a cura di Viviana Gravano
La storia è di per sé ascrivibile alla categoria delle narrazioni, dunque per paradosso intendendo la storiografia come una ‘scrittura’ della storia, le due categorie sembrano coincidere. La storia non é scritta come racconto del passato ma come immagine prefigurativa del futuro, dato che viene narrata a uso e consumo di cui verrà, perché si possa ricordare. La storia ha dunque a che vedere con la permanenza del ricordo, ma perché il ricordo sia tale va ‘scritto’, non per forza nel senso letterale del termine a parole, ma deve comunque apparire come una traccia sempre rinnovabile. Quindi di fatto qualsiasi forma di storia è in realtà una storio-grafia, nel senso di scrittura della storia. Ciò che ci interessa affrontare in questo numero della rivista ha dunque a che vedere con lo spazio minimale che intercorre tra storia e storiografia, che potremmo declinare nell’accezione che ne dà il filosofo Freddie Rokem parlando di performatività della storia. “La nozione di ‘performing history’, scelta come titolo per questo studio, é intenzionalmente ambigua perché i termini ‘performance’ e ‘history’ possono essere annoverate in un certo numero di diverse accezioni. Al livello più basico la nozione fa riferimento non alla rappresentazione del passato messo in scena a teatro ma agli eventi e alle azioni storiche di per sé come sono stati performati nel passato. Un evento storico, oltretutto, è una forma di ‘fare’ come un ‘dramma’, e ‘dramma’ naturalmente significa ‘la cosa fatta’ nell’originale accezione greca”1. Vorremmo quindi riflettere sul doppio vincolo che lega la storia alla ‘sua’ storiografia, che non narra ciò che ‘è fatto’ ma ‘fa’ la storia nel narrarla.
History is in itself ascribed within the category of narrations, hence when understanding historiography as the ‘writing’ of history, the two categories seem to coincide. History is not written as a story of the past but as a prefiguration of the future, given the fact that it is narrated for the use and consumption of those to come, in order to be remembered. History therefore has a lot to do with the permanence of a memory, but in order to make a memory permanent it must be ‘written’, not necessarily in the literal sense, in words, but it must however appear as a constantly renewable trace. In fact, any form of history is actually a historio-graphy, in the sense that it is a writing of history. What this magazine’s issue would like to deal with is all that has to do with that minimal space that exists between history and historiography, which could be understood based on the meaning attributed to it by the philosopher Freddie Rokem when he speaks of the performativity of history. “The notion of ‘performing history’, chosen for the title of this study, is intentionally ambiguous because the terms ‘performance’ and ‘history’ can align in a number of different ways. On the most basic level the notion refers not to the representation of the past staged in the theatre but the historical events and actions themselves as they have been performed in the past (in the “past perfect” tense). A historical, moreover, is a form of ‘doing’ or performing just a ‘drama’, and ‘drama’ of course means ‘the thing done’ in the original Greek.1” We would therefore like to reflect on the double link that connects history to its ‘own’ historiography, which doesn’t narrate that which has ‘been done’ but which ‘does’ history when narrating it.
1 Freddie Rokem, Performing history, pp.5/6.