anno 13, n. 42 Maggio – Agosto 2023 [ CURA: care – cure – curate

Anno XIII, n°42, maggio - agosto 2023
§ CURA: care - cure - curate

a cura di Marie Moïse, Chiara Organtini e Giulia Grechi

Care.Cure.Curate: un viaggio verbale da leggere tutto d’un fiato ma anche una curva sonora non puramente melodica che raccoglie in un breve segmento un caleidoscopio di declinazioni possibili della parola cura. Una parola oggi a rischio di depotenziamento per il suo arrotondamento morbido, spesso ridotto a pratiche empatiche nell’universo delle micro-relazioni umane, preferibilmente appaltate alla sfera femminile, e per la la centralità raggiunta nel periodo pandemico che l’ha resa anafora obbligata e abusata. Perché e come CURA può essere piuttosto un’azione profondamente politica che investe e riguarda, riperformandoli, gli scenari sociali, politici ed economici? Una tessitura relazionale che non solo ricuce ma anche ridefinisce il ruolo del singolo e del collettivo, dell’umano e del non umano, del potere inteso come verbo e non sostantivo, in un possibile altrove permeato da visioni e pratiche di “insieme”.

To Care: affonda nell’ingaggio diretto e personale di qualcun* per qualcun* o qualcosa e lo semina nello stare a cuore, con sfumature che spaziano dalla sfera intima a quella collettiva. Curarsi di una questione significa mobilitare le proprie energie per mettere al centro persone, questioni, elementi spesso marginalizzati, silenziati o invisibilizzati dalle narrazioni e dalle politiche dominanti. To Care è un atto di vocalizzazione delle zone grigie, un’epifania coraggiosa delle ombre che sfocia a volte in atti radicali e muscolari come proteste di massa e azioni politiche radicali.
Nel suo carattere intrinsecamente trasformativo, to care implica fatica, consumo di risorse fisiche, psichiche, mentali. Cura è lavoro di cura: un’ambivalente compenetrazione di impiego, combustione, dispersione e rigenerazione di energie. E ancora, cura è contatto diretto con gli elementi più bui della vita in relazione, con gli scarti, i rifiuti e le tossine del farsi e rifarsi della vita. Cura in questo senso è lavoro sporco, “dirty care”. In un sistema che tende alla dualità e alla dicotomia, le ambivalenze intrinseche della cura si trovano polarizzate in una gerarchia sociale e simbolica che antepone maschile e femminile, bianchezza e nerezza, capitale e lavoro.

In questo quadro cosa significa allora fare spazio dentro di sé alla cura dell’altr*? Qual è la linea di demarcazione tra una pratica di cura che inaugura relazioni impreviste e reciproche, e un prendersi cura che si traduce in un esercizio di potere, controllo, infantilizzazione, manipolazione dell’altr*? Quali sono gli effetti della cura quando la sua matrice è patriarcale e cristallizzata nella relazione gerarchica e duale della madre verso il bambino? E invece, cosa accade al potenziale trasformativo della cura quando la sua estensione a dimensioni collettive e reciproche viene issata a vessillo delle nuove forme istituzionalizzate di welfare, senza rinunciare alle premesse patriarcali e capitaliste della cura come gesto gratuito e sacrificio? Come arginare in altre parole una tendenza alla cooptazione delle pratiche sperimentali orientata a una nuova privatizzazione del welfare in nome di un presunto neo-mutualismo?

Dan Perjovisch, Colonne del Fridericianum, Kassel, documenta fifteen, giugno 2022 (foto di G. Grechi)

To Cure: in questa traiettoria, attraverso il riconoscere e dare spazio all’ “altr*”, l’atto di curare si può estendere al corpo collettivo come atto di rigenerazione (e non produzione) del presente “danneggiato”, un’azione politica generativa che rimargina e rimedia. Offre cioè nuove simmetrie e geografie che con equilibri equi e necessari rinegoziano il concetto di margine e sussurrano nuove possibilità di stare insieme, offrono nuove possibili mediazioni. Un verbo capace di immaginare e inventare scenari altri, un altrove dove abitare e un altrimenti attraverso cui abitarlo.
Curare come azione successiva al trauma – la ferita – e come ricerca della relazione con questa, curare come guarire, riparare, interroga la dimensione collettiva quanto individuale. Cosa accade alla relazione con le altre persone, cosa accade alla relazione con il proprio sé, se la ferita resta aperta e di curarla non c’è prospettiva? Su chi cola gocciolante il siero quando si cronicizza l’ulcera dell’incuria?

Quando il trauma riguarda le identità e le memorie, individuali e collettive, prese nella rete intricata di rimozioni, invisibilizzazioni, mistificazioni, rappresentazioni mancate, porsi nell’ottica della cura implica innanzitutto una politica di riconoscimento. Kader Attia nel documentario Reflecting Memory (2016) riflette sui meccanismi di cura dei traumi della memoria, e dei loro effetti materiali e violenti, incarnati, proprio come nel caso del dolore dell’arto fantasma. L’arto fantasma ha bisogno di tornare ad esistere, seppure solo attraverso la sua evocazione attraverso uno specchio, per calmare il dolore fisico dovuto al mancato riconoscimento della mancanza a livello di schema corporeo. Un meccanismo simile agisce anche a livello della memoria mutilata di una comunità, perché non è possibile collocare il trauma nel passato, come memoria di qualcosa che è accaduto. Il trauma non smette mai di accadere, continua ad esprimersi al tempo presente, col suo linguaggio opaco e balbuziente. Per questo il processo di cura non può che essere una forma di “endless repairs”, un processo che non può avere una conclusione univoca e definitiva (cancellare la ferita o renderla visibile), ma che nel suo accadere, segnala innanzitutto l’urgenza della riparazione, come questione immaginativa e ri-appropriativa.
Si tratta di andare oltre la concezione culturale di cura e riparazione di matrice europea o occidentale, quello che l’artista chiama “il mito del perfetto”, per cui qualunque frattura o ferita implica la necessità di un ritorno al precedente stato di integrità, sostanzialmente negando o rimuovendo o mettendo a tacere il trauma. Una forma di cura in cui il processo stesso della riparazione deve il più possibile restare invisibile, non produrre alcuna stratificazione o segno o evidenza. Anzi, più la riparazione è visibile, più l’oggetto (il corpo) riparato viene considerato difettoso, e il processo stesso un errore. Questa concezione di cura agisce come una riappropriazione solo illusoria, verso un’idea di purezza originaria che non pertiene all’umano.
Quelle che l’artista definisce “extra-Occidental repairs”, in cui la riparazione stessa è resa visibile e anzi volutamente esposta, sono processualità tese alla creazione di nuove forme, di nuove estetiche, quindi di nuove realtà. Micro atti di resistenza quotidiana, azioni ed estetiche trasformative, tese alla rigenerazione e alla riappropriazione di quello che è stato espropriato e ferito dalla violenza del trauma e della sua rimozione/ripetizione. Solo così le ferite possono trasformarsi in “entangled relations of becoming”[1]. La sutura, nella visibilità della sua processualità, incorpora letteralmente il memorabile e l’indicibile, e in questo senso è una risorsa “terapeutica”, non in modo conciliatorio, ma come energia rivolta verso il futuro.

“Across both nature and culture, any system of life is based on endless repairs.”[2]

To Curate: traghetta nel ruolo possibile delle pratiche artistiche in questa azione di speculazione di uno scenario e un mondo altro. Rimanda alla possibilità delle pratiche artistiche di agire e rendere esperibili “caring worlds” con esperienze tangibili anche se effimere e transitorie, che si infiltrano in visioni e concetti normalizzati rendendoli sempre più friabili, schiudendo nuovi immaginari su desideri e possibilità di mondi nuovi e nutrendo la nostra agentività verso la loro realizzazione.
Sempre più frequentemente accadono esperimenti di co-creazione e curatela collettiva non di opere ma di operazioni artistiche, non di performance ma di esperienze performative da abitare insieme generando contenuti attraverso l’attivazione degli stessi. Queste sperimentazioni da un lato mettono in discussione il concetto centralizzato di autore e di autorialità, e dall’altro smaterializzano l’oggetto artistico come prodotto (controllabile e iscrivibile nella logica produttiva neoliberista) offrendo un’azione radicale di decentramento del focus da “qualcosa da vedere” (fruibile e consumabile) a “un momento in cui immergersi”. Uno slittamento estetico sostanziale e profondo che intacca le gerarchie dei ruoli e introduce quel tanto evocato “altrimenti”, in cui la ridefinizione dei meccanismi di potere, delle logiche decisionali e della co-abitazione di mondi secondo principi di condivisione e circolarità profila una risposta alla domanda diffusa di ricerca su come tornare ad essere insieme (e non solo stare insieme).

L’azione del collettivo Ruangrupa, la cui pratica incarna il concetto di lumbung anche tematizzato nella loro documenta, è un emblema della necessità di ripensamento delle istituzioni culturali stesse all’interno di un più vasto panorama di trasformazione paradigmatica e culturale. Attraversare la documenta curata dal collettivo nel 2022 è un miraggio istigatore che lascia effetti post traumatici, tornando al vecchio mondo antico di alcune proposte culturali, che appaiono balbuzienti per la senilità e l’imbarazzo con cui si cimentano in una lingua straniera che non padroneggiano.

Questo “altrove” e “altrimenti”, in cui la cura è sistema linfatico e infrastruttura vitale, è il mondo organico e imperfetto dei commons, venato non dall’armonia del marmo ma dal ronzio ruvido della collettività, tra differenze cacofoniche e prismatica ricchezza, tra convergenze e conflitti in cui la logica binaria dell’esclusione è soppiantata da un esperanto congiuntivo in cui la particella e/e scompagina la linearità, accompagnandoci, con languida liquidità, nel vortice circolare della complessità.

In una dialettica aperta tra teorie e pratiche, la cura nella sua sostanza relazionale e nel suo potenziale trasformativo collettivo, vuole essere merito e metodo di questa call. Spazio alla presa di parola plurale, al mettere in mostra i noi che si prendono cura a vicenda, alle processualità di cura generative di nuove estetiche o mondi possibili, e alle relazioni impreviste di cura promiscua nella geografia mutevole delle relazioni che questo percorso creativo andrà a tracciare. Assumiamo una politica del posizionamento per inventare un ribaltamento continuo delle asimmetrie di potere che andranno a polarizzarsi sul cammino. Potere di parola, senso di legittimità, tempo retribuito per il lavoro creativo: attiviamo forme circolari di sostegno, redistribuzione di risorse, fuoriuscita dall’illusione del merito individuale e dalla solitudine profonda che ne scaturisce. Che questo stesso processo, la costruzione di questo numero di roots§routes, sia un profondo e collettivo atto di cura.

NOTE
[1] Karen Barad, On Touching – The Inhuman That Therefore I Am, in Power of Material – Politics of Materiality, edited by Kerstin Stakemeier and Susanne Witzgall, Diaphanes, Zurich, 2018.
[2] Kader Attia, in LINK

Gudskul, Studi Kolektif, Temujalar 2022, Fridericianum, Kassel, documenta fifteen, giugno 2022 (foto di G. Grechi)
Gudskul, Studi Kolektif, Temujalar 2022, Fridericianum, Kassel, documenta fifteen, giugno 2022 (foto di G. Grechi)