Lazzari e del funzionario Cristina Celegon. Un ringraziamento speciale va a Giorgio Busetto per i preziosi consigli e per il proficuo scambio di opinioni.

 

Sitografia
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Isabella Collavizza (1978) si è addottorata in Storia dell’arte presso l’Università degli studi di Udine con una ricerca sul lascito di Emmanuele Antonio Cicogna, erudito e collezionista dell’Ottocento. In parallelo, dal 2014, si occupa del tema degli archivi, indagati nell’ambito dell’ impresa e della produzione culturale, con diversi progetti di ricerca finanziati dall’Università Ca’ Foscari e dallo IUAV di Venezia. Attualmente collabora con la Fondazione Querini Stampalia e con il MAG/Mart di Rovereto nell’ambito del progetto Segantini & Arco.