Quando il corpo irrompe sulla scena dell’arte, al tempo delle avanguardie storiche e poi di nuovo negli Sessanta con una più precisa intenzione politica, si presenta come sintomo. Il corpo performativo è l’indizio, il segnale di una increspatura sulla superficie plumbea del controllo egemonico che aspira a diventare marea. Proponendosi in luogo (e in alcuni casi solo come estensione) dei materiali perenni dietro i quali l’impermanenza dell’essere biologico si era sempre nascosta, il corpo performativo sbaraglia la forma, disorienta la critica, chiama il pubblico a una nuova prova ma, soprattutto, si oppone alla prassi della riduzione in categorie: resiste alla normalizzazione, edifica eccezioni e le esalta.
Nel Novecento la definizione più tradizionale della Performance Art è stata influenzata da una disamina di taglio antropologico al cui centro si trovano le ricerche di Victor Turner e Richard Schechner. Presentandosi come sublimazione di rituali iniziatici, sociali, comunitari, la performance è un’esperienza che si compie alla convergenza di un tempo e di uno spazio irripetibili, è il coagularsi di fattori fisiologici, emotivi e culturali incidentali, unici. La performance si libera da qualsiasi condizione di persistenza (al punto di non essere esaustivamente documentabile) e implica la necessaria presenza di un pubblico di spettatori-testimoni nella cui memoria, solamente, dovrebbe essere destinata a perpetuarsi, in un modo che le è proprio ed esclusivo, e che è imparentabile solo ad alcune espressioni della cultura popolare e della lotta politica. Così la Performance Art viene in larga parte percepita e presentata da teorici, come Peggy Phelan (1993) o Cynthia Carr (2008), e artisti, Allan Kaprow per esempio, con accenti talvolta dottrinali e il rischio concomitante di cadere in una ulteriore attribuzione disciplinare e linguistica, una rigidità alla quale la performance è in realtà intrinsecamente refrattaria. Oggi (come si chiarirà oltre) possiamo affermare serenamente che la Performance Art è più articolata di così, più porosa e flessibile, ma l’interpretazione serrata attorno a un rigoroso e irriproducibile hic et nunc permette di analizzare aspetti basilari che ricorrono criticamente in tutte le declinazioni della sua estetica.
In primo luogo, come scrive lapidaria Phelan nel suo pivotale saggio del 1993, ancora centrale nel dibattito sull’argomento, «la performance intasa il fluido ingranaggio della riproduzione della rappresentazione, necessaria alla circolazione del capitale» (Phelan, 1993). Si interrompe così la continuità ottica del lascito di matrice europea e mediterranea, espressa attraverso la manipolazione dello spazio pubblico e della percezione individuale, che dalle mastodontiche sculture egiziane ai cicli di affreschi del medioevo ha prodotto una cultura completamente condizionata dall’ossessione del visibile e ha condotto alla deformazione plastica del pensiero. Sottraendosi alla stabilità del visibile, secondo Phelan, l’atto di rottura implicito nella performance contrasta principalmente la reificazione dell’arte, il suo assorbimento nei meccanismi del capitalismo e, nel momento in cui «cerca di entrare nell’economia della riproduzione, tradisce e sminuisce le promesse della sua ontologia» (Phelan, 1993). Al netto del purismo ideologico in cui si bagna la lettura di Phelan, è vero che la Performance Art, al suo apparire così come oggi, costituisce una sfida per i sistemi mercantili dell’arte non meno che per i suoi autori, gli artisti e performer che si battono contestualmente per la propria autonomia economica e per la propria indipendenza formale e concettuale.
La condizione di unicità e non preservabilità invocata dalla studiosa statunitense ci suggerisce anche che la Performance Art si pone come antagonista nei confronti del potere tout court, non solo finanziario, che si incarna oggi come allora nella verticalità di una società imperniata sull’asse del sistema patriarcale, di cui il capitalismo e il neo capitalismo sono emanazione ed evoluzione. La performance si sottrae al potere proprio in forza della sua impermanenza, perché mette in crisi le strategie proprie della sorveglianza nella più classica delle accezioni: quella intrinseca alla catalogazione e all’archiviazione. L’etimologia di archivio, come ricorda Jacques Derrida, è nella parola greca “archè” che descrive sia il “cominciamento” sia il “comando” e rivela la stretta connessione tra chi amministra il potere, “archon”, l’arconte, il capo nella società della Grecia antica, e la posizione fisica e simbolica in cui l’esercizio del potere si compie: l’archivio, “archeion”, la raccolta dei documenti custoditi negli spazi occupati del gerarca. L’archivio congiunge due luoghi: là dove le cose hanno inizio e là dove si esercita l’autorità (Derrida, 1995). Archiviare, dunque, è un atto fondativo e conduce in modo inesorabile alla soggezione, come se non fosse possibile un’esistenza sociale al di fuori dei rapporti ammessi (o imposti) dai regimi e anche solo dai consorzi sociali. Oggi più che mai, come afferma una vasta letteratura che include Michel Foucault, Donna Haraway e Toni Negri, la burocrazia e la documentazione, specialmente nella loro evoluzione tecnologica, costituiscono il campo di azione della biopolitica con un controllo sulle soggettività che si è fatto sempre più stringente.
Alla luce di tali considerazioni una storiografia della Performance Art e una sua vita documentale sembrano inattuabili: l’archivio e la performance diventano termini antitetici. Appaiono come due interpretazioni opposte della cultura sociale e politica: da un lato c’è la raccolta delle informazioni, la partizione in categorie, la parcellizzazione della complessità, l’attribuzione di identità attraverso la semplificazione della realtà, una pratica che da sempre è parallela alla compressione della libertà. Dall’altro c’è una forza insorgente che dello stringersi di queste spire è, come si è detto, il sintomo. Una forza che indica vie di fuga e pratica una resistenza elusiva e capace di rigenerarsi continuamente.
A questo punto dobbiamo chiederci quanto radicale sia questa impossibilità dell’esperienza di tradursi in documento e quali siano i rischi e i limiti di una lettura così restrittiva. “Performance only life is in the present” tuona dogmatica Phelan, ma bisogna osservare che alcune tra le più influenti azioni della cosiddetta Golden Age della Performance Art avevano un rapporto sostanziale con gli strumenti e con il concetto stesso di documentazione. Mentre si può obiettare che quelle di Vito Acconci e Bruce Nauman fossero forme più legate alla Video Art che alla performance, essendo la presenza del pubblico posposta, mediata dallo strumento tecnologico, in molti altri casi negli anni Sessanta e Settanta, da Carolee Schneeman a Gina Pane a Bas Jan Ader, la documentazione è predisposta come un necessario complemento dell’azione performativa, una sua estensione a favore di un pubblico più ampio.
Consideriamo due casi a loro modo esemplari. Della celebre e controversa azione intitolata Aktionshose: Genitalpanik (Pantaloni d’azione: panico genitale) di VALIE EXPORT rimangono solo tre foto scattate nel 1969, un anno dopo il suo svolgimento, per la stampa di un poster (di fatto una nuova opera).
Grazie a queste, e non alla memoria di chi era presente, l’incursione compiuta dall’artista austriaca con i genitali scoperti in un cinema di Monaco è ancora oggi argomentata e presa come riferimento; al punto che dell’azione originaria esiste solo il racconto della sua autrice, ritrattato più volte fino a farla diventare quasi leggendaria; al punto che, se tale azione non fosse realmente avvenuta, sarebbe quasi, forse, un fatto marginale (EXPORT, 2000). Dell’altrettanto nota Shoot, in cui Chris Burden chiede a un collaboratore di sparare sul suo braccio sinistro con un fucile, rimane solo un video breve e di pessima qualità e quel giorno del 1971, all’F Space di Santa Ana, in California, erano presenti pochissimi spettatori-testimoni. Questa vicenda viene trattata come un caso esemplare da Christopher Bedford per delineare una ontologia virale della Performance Art molto più estesa di quella definita da Phelan, un’esistenza che comprende legittimamente documenti video e fotografici, articoli sulle riviste, saggi critici, discussioni pubbliche, reenactment e tardive interpretazioni. Il momento della performance, scrive Bedford, è «semplicemente un punto di inizio, la sorgente di un mito, poiché una delle sue funzioni è la fondazione di una catena virale la cui ontologia è predicata da storici e artisti in una continua revisione» (Bedford, 2012). La vita della performance, dunque, è strettamente avvinta al discorso che si genera in seguito al suo svolgersi e si amplifica in tempi, luoghi e formati che non erano prevedibili dai suoi autori e che dilatano indefinitamente il numero dei partecipanti alla sua produzione di senso. Si può affermare quindi che quella della performance è una dimensione estetica aperta, come probabilmente nessun’altra nell’ambito delle arti visive; non solo è soggetta a interpretazioni critiche che ne riarticolano l’effettualità ma la sua forma stessa, inizialmente costituita di esperienza, corpo, azioni, reazioni è destinata ad aprirsi per includere altri medium e altri materiali.
Anche all’origine di tutto questo, della performance come decostruzione consapevole di altre sintassi formali, equidistante dalle arti sceniche e dal consueto paesaggio dell’arte visiva, c’è un evento senza cronache ufficiali e addirittura senza titolo: è l’Untitled Event realizzato da John Cage nel 1952 nel refettorio del Back Mountain College in North Carolina, che in seguito verrà celebrato come il primo happening della storia dell’arte statunitense, il liquido amniotico di tutta la Performance Art. Al momento del suo accadere non ne viene fatta alcuna registrazione e rimangono solo schizzi schematici e testimonianze di Cage, dei vari spettatori o di alcuni protagonisti coinvolti, a volte in contraddizione tra loro. Tuttavia l’eco e le conseguenze di Theater Piece No. 1 (questo il nome ufficiale quanto negletto) ne hanno fatto un classico della contemporaneità, capace di influenzare l’estetica dei primi lavori di Robert Rauschenberg (che era presente), di Allan Kaprow (che non lo era) e di intere generazioni di artisti di ogni disciplina: una persistenza ineludibile che fa a meno di qualsiasi supporto visivo (Gaglianò, 2020).
È chiaro che una storiografia della Performance Art è necessaria e inevitabile, anche per non lasciare inoccupata quest’area della storia dell’arte, esposta alla predazione da parte di quei sistemi che ancora, in parte, contesta. Accettando quindi il documento, verbale e visivo, come qualcosa di implicito alla dinamica della performance (e indispensabile per la sua esistenza) rimangono da indagare i rischi connessi a una tale sovrapposizione di scritture: il travisamento e l’appropriazione indebita – è esemplare di una certa predazione il progetto Seven Easy Pieces con cui Marina Abramović nel 2005, al Guggenheim Museum di New York, ha proposto i reenactment di performance storiche di EXPORT, Nauman, Acconci, Joseph Beuys e Gina Pane (gli ultimi due già scomparsi all’epoca del progetto); in questo modo Abramović ha costruito una genealogia che solo in seguito a questa forzatura la include e che nell’atmosfera blindata e coltissima del museo newyorchese non tiene conto delle biografie, delle condizioni sociali, delle ragioni storiche e personali in seno alle quali i pezzi originali erano nati.
Tali rischi sono simili a quelli intrinseci alla pratica archivistica, come si scriveva sopra. Avendo a che fare con una materia così volatile (quel tempo in quello spazio, quell’esperienza che è in sé inattingibile) è facile che tanta benjaminiana auraticità dell’intangibile generi un paradosso e un inganno. L’inganno è quello di una vera e propria sostituzione dell’originale: dove il momento originario smette di essere generativo ed è la sua reliquia, un’icona talvolta anche mendace, a diventare il centro propulsore dell’esistenza della performance. Come scrive lo studioso tedesco Sven Lütticken, «queste immagini hanno acquisito lo status di originali» e il reenactment «corre il rischio di presentarsi come la riproduzione live di una vecchia foto o di un video» (Lütticken, 2006). A questo inganno, ormai accettato pacificamente, ci hanno preparato l’epoca della riproducibilità tecnica e quella della cultura digitale, portandoci alla confidenza con l’immagine duplicata: tutti rassegnati osservatori al cospetto della presenza in luogo del feticcio sacro e remoto. Ha ancora senso rammentare che le immagini di un’opera non sono l’opera – anche se possono essere, a volte, altre opere. Il paradosso del rapporto tra archivio e performance, invece, sta nella piccola morte che ogni archiviazione ha in sé, portando alla chiusura della possibile espansione di senso e all’interruzione di quell’ontologia virale che abbiamo accettato come consustanziale alla performance. Ogni tassonomia include la permanenza dell’oggetto e del visibile, serve la realtà ed è nemica del reale.
Sulla possibilità di un archivio della Performance Art voglio infine riportare le esperienze di due artisti che sottolineano ancora l’eterogeneità delle possibili soluzioni: Clifford Owens e Chiara Mu. Il primo è afroamericano, attivo soprattutto sulla East Coast, la seconda è italiana e si è formata a Londra, dove vive; partono quindi da retroterra socioculturali profondamente diversi, così come diverse sono le motivazioni e le estetiche della loro ricerca, ma condividono l’appartenenza a una generazione di artisti (Owens è del 1971, Mu del 1974) che per prima ha dovuto confrontarsi con il mito della Golden Age della Performance Art e con la crisi di questo stesso mito.
Da anni Owens si interroga sulla posizione degli artisti afroamericani che praticano la performance, i quali soffrono, come in tutti gli altri ambiti della produzione culturale, una generale marginalizzazione e le conseguenze di una storia non scritta; questa diventa ancora più incisiva per gli artisti che non fanno principalmente «immagini e oggetti che hanno l’aspetto di arte fatta da artisti neri» (Owens, 2003-2013). Si tratta dunque di un intricato addensarsi di questioni in cui alla scomparsa dell’oggetto artistico si accompagna la scomparsa dell’artista stesso, che è alla ricerca di una posizione tra categorizzazione (subita e autoimposta) e nuove forme di rappresentazione dell’identità. Al culmine di questa riflessione, nel 2011 Owens ha realizzato Anthology, presentato al MoMA PS1 di New York, convinto che «una pratica seria della Performance Art può offrire il paradigma più promettente per ripensare e re-immaginare la blackness». Invece di adottare un accademico approccio storiografico, l’artista ha scelto di personalizzare la storia della performance afroamericana e ha dato vita a un archivio arbitrario e temporaneo ma incorniciato in una delle più autorevoli istituzioni mondiali per la ricerca artistica. Anthology è una collazione di azioni svolte seguendo le istruzioni scritte o grafiche che Owens ha chiesto a un gruppo di artisti afroamericani di diverse generazioni (coinvolgendo sia giovani emergenti sia autentici maestri come Benjamin Patterson, Senga Nengudi, Coco Fusco e Kara Walker), in un dialogo alla pari, ben lontano dall’equivoco messo in scena con Seven Easy Pieces. Occupando tutti gli spazi del PS1, anche il locale caldaie e il tetto, l’artista ha interpretato dal vivo le istruzioni per le performance, mettendo in evidenza quanto elastica e flessibile ne sia la natura, rifondando a ogni azione il patto tra autore, interprete e pubblico, e dilatando le possibilità della coesistenza di esperienza, rappresentazione ed evocazione.
La ricerca di Chiara Mu nel corso degli ultimi anni si è inoltrata nell’indagine della performance uno a uno, una declinazione che prevede l’interazione diretta ed esclusiva tra il performer e lo spettatore, spesso basata sulla condivisione di una scoperta che ha per oggetto una narrazione messa in campo dall’artista (e che può riguardare tanto l’artista stessa quanto una comunità coinvolta in una fase precedente).
Delle opere di Chiara Mu, orientate sui rapporti di genere, sulla cultura dell’abuso sessuale o sulla condizione di gruppi sociali marginali, non esistono video. L’artista ha sempre rifiutato questa forma di documentazione sottolineando l’importanza di uno scambio verbale e sensoriale che prende forma in condizioni di fiducia reciproca, in una zona franca, senza l’intromissione di un obiettivo che influirebbe dando all’esperienza un carattere finzionale. Nel 2015, ad Albumarte, Roma, in From Here to Eternity l’artista guidava i visitatori, uno alla volta, in un viaggio verso la conoscenza emozionale dell’architettura della galleria, interrogandosi sulla potenzialità di agire lo spazio. In Listen to Me (al Macro di Roma nel 2019) questo scambio diventa ancora più prezioso, avendo Mu delegato la relazione con lo spettatore a cinque donne cieche dalla nascita, con le quali aveva realizzato un laboratorio per la creazione di azioni, “racconti tattili”, che poi le performer hanno proposto, a propria scelta, nell’incontro con i singoli visitatori. Nel 2014 Mu si è confrontata direttamente con la mole di un archivio: a Scicli, nella biblioteca di Palazzo Busacca, dove sono raccolti i registri dell’Opera Pia che per tre secoli ha sostenuto interventi umanitari per i poveri della città, ha realizzato Tempo rotto. L’artista ha individuato alcuni volumi tre le molte centinaia in cui sono aridamente registrati nomi e date delle varie opere di bene: l’ingresso in ospedale, la dimissione, l’eventuale decesso e le sue cause, o le cure somministrate, o la dote elargita alle fanciulle povere. Per ognuno dei cinque volumi prescelti Mu ha elaborato una melodia adottata come medium per la lettura cantata delle poche righe che sintetizzano un pezzo di vita, e a volte la morte, di donne e uomini spariti da tempo e da tempo dimenticati. Solo pochissimi spettatori per volta erano ammessi nella biblioteca ombrosa, per la durata di un’esecuzione canora e per assistere brevemente all’annullamento del tempo storico. Poi i vivi tornavano alla vita e i morti al silenzio. Nemmeno un video o una traccia audio.
Ed è ancora Peggy Phelan a ricordarci qualcosa di essenziale, un indizio per comprendere più a fondo questa performance e il senso stesso di questo linguaggio, aprendo nuovi interrogativi: «la sparizione dell’oggetto è necessaria alla performance. Prova e ripete la sparizione del soggetto che desidera sempre essere ricordato» (Phelan, 1993).
Bibliografia
Bedford C., The Viral Ontology of Performance, in Amelia Jones, Adrian Heathfield, a cura di, Perform, Repeat, Record: Live Art in History, Intellect, Bristol – Chicago, 2012
Carr C., On Edge: Performance at the End of the Twentieth Century, Wesleyan University Press, Middletown (CT) 2008
Derrida J., Mal d’Archive: Une Impression Freudienne, Gallimard, Parigi 1995
Gaglianò P., Memento. L’ossessione del visibile, Postmedia Books, Milano 2016
Gaglianò P., La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia, Gli Ori, Pistoia 2020
Lütticken S., Progressive Striptease: Performance Ideology Past and Present, in Secret Publicity: Essays on Contemporary Art, NAi Publishers, Rotterdam 2006
Owens C., Notes on the Crisis of Black American Performance Art (2003), in Valerie Oliver C., a cura di, Radical Presence. Black Performance in Contemporary Art, Contemporary Arts Museum, Houston 2013
Phelan P., Unmarked. Politics of Performance, Routledge, Londra – New York, 1993
Schechner R., Between Theatre and Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 1985
Turner V., The Anthropology of Perfomance, PAJ Publications, MIT Press, New York – Boston 1982
VALIE EXPORT: Ob/De+Con(Struction), exhibition catalogue, Moore College of Art and Design, Philadelphia, Santa Monica Museum of Art and Otis School of Art and Design, Los Angeles 2000
Pietro Gaglianò (1975) è critico d’arte e curatore. Dopo la laurea in architettura ha approfondito il rapporto tra l’estetica del potere e le contronarrazioni agite dall’arte, prediligendo il contesto urbano e sociale come scena dei linguaggi contemporanei, con una particolare attenzione per i sistemi teorici della performance. Nei suoi progetti è centrale la sperimentazione di formati ibridi tra arte e scienze sociali per coltivare la percezione politica dello spazio pubblico e della comunità. Insegna in istituzioni italiane e statunitensi. Tra le pubblicazioni La sintassi della libertà (Gli Ori, 2020) e Memento. L’ossessione del visibile (Postmedia Books, 2016).