Matteo Balduzzi – Fin dalla sua apertura, nel 2004, il Museo di Fotografia Contemporanea ha intrecciato alle sue attività più tradizionali una linea di ricerca che prevede il coinvolgimento diretto dei cittadini in qualità di co-autori dei progetti artistici e non solo come semplici spettatori, mettendo alla prova la fotografia in un’accezione relazionale e non-estetica che appare sempre più attuale e socialmente condivisa.
L’attivazione di un dialogo reale e prolungato con il pubblico pone l’istituzione come organismo aperto e permeabile rispetto alla società, in un processo di riappropriazione e di decolonizzazione operato dalle comunità che lo circondano – se riferiamo questo termine non soltanto a questioni di etnia o di genere ma anche a istanze quali censo, istruzione, classe sociale – capace di penetrare fino al nocciolo del museo, ovvero la collezione.
Le strategie per disinnescare o quantomeno incrinare il dispositivo di potere e controllo insito nell’’archivio si snodano con due modalità principali: stimolandone riletture divergenti da parte di molteplici soggetti, interni al sistema dell’arte così come appassionati e comuni cittadini, oppure contaminando la collezione stessa attraverso la creazione e l’inserimento di archivi spuri, partecipati, non-ortodossi.
Fanno parte della prima categoria tanto l’affidamento a giovani curatori di progetti espositivi, come nel caso della mostra Stati di Tensione, Percorsi nelle collezioni[1], quanto, ad esempio, il coinvolgimento di gruppi di appassionati nel lungo processo di dialogo, selezione e diffusione delle immagini, che ha portato tra il 2017 e il 2018 a una serie di installazioni nello spazio pubblico e alla mostra MeMuseo[2].
La costruzione di archivi partecipati prende il via con i quasi 3000 ritratti realizzati per il progetto di Jochen Gerz Salviamo la luna[3], ancora oggi conservati dai cittadini nelle loro abitazioni, e prosegue negli anni successivi con modalità di lavoro estremamente diversificate nei confronti degli artisti e del pubblico. Tra gli ultimi esempi possiamo ricordare la schedatura pseudo-scientifica delle vetrinette dei cinisellesi operata per costruire l’archivio dell’omonimo progetto di Paolo Riolzi[4], o ancora le molte centinaia di fotografie assolutamente “funzionali” realizzate da Arianna Arcara per gli abitanti del quartiere Crocetta nell’ambito del progetto Carte de Visite[5].
È all’interno di questa tradizione – credo la si possa ormai definire così a pieno titolo[6] – che nel 2018 abbiamo invitato Claudio Beorchia a ragionare insieme al museo per costruire un nuovo progetto, con l’obiettivo questa volta di coinvolgere gli abitanti di un’area estremamente estesa e popolata, l’intera Lombardia, nella creazione di un nuovo archivio, in tensione tra spontaneità e rigidità, ordine e disordine, regola e anarchia.
L’idea artistica alla base del lavoro, poetica e rigorosa allo stesso tempo, consisteva nel mostrare il paesaggio della Regione da un punto di vista originale, quello dei santi e delle figure sacre che popolano le numerose edicole e nicchie votive disseminate sul territorio. Tutti sono stati invitati a collaborare, a ripercorrere i propri luoghi in cerca dei santi e a scattare le fotografie mettendo lo smartphone o la fotocamera in corrispondenza del loro sguardo. Prima di inviare le immagini al museo, caricandole in autonomia su un’apposita piattaforma web, i partecipanti potevano corredarle di informazioni, pensieri e racconti sulle edicole e sui luoghi che i santi osservano.
Sono stati quasi 300 i cittadini che, da maggio a settembre 2019, hanno risposto all’appello, costruendo un imponente archivio collettivo composto da quasi 3000 edicole, informazioni e testi. Nei mesi successivi, operando su una mole di dati non consueta per un’istituzione museale, i materiali raccolti sono stati ordinati e messi a disposizione del pubblico in una mostra e una pubblicazione, oltre che in un film che restituisce l’esperienza di alcuni partecipanti.
A più di due anni di distanza dai primi momenti di discussione e a pochi, stranianti, mesi dalla chiusura della mostra, torniamo a ripercorrere insieme all’artista quella che si è rivelata un’avventura appassionante, divertente, intensa e fortunata, forse al di là delle più rosee aspettative[7].
Prendiamo una rincorsa un po’ lunga e torniamo indietro di qualche anno ancora. Con te, Claudio, ci siamo incontrati in Sicilia, nel 2016, nell’ambito di un progetto di residenza che coinvolgeva te e altri cinque artisti internazionali nella realizzazione di altrettanti lavori per gli spazi pubblici di alcune città del Mediterraneo. E sempre in Sicilia, un paio di anni prima, avevi sperimentato per la prima volta il lavoro Di fede osservanti, che costituisce il punto di partenza del progetto di cui ci troviamo a parlare ora. Che si tratti di una fortunata coincidenza o di un segno del destino non è probabilmente dato saperlo, ma credo possiamo concordare sul fatto che siano qui già presenti gli elementi fondamentali di Tra cielo e terra.
Claudio Beorchia – Di fede osservanti è nato in Sicilia nel corso dell’Akrai Residency, un programma di residenza che si svolgeva a Palazzolo Acreide, nel siracusano, e che invitava gli artisti a indagare il tessuto ambientale, urbano e sociale della cittadina attraverso nuove opere e progetti.
Nei primi giorni di residenza, passeggiando con la fotocamera a tracolla fra le viuzze di Palazzolo alla ricerca di stimoli e spunti per dar vita al mio progetto, mi sentivo osservato: erano i numerosissimi santi ritratti e scolpiti all’interno delle edicole e delle nicchie votive disseminate nell’abitato. Istintivamente mi è venuto da porgere la fotocamera a quelle figure, per vedere cosa stessero osservando del paesaggio attorno a loro. In pochi giorni, nel solo centro storico, ho realizzato una settantina di scatti ponendo il mirino della fotocamera in corrispondenza degli occhi dei santi che incontravo lungo il cammino. Complessivamente le immagini restituivano un quadro inedito e inaspettato del paesaggio urbano, che mi sembrava aprisse a riflessioni sul suo stato e sulle sue trasformazioni.
Chissà, il progetto poteva essere concepito solo in un contesto come quello, in un territorio così fortemente popolato di edicole, nicchie, statuine e affreschi. Ma quelle presenze connotano e caratterizzano l’intero territorio italiano. Dopo quel primo episodio siciliano, nel corso degli anni, ho avuto modo di indagare allo stesso modo alcune località in Veneto, grazie ad inviti e a brevi residenze: anche Arquà Petrarca, Castelfranco Veneto e Asolo si sono dimostrate generose nell’offrirmi i punti di vista dei loro santi.
M – Da un lavoro di ricerca individuale siamo passati a un progetto ampio, strutturato e, soprattutto, partecipato. Non si tratta di un passaggio scontato. La realizzazione di progetti pubblici, quando avviene in maniera sincera e approfondita, tende a mettere in discussione le organizzazioni e le istituzioni, che sono chiamate a ripensare il proprio ruolo e la propria autorità, ad attivare processi non totalmente controllabili, a modificare linguaggi e modalità di comunicazione. Lo stesso credo si possa affermare per gli artisti, che si trovano a ripensare la propria autorialità – accettando le inevitabili componenti di casualità e disordine – e a mettersi in gioco anche personalmente, fisicamente ed emotivamente, in contesti geografici, sociali, economici, culturali spesso lontani dagli ambiti ristretti e controllati dell’arte contemporanea.
C – Mi piace mettermi in gioco e mi piace l’arte intesa in forma ludica, come un’esperienza condivisa che allena e diverte la mente e lo spirito. Ciò mi ha da sempre portato a privilegiare progettualità legate a contesti specifici, a preferire la pratica artistica fuori dalle mura di uno studio, a lavorare attraverso modalità con cui rispettare e mettersi in ascolto dell’altro. Ma penso che questa attitudine derivi sostanzialmente da come concepisco i miei lavori, che si sviluppano a partire da intuizioni, che non sono per nulla autoreferenziali e che si nutrono di quel disordine e di quella casualità a cui accennavi. Anche in Aurale, brusii per audioguide, il progetto che ho sviluppato quand’ero in residenza alle Gallerie dell’Accademia a Venezia lo scorso anno – e che mi ha visto indossare per settimane i panni del custode del museo per ascoltare di nascosto i commenti dei visitatori davanti ai dipinti – è possibile riscontrare questo atteggiamento[8]. In fondo, nei miei progetti non faccio altro che far caso al caos, cercando poi di innestare e trasferire questa attenzione negli occhi di chi guarda o partecipa all’opera.
M – Tra cielo e terra ha preso forma grazie a una comunità di partecipanti di età, provenienza ed estrazione estremamente eterogenea. La partecipante più giovane è una bambina di 6 anni, il più anziano è un ex dirigente d’azienda di 86 anni. Fra di loro ci sono fotoamatori, appassionati di trekking, pensionati, alcune classi di scuole medie inferiori, altre di un liceo artistico, i loro insegnanti, un prete, un gruppo di ragazzi portatori di handicap e molte altre categorie e persone difficilmente classificabili. Se ci è consentito citare con ironia uno stereotipo abusato e infelice, ma capace comunque di attraversare mezzo secolo di cultura italiana, possiamo pensare che anche la casalinga di Voghera, ormai ottuagenaria, abbia partecipato al progetto e scattato qualche immagine dell’Oltrepò Pavese.
«È un progetto che mi ha incuriosito da subito, e mi ha incuriosito per il fatto che era alla portata di tutti. Avendo due bambine di 11 e di 9 anni, mi sono detta: posso farlo io, insieme a loro» (Francesca Lucchini) [9].
C – Un’ampia ed eterogenea partecipazione era ciò che volevamo fin dall’inizio, ben sapendo che ciò avrebbe comportato qualche difficoltà in più nel lavoro. A dar vita al nostro archivio non è stato un ristretto numero di addetti ai lavori con esperienze in questo campo, vicini alle istanze dell’arte e della fotografia, ben istruiti sul progetto, bensì una disomogenea e folta squadra di volontari disseminati in tutta la regione. Persone che non conoscevamo direttamente, molte delle quali non erano mai state al museo e forse nemmeno in un qualsiasi museo. Ad accomunarle c’era la curiosità e la voglia di partecipare ad un progetto artistico collettivo che vedeva protagonista il paesaggio del proprio territorio.
Con una squadra così, composita ma appassionata, sapevamo – e in fondo ci auspicavamo – che sarebbe stato impossibile avere il pieno controllo del progetto.
M – Eppure non chiedevamo poco ai partecipanti, sotto diversi aspetti. Dal punto di vista pratico, innanzitutto: la ricerca delle edicole ha comportato spostamenti fisici sul territorio, spesso per raggiungere zone lontane e di non immediata accessibilità; la registrazione sulla piattaforma on-line implicava un minimo di consuetudine digitale e comunque un tempo di lavoro non indifferente sui file, per sistemare e caricare pazientemente tutte le immagini e le informazioni. Ma anche per ragioni meno operative e più direttamente legate alla natura stessa del coinvolgimento e dell’atto fotografico. Progetti caratterizzati da una forte componente “automatica” come questo – pensiamo ad esempio ad alcune delle Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari – forniscono precise istruzioni da seguire e implicano di fatto che la loro autorialità o la soggettività dei partecipanti sia messa in secondo piano rispetto al meccanismo del progetto stesso. Questo stesso meccanismo mette inoltre i fotografi in relazione obbligata con paesaggi spesso sofferti, ordinari, quotidiani: un orizzonte visivo che dall’esperienza di Viaggio in Italia in poi costituisce un modello consolidato per fasce sempre più ampie della fotografia italiana, ma che risulta tuttavia difficile da metabolizzare per una cultura media ancora legata agli stereotipi della bella immagine turistica o commerciale.
C – Non penso che i partecipanti abbiano percepito la modalità di partecipazione come un limite o una costrizione, anzi, la procedura prestabilita liberava il loro pensiero. Non dovevano occuparsi di questioni tecniche e formali (non dovevano decidere che inquadratura fare, che obiettivo usare e con quale profondità di campo, in quali condizioni ambientali fare la foto, quali informazioni e dati raccogliere, ecc.: tutto ciò era prescritto), ma potevano concentrarsi sull’esperienza che stavano facendo: riflettere sul territorio che stavano attraversando, mettendo in nuova luce i paesaggi che si aprivano davanti ai loro occhi (e agli occhi dei santi).
«Quando giro per la campagna il mio occhio butta sempre su queste santelle, questi chiesolini, questi sacelli che ci sono in giro, per una questione anche di credente. Mi ha talmente coinvolto la cosa che sono riuscito ad arrivare a 300 fotografie» (Franco Testa)[10].
M – Il carattere spontaneo e poco controllato del progetto emerge chiaramente se si osserva la distribuzione geografica dei paesaggi censiti. Durante la fase di raccolta delle immagini, avvenuta nei mesi estivi del 2019, era interessante collegarsi regolarmente alla piattaforma di caricamento online e osservare la mappa interattiva della regione, che mostrava in tempo reale i punti dove venivano man mano realizzate le foto. Di giorno in giorno spuntavano, con una propagazione rizomatica, nuovi punti. Il progetto non cresceva in maniera regolare grazie ad azioni e percorsi pianificati, germogliava grazie agli itinerari imprevedibili e alle geografie personali dei partecipanti.
Tuttavia, pur senza nessun tipo di pianificazione, di misura statistica o di indirizzo strategico delle riprese, il cospicuo numero di fotografie raccolte ha permesso di restituire la complessità, le contraddizioni e anche la semplice bellezza del composito territorio lombardo: ci sono le grandi pianure agricole che degradano verso il fiume Po, le aspre regioni alpine con i popolosi fondovalle, i laghi che caratterizzano la fascia prealpina intercalati alle aree produttive, le città che diventano spesso estese e indistinguibili conurbazioni di scala metropolitana; la fitta e trafficata rete viaria regionale e l’alternanza di aree commerciali e residenziali che si alternano ai siti industriali e a residui di paesaggio naturale.
C – Ad essere ben rappresentata non è solo la ricchezza tipologica del territorio lombardo, ma anche la dimensione e la scala umana del suo paesaggio: ci sono immagini che inquadrano anonimi e impersonali spazi urbani, altre che immortalano vasti scenari naturali dalla rarefatta presenza umana, altre ancora che si trovano a spiare luoghi più intimi e raccolti, quasi familiari.
«In questo cortile ho mosso i primi passi, iniziato a giocare e imparato ad andare in bicicletta. La Madonnina, sempre presente, ha sorvegliato tutto fino all’età di 10 anni, quando la mia famiglia ha traslocato» (Luigi Cazzaniga)[11].
La dimensione umana del progetto si manifesta anche in quelle che abbiamo chiamato le note, un campo di testo in cui i partecipanti, in fase di invio dei materiali, potevano scrivere ciò che volevano a proposito dell’immagine che avevano scattato e caricato. C’è chi si è concentrato sul contesto paesaggistico, chi ha descritto le caratteristiche architettoniche di ogni edicola mappata, c’è chi ha condiviso una piccola riflessione o un ricordo personale, c’è chi ha preferito non scrivere nulla. Di fatto, all’interno della procedura di realizzazione e caricamento dei materiali, le note, oltre al titolo stesso di ogni immagine, erano lo spazio libero in cui i partecipanti potevano esprimersi secondo la propria attitudine e personalità.
«Questa avventura delle santelle è stata un’esperienza incredibile, mi sono divertito da matti. Questa estate è stata completamente diversa dalle estati precedenti. Sono andato in luoghi che non conoscevo, non vedevo» (Giovanni Fossati)[12].
M – Se provo a immaginare le traiettorie percorse dai partecipanti – tra cui siamo peraltro inclusi anche noi due – vedo centinaia di persone che si muovono sul territorio utilizzando i più diversi mezzi di trasporto, incontrando una grande varietà di abitanti e affrontando ogni tipo di condizione meteorologica, vento, sole, pioggia, caldo, freddo. In questo senso mi piace pensare a Tra cielo e terra come a un grande progetto condiviso che recupera su scala collettiva – in modo certamente meno intellettuale e minimalista – alcune esperienze proposte nei primi anni Settanta dalla Land Art. La ricerca dei santi può essere considerata il pretesto per una esperienza individuale ed esistenziale del paesaggio di cui le immagini diventano semplici tracce visive, penso ad esempio alla semplicità dei disegni e alle fotografie realizzate da Hamish Fulton nel corso delle sue giornate di cammino. O al fatto che, indipendentemente dalla struttura complessiva del progetto, nicchie, edicole, affreschi si possano considerare dispositivi ottici di sguardo, di misura e quasi di meditazione sul paesaggio, come i tubi di cemento posizionati da Nancy Holt nel deserto tra Utah e Nevada.
C – In fondo è proprio nell’esperienza e nelle riflessioni fatte dai partecipanti nel corso delle loro perlustrazioni che risiede uno dei significati più profondi del progetto. Una rinnovata consapevolezza del territorio e una riflessione sul suo stato attuale e sulle sue trasformazioni era senza dubbio l’esperienza che auspicavamo.
Le note non sono che una traccia, un piccolo segno di tutto ciò. È anche per questo motivo che abbiamo sentito l’esigenza di produrre un breve film legato al progetto, in cui diamo voce ad alcuni dei partecipanti. Ma, anche in questo caso, si tratta di un frammento che certamente non può restituire la complessità e la vastità dell’esperienza collettiva.
M – Quello che è stato creato è un archivio immenso di informazioni. Mi sembra interessante la tensione che si innesca tra la totalità delle esperienze, con la loro articolata eterogeneità, che si vorrebbe restituire in modo completo e, come abbiamo detto, automatico, e la sintesi, anche formale, che si rivela necessaria nel momento in cui si racconta, comunica, trasmette il progetto a fruitori, spettatori, lettori.
L’intero percorso di costruzione e gestione del lavoro – dall’idea originaria emersa in Sicilia fino alla mostra e al libro che per ora lo concludono, è costellato dall’emergere, una dopo l’altra, di decisioni da prendere, procedure da definire, attività da pianificare, proprio per garantire un equilibrio possibile tra forma e contenuto, tra ordine e anarchia.
C – Sono questioni tutt’altro che noiose, come potrebbe sembrare a prima vista. Anzi, sono stati momenti fra i più riflessivi e creativi del percorso di lavoro, in cui sentivamo che stavamo cucendo sempre più stretto il legame tra il progetto e i suoi significati.
Nelle fasi iniziali abbiamo ragionato molto, ad esempio, su un aspetto apparentemente banale, ma in realtà cruciale del progetto e della sua poetica: l’orientamento delle foto. Volevamo un archivio di foto orizzontali o verticali? Da una parte la tradizione della fotografia di paesaggio ci spingeva all’orizzontalità; dall’altra, la natura in qualche modo trascendentale se non proprio divina di quelle visioni, ma anche le caratteristiche architettoniche di nicchie ed edicole, la cui apertura in genere si sviluppa nel senso dell’altezza, ci spingevano alla verticalità. Alla fine abbiamo scelto questa seconda via: sentivamo che i paesaggi di Tra cielo e terra dovevano essere diversi, e che in fondo non dovevano rendere conto alle immanenti convenzioni della tradizione fotografica.
Tradizione fotografica che è poi tornata ad essere centrale quando ci siamo trovati a ragionare sulla mostra. Paradossalmente, un progetto aperto, contemporaneo e in qualche modo irriverente come Tra cielo e terra ha trovato la sua formalizzazione espositiva nel dispositivo più classico che la fotografia abbia elaborato: stampa, passepartout, vetro, cornice.
M – Forse dovremmo confessare che abbiamo in realtà leggermente hackerato anche il formato classico del passepartout, sagomandolo in modo diverso per ogni immagine per riprendere la forma reale dell’edicola o dell’affresco e andando così a rappresentare in modo simbolico, nello spessore di pochi millimetri, la soglia fisica, la “finestra” da cui i santi si affacciano.
Le 99 stampe incorniciate, che ora fanno parte delle collezioni del museo, rappresentano la parte più rarefatta della mostra ma non l’unica.Per restituire ai partecipanti ma anche al pubblico il percorso nella sua interezza abbiamo anche presentato sotto forma di installazione una selezione molto ampia di edicole in cui fosse direttamente percepibile la relazione tra santo e paesaggio, campo e controcampo, oltre all’archivio completo del progetto in formato digitale, che si poteva consultare al piano terra del Museo e che ora è completamente disponibile on-line.
C – È stato bello e importante incontrare i partecipanti durante l’inaugurazione della mostra, a conclusione di un lavoro collettivo così lungo e impegnativo. Finalmente riuscivamo a dare un volto a chi si era inerpicato oltre quota 2300 m per immortalare l’incantevole paesaggio alpino che si gode una Madonnina; a chi aveva percorso in lungo e in largo ogni strada dell’alta Brianza; a chi aveva trascorso le ferie per rintracciare le santelle di Bormio e delle sue frazioni. È stato un momento di festa in cui i partecipanti, dopo gli itinerari personali in giro per la regione, si sono conosciuti raccontandosi l’esperienza che avevano vissuto.
M – Moltissimi dei partecipanti, durante l’inaugurazione e nei mesi successivi, hanno acquistato una copia del libro[13]. Chiudiamo allora questa lunga chiacchierata con alcune osservazioni sull’oggetto che più di tutti è destinato a veicolare l’archivio del progetto e che è costruito proprio sulla tensione tra rigore e spontaneità, da cui prende avvio questo contributo. La confezione richiama in modo evidente forme di sapere consolidato e totale – dalla guida di viaggio all’enciclopedia, dal dizionario tascabile fino al breviario – e così l’ordinamento interno, che procede per logiche alfabetiche e tassonomiche apparentemente inesorabili. È però l’irriducibilità intrinseca di ogni singolo contenuto che, sezione per sezione, mette in crisi dall’interno la struttura, facendola vibrare in modo plurale. Così l’ordine alfabetico delle tavole si basa su un titolo arbitrario e soggettivo, inventato dai partecipanti. Le note compaiono qua e là con i registri più vari. Le tassonomie, così seriali nel loro bianco e nero becheriano [ndr: di Bernd e Hilla Becher], sono costruite a partire da categorie poetiche che hai rinvenuto sulle edicole e contengono comunque le immagini grezze caricate dai partecipanti, spesso leggermente sbagliate o fuori squadra. Gli indici e la mappa conclusiva rendono evidente la costruzione randomica e non-scientifica di tutto l’archivio cui abbiamo già detto.
C – Dietro all’impianto esatto e rigoroso, c’è insomma uno spirito leggero che pervade tutto il libro. Una leggerezza che emerge sin dalla copertina, con il neologismo ironico del titolo, Saintscapes e che continua con i miei interventi introduttivi a ogni capitolo, accompagnando il lettore in questo viaggio inedito nel paesaggio lombardo. È la stessa leggerezza che ha permeato tutto il progetto – dai numerosi incontri personali alla comunicazione – e in cui, le persone si sono effettivamente riconosciute.
Note
[1] Stati di Tensione: Percorsi nelle collezioni, a cura di Carlo Sala, Mufoco, 18 febbraio – 15 aprile 2018. (Llibro in preparazione).
[2] Me Museo, progetto partecipato di lettura delle collezioni, 2017/2018 LINK
[3] Imponente progetto di arte pubblica realizzato insieme a Jochen Gerz tra il 2005 e il 2007 che si può considerare fondante nella storia del Museo. Jochen Gerz, Salviamo la luna, a cura di Matteo Balduzzi, Electa, 2008.
[4] Paolo Riolzi, Vetrinetta, a cura di Matteo Balduzzi, Viaindustriae, 2015.
[5] Arianna Arcara, Carte de Visite. Un album fotografico di quartiere, 2019/2020 (a cura di Roberta Pagani). LINK Progetto, LINK mostra.
[6] Una panoramica dei progetti partecipativi realizzati dal Museo di Fotografia Contemporanea fino al 2014 nel volume R. Valtorta (a cura di), 2004 – 2014. Opere e progetti del Museo di Fotografia Contemporanea, Silvana Editoriale, 2014.
[7] L’archivio completo del progetto e il racconto del suo svolgimento sono disponibili on-line all’indirizzo http://tracieloeterra.mufoco.org/.
[8] Eleonora Charans ha scritto su Aurale proprio sulle pagine di Roots§Routes. LINK.
[9] Citazione estratta dal video Tra cielo e terra, le voci di cinque protagonisti, di Chiara Pelizzoni e Francesco Fabio Capaldi. LINK
[10] Ibidem.
[11] Nota inserita nell’archivio di Tra cielo e terra a corredo dell’immagine 0113, “La Madonnina della mia infanzia”.
[12] Citazione estratta dal video – ibidem nota 9.
[13] Claudio Beorchia, Saintscapes. Vedute di Lombardia, a cura di Matteo Balduzzi, Viaindustriae, 2019.
Un progetto di fotografia partecipata alla scoperta del paesaggio lombardo
Maggio – Novembre 2019
Matteo Balduzzi (Milano, 1969), architetto di formazione, opera nel campo dell’arte pubblica e della fotografia, intesa principalmente come mezzo di relazione tra le persone, l’ambiente, la memoria individuale e collettiva. È il curatore del Museo di Fotografia Contemporanea di Milano-Cinisello Balsamo, per cui a partire dal 2005 ha ideato e curato numerosi progetti caratterizzati da un intenso dialogo con il territorio e dal lavoro con gli autori delle più giovani generazioni. Docente presso il Master in Photography and Visual Design di NABA e presso lo IED di Torino, è socio del centro no-profit per l’arte contemporanea Careof.
Claudio Beorchia (Vercelli, 1979 – risiede nel trevigiano) è un artista interdisciplinare. Ha studiato Design e Arti Visive allo IUAV di Venezia e all’Accademia di Brera a Milano; ha conseguito il Dottorato in Scienze del Design presso lo IUAV.
Dal 2009, come ospite di progetti e residenze artistiche in Italia e all’estero (in diversi paesi europei, Cina, Giappone e Stati Uniti), realizza lavori site specific e site responsive, anche attraverso pratiche partecipative e relazionali.