How do you look when there’s nothing left to move? Il titolo della performance di Yvonne Rainer (2015, Getty Museum e MoMA) in italiano ha una bellissima ambiguità fra l’azione del guardare e quella dell’apparire agli occhi di qualcun altro. Quando non c’è più nulla da muovere, ecco che restiamo noi stessi nel nostro corpo: apparentemente passivi, splendidamente ricettivi. La relazione fra sguardo, comprensione e movimento, indagata dalle neuroscienze, resta marginale nell’ambito dell’educazione, spesso per la conformazione spaziale dei luoghi che ospitano le relazioni educative; ma anche per la formazione dei docenti, per gli assunti impliciti di come si debba “far lezione”, per questioni di prossemica o di opportunità; e soprattutto per una concezione verticale, trasmissiva e strettamente gerarchica dell’educazione, dove l’accettazione del corpo come luogo del sensibile introdurrebbe variabili rischiose per l’autorità implicita nell’architettura didattica. E poi: quali corpi per quale educazione? Descritti, evocati, taciuti, assimilati, etichettati, posizionati. E gli altri? La modernità è costellata di gruppi di studenti/attori/danzatori/performer che hanno affrontato lo studio della cultura visiva muovendosi dentro le forme, prima di progettarle: da Hellerau al Monte Verità, passando per il Goetheanum, la Bauhaus e altre avanguardie europee, fino alle derive psicogeografiche situazioniste, al Black Mountain College, alla fertile area di sperimentazione tra arte e femminismo, ad alcune facoltà di architettura italiane negli anni ’70, e oltre.
La call di questo numero sollecita contributi sul tema della corporeità nell’educazione, e nell’educazione visiva in particolare. Nasce da una domanda che smette di essere personale quando rimbalza fra tanti colleghi/e sollecitando racconti di sperimentazioni, alleanze e paradigmi possibili. I temi sul tavolo sono numerosi, e fra loro intersecati: lo statuto del corpo nella scuola, gli spazi dell’educazione e la loro presa in conto della diversità dei corpi, la relazione corpo-scuola-museo, il linguaggio dei corpi e la loro rappresentazione in ambito educativo, l’occhio come attributo corporeo, la coscienza corporea nella formazione artistica, l’intersezione fra performance e musei, la possibilità e le criticità di una pedagogia del movimento, della danza e dell’espressione corporea, e molto altro.
Anna: Quando entro in classe vorrei chiedere ai miei studenti e studentesse, come primo atto della giornata, di respirare, oppure di guardare fuori dalla finestra lontanissimo, e poi vicinissimo. I miei colleghi, però, mi hanno consigliato di stare attenta. Questo non si può fare, quello neanche. Nella facoltà in cui insegno ci sono banchi fissi, lunghissimi e rigidi, con le sedie a ribalta: gli studenti che arrivano per primi si siedono verso il corridoio, così chi arriva dopo, man mano, li deve far alzare; idem alla fine della lezione. Mi occupo di cultura visiva, insegno sia a ragazzi che ad adulti e rifletto sull’incorporazione dello sguardo. Da sempre mi pare, intuitivamente, che serva un riscaldamento della vista prima di iniziare a osservare le forme, così come si riscaldano i muscoli prima di articolare una sequenza di danza.
Senza nessun misticismo, ma con senso della soglia, vorrei suggerire di compiere un gesto personale, recitare una formula o anche solo chiudere per un attimo gli occhi, a segnare il passaggio dentro e fuori la dimensione educativa. Come a dire: adesso sono qui per me, adesso inglobo il mondo e provo a capirlo, ed è un compito talmente difficile che devo orientare ogni mia cellula in quella direzione, dunque festeggio lo sforzo. Hans Christian Andersen, nella Regina della neve, racconta che “Kay era spaventatissimo, voleva recitare il Padre Nostro, ma riusciva solo a ricordare la tavola pitagorica”. La preghiera come dimensione recitata, e dunque corporea, nella tradizione mistica è respirata, agita dal corpo, non solo fantasmata nella mente [1].
Pietro: Per anni ho avuto la fortuna di insegnare Performance Art in una scuola d’arte per studenti stranieri, un corso pratico – uno studio course – equiparato a pittura o ceramica. Dal punto di vista pedagogico l’aspetto più curioso è che dalla prima lezione, e poi per anni all’inizio di ogni semestre, non sapevo esattamente cosa fare. Ho studiato e approfondito a lungo la storia della Performance Art, ho curato molti progetti incentrati sulla performance ma questo non basta a darmi un titolo specifico per essere insegnante di un linguaggio così complesso (e poi no, non sono un artista, e se si esclude una trascurabile parentesi di studio della danza contemporanea non ho nemmeno una speciale confidenza con le pratiche corporee). Cos’è successo allora? Dal primo momento ho lasciato parlare il corpo, quello degli studenti e delle studentesse.
Senza nemmeno presentarmi ho chiesto loro di togliere le sedie e di spostare i tavoli: camminate, correte, scontratevi, fermatevi, chiudete gli occhi, correte di nuovo, toccate le cose, guardatevi intorno. Dall’inizio, e poi ogni volta, è successo il miracolo: il corso ha trovato la sua strada e al suo termine qualche bella performance ha preso forma, e quasi sempre sono stato salutato da persone più consapevoli di sé (e forse dei propri limiti artistici). A volte nei corsi di storia e di teoria dell’arte giunge una fase di blocco, io e la classe non ci parliamo più, perché l’argomento è noioso o lo sono io o per altri motivi. Quando sento cadere il dialogo metto in atto una soluzione sperimentata: togliete le sedie, spostate i tavoli, camminate, correte, scontratevi, fermatevi, chiudete gli occhi, correte di nuovo, toccate le cose, guardatevi intorno. Funziona sempre.
[1] “Il metodo fisico”, in Racconti di un pellegrino russo, Città Nuova, Roma 1997, pp. 35-39.