«Quando gli uomini muoiono, entrano nella storia. Quando le statue muoiono, entrano nell’arte.
Questa botanica della morte è quello che chiamiamo cultura. È che il popolo delle statue è mortale.
Un giorno i loro visi di pietra si decomporranno a loro volta. Una civiltà lascia dietro di sé le sue tracce mutilate, come i sassolini di Pollicino. Ma la storia ha divorato tutto. Un oggetto è morto quando lo sguardo vivente che si era posato su di lui è scomparso. E quando noi spariremo,
i nostri oggetti finiranno dove mandiamo quelli dei ‘negri’: al museo».
Alain Resnais, Chris Marker e Ghislain Cloquet, Les Statues Meurent Aussi, 1953, film 29’ [t.d.a.]
Comunicato di Non Una Di Meno Milano, il 9 marzo 2019
Durante la manifestazione dello sciopero de LottoMarzo abbiamo coperto di vernice rosa la statua di Indro Montanelli all’ingresso dei giardini pubblici. Lo abbiamo fatto per ricordare e dare giustizia alla ragazzina di 12 anni che Montanelli comprò come schiava sessuale in Etiopia durante la guerra. Una donna (di cui sappiamo solo il nome: Dastè) rimasta senza nome e senza voce nei dibattiti pubblici, ennesima violenza colonialista e patriarcale su di lei: Montanelli non la nomina mai, infatti, neanche mentre rivendica che “in Abissinia si fa così” sotto le domande incalzanti di Elvira Banotti nel 1972.
Una vicenda che svela ancora una volta l’intreccio tra colonialismo e patriarcato, in cui l’uno cerca terre vergini da conquistare, senza considerare chi già ci vive, mentre l’altro cerca corpi vergini di donne da sottomettere contro la loro volontà. Un intreccio chiarissimo nel colonialismo italiano, durato dal 1869 al 1947, in cui l’impresa è motivata, oltre che da ragioni economiche, dalla necessità di far rispettare l’onore dell’Italia di fronte alle altre nazioni, mostrando la nostra capacità di conquista assieme alla virilità dei nostri uomini. E un intreccio ancora più chiaro nella possibilità, per gli uomini italiani come Montanelli, di comprarsi schiave sessuali, rivendicandolo in nome dei più biechi stereotipi razzisti che costruiscono i corpi delle donne nere come ipersessualizzati e disponibili. Una consuetudine che il fascismo cercherà di contrastare in nome della purezza della razza inviando nelle “terre d’oltremare” italianissime prostitute obbligate a soddisfare gli ufficiali e i soldati. Ma abbiamo coperto di rosa Montanelli anche per ricordare tutte le vittime del colonialismo italiano, dalle 100.000 persone (su una popolazione di 800.000 abitanti) uccise nei 20 anni di guerra per contrastare la resistenza libica, a quelle gasate nella battaglia dell’Amba Aradam, che ancora è ricordata in troppe strade e piazza del nostro paese come una vittoria.
E per non dimenticare che non abbiamo mai davvero affrontato un processo di decolonizzazione dell’Italia, presa dalla retorica di essere “brava gente”, senza mai pagare per le conseguenze delle proprie azioni nelle colonie che si riverberano anche sul presente.
Comunicato di LUMe – Laboratorio Universitario Metropolitano e Rete Studenti Milano, il 14 giugno 2020:
«Gli italiani non imparano niente dalla Storia, anche perché non la sanno» Queste sono le parole spocchiose del “più grande giornalista italiano” Indro Montanelli. Crediamo di aver dimostrato – al contrario – di conoscerla molto bene. Siamo convinti che, senza una giusta revisione critica, la storia non possa definirsi tale. Essa va intesa come materia viva, soggetta a cambiamenti, e non possiamo fingere di non sapere che le statue che ne celebrano i protagonisti hanno una funzione sociale collettiva, perché occupano lo spazio pubblico rappresentando ciò che una classe dirigente decide di celebrare della propria storia. In un momento globale così importante – che da ogni parte del mondo ci vede capaci di infrangere barriere e abbattere idoli di un mondo che non deve più esistere – crediamo che figure come quella di Indro Montanelli siano dannose per l’immaginario di tuttx. Un colonialista che ha fatto dello schiavismo una parte importante della sua attività politica non può e non deve essere celebrato in pubblica piazza. In una città come Milano, medaglia d’oro alla Resistenza, la statua di Indro Montanelli è una contraddizione che non possiamo più accettare.
Il giornalista, oltre ad aver portato avanti una strenua campagna di apologia del fascismo, si arruolò volontariamente durante la campagna etiope, una campagna colonialista e schiavista. Qui comprò una “faccetta nera” di nome Destà, una ragazza etiope di soli 12 anni, che usò senza ripensamenti come un vero e proprio giocattolo sessuale. Chiediamo, ad alta voce e con convinzione, l’abbattimento della statua a suo nome. Non possiamo accettare che vengano venerati come esempi da imitare personaggi che hanno fatto dello schiavismo, del colonialismo, della misoginia, del fascismo e del razzismo una mentalità con ben pochi ripensamenti. Con questo gesto vogliamo inoltre ricordare che, come ci hanno insegnato e continuano a insegnarci movimenti globali come Non Una Di Meno e Black Lives Matter, tutte le lotte sono la stessa lotta, in un meccanismo intersezionale di trasformazione del presente e del futuro. Se il mondo che vogliamo tarda ad arrivare, lo cambieremo.
Mai più schiavismo. Mai più sessismo. Mai più razzismo.
«Ora, molti possono chiedere: che cosa c’entra l’abbattimento di una statua di un colonialista del tardo XIX secolo con la decolonizzazione di una università del XXI secolo? La sua statua – e quelle di innumerevoli altri che condividevano le sue stesse convinzioni – non ha posto in un campus universitario pubblico 20 anni dopo la libertà. Dunque il dibattito non avrebbe mai dovuto essere centrato sull’opportunità o meno di abbattere la statua. Fin dall’inizio il dibattito avrebbe dovuto essere centrato sul perché ci sia voluto tanto a farlo […] Abbattere la statua di Rhodes non vuol dire cancellare la storia, e nessuno dovrebbe chiederci di essere eternamente indebitati a Rhodes per aver «donato» i suoi soldi e per aver lasciato in eredità «la sua terra» all’Università. Semmai, avremmo dovuto chiederci in primo luogo come ha acquisito questa terra? […] Abbattere la statua di Rhodes è uno dei molti legittimi modi in cui noi possiamo, oggi in Sud Africa, demitologizzare quella storia e seppellirla – che è precisamente il lavoro che la memoria propriamente intesa dovrebbe compiere. La decolonizzazione dell’università inizia con la de-privatizzazione e riabilitazione dello spazio pubblico. Inizia con una ridefinizione di cosa è pubblico, cioè cosa è di pertinenza del «comunitario» e per questo non appartiene a nessuno in particolare perché deve essere condiviso equamente fra eguali. La decolonizzazione degli edifici e degli spazi pubblici è perciò tutt’altro che una questione superficiale».
Citazioni tratte da Decolonizing Knowledge and the Question of the Archive, testo scritto da Achille Mbembe con queste intenzioni:
“Questo documento è stato deliberatamente scritto come testo parlato. Esso costituisce la base di una serie di conferenze pubbliche tenute presso il Wits Institute for Social and Economic Research (WISER), l’Università di Witwatersrand (Johannesburg), in dialogo con il movimento Rhodes Must Fall all’Università di Città del Capo e con l’Indexing the Human Project, Dipartimento di Sociologia e Antropologia dell’Università di Stellenbosch. La natura degli eventi che si sono svolti in Sudafrica, il tipo di pubblico che ha assistito alle conferenze, la natura delle questioni politiche e intellettuali in gioco hanno richiesto una modalità di intervento completamente diversa – che potesse parlare sia alla ragione che all’emozione”.
«La restituzione non è né un gesto caritatevole né un gesto di volontariato. Restituire le opere africane agli africani è un obbligo, il punto di partenza di un nuovo regime di circolazione, senza condizioni e su tutto il pianeta, del patrimonio generale dell’umanità»
A. Mbembe, La vérité est que l’Europe nous a pris des choses qu’elle ne pourra jamais restituer
«Per i Paesi africani si tratta di svolgere il duplice compito di ricostruire la loro memoria e di reinventarsi, risemantizzando e ri-socializzando gli oggetti del loro patrimonio, ricollegandoli alle società attuali e alle questioni che le società contemporanee pongono. Spetta a queste comunità definire la loro visione del patrimonio culturale, i dispositivi epistemologici e le ecologie, necessariamente plurali, in cui vogliono inserire questi oggetti».
Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano. Verso una nuova etica relazionale, Felwine Sarr e Bénédicte Savoy, 2008.
«La plastica del corpo, la statuaria del corpo immobile, e immobile il più possibile, è qualcosa che risulta estremamente importante come garanzia di moralità»
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 2003
«…un mondo di statue: la statua del generale che ha operato la conquista, la statua dell’ingegnere che ha costruito il ponte. Mondo sicuro di sé, che schiaccia colle sue pietre le schiene scorticate dalla frusta. Ecco il mondo coloniale […] La prima cosa che l’indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell’indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi. Sogni di saltare, di nuotare, di correre, di arrampicarsi. Sogno di scoppiare dalle risa, di varcare il fiume con un salto, di essere inseguito da mute di macchine che non lo pigliano mai»
F. Fanon, I dannati della terra
«È importante tanto quel che i riti ci inducono a ignorare quanto ciò che ci inducono a vedere. Il rituale nel Foro Mussolini offuscò la connaturata diversità e individualità e oltrepassò il divario tra la realtà di questi corpi e la razza dominante immaginata»
(M. Barbanera, Il corpo Fascista, 2016).
«Se esiste qualcosa come la memoria della società, probabilmente la troveremo nelle celebrazioni commemorative; ma queste dimostrano di esserlo solo in quanto siano performative […] Tutte le abitudini sono predisposizioni affettive: una predisposizione, formatasi attraverso la frequente ripetizione di un certo numero di atti particolari, è parte intima e fondante di noi stessi […] L’abitudine è conoscere e ricordare attraverso le mani e il corpo; e mentre si sviluppa l’abitudine è il nostro corpo che ‘capisce’. Ogni gruppo sociale quindi affiderà a degli automatismi corporei valori e categorie che esso aspira a conservare. Costoro sapranno come il passato possa ben essere tenuto in mente da una memoria abituale, depositata nel corpo»
(Paul Connerton, Come le società ricordano, 1989).
«L’amnesia culturale non è un prodotto casuale della modernità: è un suo prodotto intrinseco e necessario […] L’oblio è parte integrante del processo di produzione capitalista stesso, incorporato nell’esperienza fisica degli spazi in cui viviamo»
(Paul Connerton, Come la modernità dimentica, 2009).
“During the period of the two world wars, under the fascist regime, Italy built a vast number of public buildings, housing and monuments that have shaped Italian cities and former Italian occupied cities such as Asmara, Addis Ababa, Rhodes and Tripoli. In the last years, these built structures have been celebrated and completely detached from the fascist, violent and genocidal regime that produced them. With the re-emergence of today’s fascist ideologies in Europe – and the arrival of populations from north and east Africa – it becomes urgent to ask: What kind of heritage is the fascist-colonial heritage? How do the material traces of the Italian empire today acquire different meanings in the context of migration from the ex-colonies? Should this heritage be demolished, simply reused or reoriented towards other objectives including reparations from Italian colonization?
(…) Researchers, associations, and individuals are invited to take part to the first plenary meeting of the “Coalition for re-use of colonial fascist architecture.” The coalition was established with the aim of producing research and planning interventions for the re-use of colonial-fascist architecture by, and for communities that directly or indirectly have been affected by past and present forms of fascism and colonization. The struggle of decolonization once primarily located outside of Europe, today has moved within its borders. What the media calls the “refugee crisis” is, in reality, the incapacity of Europe to come to terms with five hundred years of colonialism. It is not possible to understand today’s displacement of people and migration flows, nor contemporary fascism, without thorough knowledge of fascist-colonial architecture.”
(Symposium The afterlife of fascist-colonial architecture: the critical re-use of “Casa del Mutilato” in Palermo, 18-20 June 2018, Manifesta 12. A project by the Decolonizing Architecture Advanced Course taught by Alessandro Petti, professor in Architecture and Social Justice at the Royal Institute of Art – RIA in Stockholm)
Pensando a come declinare per questa call la questione della relazione tra corpo-potere-memorie contese-spazio pubblico, abbiamo riflettuto sul fatto che non crediamo sia possibile né auspicabile tentare di “sistematizzare” questo campo aperto e complesso. La “declinazione” di questa questione non potrà mai essere lineare, coprire tutti i tempi verbali e tutte le persone singolari e plurali, come la declinazione di un verbo per la grammatica. Il linguaggio e il pensiero “regolari”, quelli cioè che seguono le regole (di una tradizione o di un canone), non sono adeguati a cogliere il potenziale di sovvertimento e di liberazione che questa tematica spalanca ai nostri occhi. Anzi forse questo è parte di ciò che va ridiscusso, il limite forte di uno sguardo e di un linguaggio che spesso non riescono a cogliere la potenza di linguaggi e pratiche altri, che stanno dispiegando in questo momento nel mondo occidentocentrico una particolare radicalità. Allora si tratta di provare a comporre un numero di roots§routes un po’ delirante, di abbandonare letteralmente le strade segnate, anche da noi stesse nell’esperienza pure sperimentale di questa rivista.
Vorremmo che questa call esprimesse l’urgenza e l’inciampo di questa “questione” che appunto “ci interroga” in modo pressante, e si esprime in una serie di “fatti” nel nostro contemporaneo, che spingono con forza per entrare in qualche modo nel quadro. Più che fatti, potremmo chiamarli “sintomi”, per il loro essere intrisi di rimandi, deja-vu, coazioni a ripetere, nel loro farsi e nelle reazioni che suscitano.
L’urgenza, ma anche l’inciampo, perché tentare una riflessione condivisa e accogliente su queste questioni fa perdere l’equilibrio, nel movimento incessante del cercare di cogliere le tante prospettive da cui si può guardare e sentire. Che intorno a questo tema proprio non si può pensare di essere monòcoli, ma neanche binòcoli. Servono parecchie paia di occhi, di mani, di lingue. Serve una “prospettiva multidimensionale”[1] il che vuol dire anche accettare di muovere parecchio il quadro, shaking it up a little too, vedere per frammenti. Lasciando poi a chi leggerà lo spazio per trovare la propria coerenza, il proprio posizionamento. Ecco perché questa call è parecchio s-declinata. Una riflessione sì, ma per accensioni di pensiero, per accessi poetici, per gesti scomposti, balbettii, statement radicali (nella loro provvisorietà). Che del resto abbiamo a che fare con delle assenze, qui. Rimozioni o repressioni di corpi, di discorsi e di parole, mancanze di riconoscimento. E abbiamo a che fare con dei lampi di azioni-espressioni-riflessioni-contestazioni che si accendono e producono senso. Abbiamo davanti tutto un corpo a corpo con il corpo della città, e con il corpo coloniale della Storia. Come possiamo darne conto, farlo esplodere e risuonare, anche nelle riflessioni che suscita? Abbiamo cominciato scrivendo degli elenchi. Siamo partit_ da quel (poco) di cui siamo cert_. I fatti, sì, ma soprattutto le domande. Consapevoli di presentarvi un “oggetto” evidentemente monco, incompleto, non sistematico, evidentemente bisognoso di cuciture, toppe, altri gesti e altre parole perché diventi una trama. Questo è quello che ci aspettiamo da chi risponderà a questa call.
Vorremmo che questo numero diventasse esso stesso una sorta di spazio pubblico di contesa, di confronto, di espressione, di scucitura e ricucitura temporanea. Ci piacerebbe accogliere soprattutto contributi da parte di ricercatrici, ricercatori, artist_ e attivist_ che stanno traducendo un pensiero in una serie di pratiche nello spazio (urbano), o che stanno partendo da pratiche sperimentali per produrre nuovi sensi e pensieri. Una “call for projects”, progetti realizzati o da realizzare. Vorremmo ne uscisse una sorta di mappatura, mossa, temporanea, non esaustiva. Una mappatura di operazioni, di pratiche attive di de-colonializzazione, parole che sfasciano la sintassi del mondo (direbbe Calvino) e la reinventano. Parole-molotov. Parole, immagini, gesti, performance, suoni, azioni, pratiche tese a “rompere la colonialità”[2].
Note
[1] F. Verges, Un femminismo decoloniale, Ombre Corte, 2020 (ed. or. Un feminisme décolonial, La Fabrique é ditions, 2019)
[2] R. Grosfoguel, Rompere la colonialità, Mimesis, 2017