a cura di Cristina Baldacci e Anna Chiara Cimoli
In Purity, il romanzo di Jonathan Franzen, l’accesso di Andreas Wolf agli archivi della Stasi all’indomani della caduta del Muro di Berlino opera in pochi minuti una palingenesi: l’uomo che ne esce, in favore di telecamera, passa dall’opacità delle carte alla trasparenza del giornalismo delle leaks. Ma neanche nella fuga di notizie c’è trasparenza, si scopre presto: ci sono ferite da rimarginare, manipolazione, violenza.
A dieci anni dalla riapertura delle frontiere e degli archivi dell’est Europa, la rivista “Artlink” sceglieva l’eloquente titolo Mining the Archive (1999) per uno dei suoi numeri monografici facendo eco a Mining the Museum, la celebre mostra ideata nel 1992 dall’artista Fred Wilson alla Maryland Historical Society. Sotto i colpi della Critica Istituzionale, lo statuto scientifico-epistemologico dell’archivio cominciava allora ad essere minato dalla competizione tra conoscenze date per acquisite e storie da riscrivere; dalla soggettività dell’archivista come portavoce di nuove verità e significati; dalla hidden agenda delle istituzioni e dei poteri forti; dai tranelli dell’autorialità e degli sguardi unidirezionali. Si preparava l’ondata di rinnovamento che negli ultimi due decenni ha investito in pieno anche l’archivio, corroborata dagli studi postcoloniali e di genere, dai cultural studies, dai saperi circolanti nell’universo digitale e hacker, e così via.
Con la consapevolezza che l’archivio non è mai neutrale si sono messe in discussione l’oggettività, la validità e la sensatezza stessa dei sistemi di catalogazione per liberare la conoscenza dall’immobilità e fragilità delle gerarchie, per riscattare i documenti dalle rigide organizzazioni in faldoni, scatole, alberi di navigazione. Interrogare e sovvertire l’archivio sono diventati gesti ossessivi (almeno quanto per secoli l’organizzare tassonomie), che rientrano in quel più vasto processo postmodernista di ridefinizione di pratiche e attitudini tuttora in corso. C’è bisogno di una pars destruens forte per poter ricostruire a partire da nuove prospettive e diverse intenzioni.
Mentre, accanto alla pratica artistica, la storia dell’arte riscopre archivi di fonti fino a poco tempo fa considerate marginali o secondarie, la riflessione teorica sull’archiviazione si estende a tutto il mondo del non-realizzato, dell’immateriale, dell’impermanente, del digitale (si pensi, per esempio, alla danza e alla performance: basta il video a tramandare la struttura di una coreografia o di un’azione? Chi sono i nuovi Rudolf Laban?). Archivi intenzionali e non intenzionali, che nella loro nuova forma digitale si definiscono sempre più come costellazioni di informazioni spontanee caricate online dai singoli e condivise collettivamente, la cui organizzazione è in mano a un organismo diffuso, che, senza volto, sorveglia e raccoglie informazioni.
Il tema dell’archivio e delle sue logiche interne di scelta, organizzazione, accessibilità taglia trasversalmente gli ambiti della curatela e della museologia, delle politiche culturali, dei media e delle tecnologie digitali, dell’open source e dei creative commons, del collezionismo e delle pratiche artistiche (soprattutto time-based), e più in generale tutto ciò che riguarda l’accesso e la partecipazione alla conoscenza.
Il n. 33 di “Roots§Routes” si interroga su questo orizzonte teorico e sulle molteplici forme di archiviazione dell’arte contemporanea. Il titolo, Archivio è potere, gioca sull’ambivalenza tra verbo e sostantivo: “potere” come forma di controllo ma anche come possibilità di azione e di cambiamento. Ci interessano contributi sui silenzi degli archivi, sui fondi rimasti a lungo impenetrabili o danneggiati e sul loro impatto una volta riscoperti e riattivati, sulla metafora dell’accumulo e dello scarto, sul ruolo degli artisti come collezionisti e narratori, sui sistemi di tutela e valorizzazione, sui metodi di studio che superano le rigidità e il controllo dei dispositivi che organizzano il sapere.
Ne sappiamo qualcosa. Nella nostra attività di storiche dell’arte abbiamo dovuto forzare dei limiti che ci venivano imposti senza motivazioni esplicite, abbiamo raccolto fonti orali, atteso mesi prima di poter vedere una lettera, indossato guanti bianchi per sfogliare i documenti oppure calzettoni di lana per passare giornate intere fra scaffali di metallo in cantine umide. Ogni archivio frequentato ci è apparso come un organismo dotato di un’anima. Di ciascuno di essi, oltre a riportare i risultati delle ricerche svolte, avremmo voluto descrivere il profilo. Da una prospettiva umanistica, riattivare l’archivio non significa forse trasformarlo da deposito di documenti muti a insieme di testimonianze, di voci che riaffiorano dal passato nel presente? Questo numero risponde dunque anche a una nostra ossessione. Le vostre saranno le benvenute.