Le immagini non sono mai soltanto una questione estetica, ma sempre anche una questione sociale. Le azioni, narrazioni, interpretazioni, cancellazioni strategiche o tattiche che circondano le immagini dimostrano come fenomeni quali totemismo, iconoclastia e vandalismo reagiscano a ciò che le immagini fanno, piuttosto a quello che esse sono (Rogowski, 2012). L’oggettivazione critica è sempre stata considerata sacrilega rispetto al campo dell’arte, e d’altra parte la pretesa di profanare (letteralmente) l’arte si rivela essa stessa una fede senza alcun fondamento oggettivo. È dunque più utile adottare quella che Bourdieu (2005, p. 256), ha definito una “epoché metodica”: non tanto uno smascheramento o un rovesciamento dei valori culturali, né un “culto dell’incultura”, ma l’attenzione a quella sospensione della “credenza nel disinteresse quale proprietà delle opere d’arte” che emerge nella tensione fra gli atti di cancellazione e il loro contrario.
La sospensione dei giudizi di valore presuppone che si considerino le immagini (non le loro realizzazioni, si badi) come fonte di valore, piuttosto che come oggetto di valutazione (Mitchell, 2008). Lungi dal perseguire un “platonismo perverso”, J. W. T. Mitchell suggerisce allora di guardare alle immagini come farebbero i naturalisti: «come viventi, da viventi, le immagini hanno vita sociale, fabbricano mondi, e il loro “plusvalore” provoca rivoluzioni, migrazioni, guerre, insomma la storia» (Ibid., p. 118). Invece di smascherare una qualche verità dietro l’apparenza dell’immagine resa assente, l’epoché mira a comprendere come questa sia stata creata e/o cancellata, richiesta, difesa, contestata, sostituita. Nelle lotte intorno alle immagini, più che alle opere d’arte in sé come oggetti finiti [1], scrive Bourdieu, «è la lotta stessa che fa la storia del campo […] tra i dominanti che hanno interesse alla continuità, all’identità, alla riproduzione, e i dominati, i nuovi entranti, che hanno invece interesse alla discontinuità, alla rottura, alla differenza, alla rivoluzione. Segnare un’epoca significa inseparabilmente fare esistere una nuova posizione rispetto alle posizioni affermate, oltre queste posizioni [;] che introducendo la differenza, produce il tempo» (Bourdieu, 2005, p. 225).
Tra idolo, totem e feticcio, il totem si fa carico di un maggiore investimento comunitario, un investimento nel quale la cultura e la società “si naturalizzano”: Il totemismo consente all’immagine di assumere una relazione sociale, interattiva e dialettica con l’osservatore. Uno degli esempi portati da Mitchell (2008) è la cena che si svolse in una location molto particolare, in occasione del riallestimento del Crystal Palace a Londra, quando Benjamin Waterhouse Hawkins fu incaricato di ricostruire in argilla i primi modelli a grandezza naturale di animali estinti; alla vigilia di Capodanno del 1853, una serie di uomini (sic) celebrò un banchetto all’interno di uno di questi, un dinosauro, immortalato nell’illustrazione pubblicata sul London Illustrated News, prova visiva che gli uomini dell’Ottocento potevano banchettare nel ventre del mostro (Haraway, 2020) perché grazie ai progressi della scienza non ne erano più il pasto.
Anche nel campo della animal advocacy, la visualità ha sempre avuto e ancora ha un ruolo fondamentale [2]: la creazione e l’impiego diffuso di nuove tecnologie e dispositivi, dalla luce elettrica al digitale, fino all’animatronica (Burt, 2001; Shukin, 2009; Timeto, 2017; Cronin, 2018; Berland, 2019), ha mediato il nostro modo di guardare agli animali sia simbolicamente che materialmente.
Nel secondo Ottocento, la lotta contro la vivisezione fu condotta anche con argomentazioni estetiche, per non dire fortemente classiste, quali il fatto che queste pratiche fossero contrarie ai principi della bellezza artistica [3], alla cui educazione, d’altronde, non poteva accedere chiunque. E mentre si approntavano guide illustrate alle passeggiate per famiglie nei mattatoi (Shukin, 2009), di cui veniva ammirata l’avanguardia tecnologica come si faceva con le ultime invenzioni alle Esposizioni Universali, le associazioni antivivisezioniste pubblicavano opuscoli, come Light in Dark Places (1883 c.ca) della Victoria Street Society for the Protection of Animals from Vivisection fondata da Frances Power Cobbe, per illustrare le efferatezze compiute sugli animali e mostrare l’inventario degli strumenti utilizzati. In concomitanza con gli sviluppi dell’industria capitalistica, in epoca vittoriana, nel contesto di una netta separazione di sfere (privato e pubblico), ruoli (maschile e femminile) e certamente anche specie (animali e umani; animali domestici/animali da reddito), gli animali furono progressivamente sottratti alla visibilità condivisa dei cittadini e relegati in luoghi extraurbani o dentro le abitazioni private, mentre l’associazione fra casa e animali domestici da un lato, e spazio aperto e animali ferali dall’altro, creò nuove intersezioni nell’oppressione delle categorie sociali subalterne.
Varie rivendicazioni e lotte seguirono gli intrecci tra invisibilità e visibilità in cui diversi corpi animali si trovavano catturati, attraversandone le soglie e mescolandone i confini. Le donne borghesi, nella fattispecie, rinchiuse nella sfera domestica come animali – riproduttivi – in gabbia, col beneplacito della neonata ginecologia, e accomunate ai fedeli pets per aspetto e comportamento, iniziarono sempre di più a dedicarsi alla cura degli animali di strada in difficoltà (gli stessi spesso impiegati come cavie), da un lato insistendo sulla loro comunanza con le vittime non umane della società, dall’altro perseguendo anche una strategia di accreditamento che, pur cavalcando certi stereotipi della femminilità cui anche le suffragette dal canto loro ricorrevano, permetteva di agganciare privato e pubblico e guadagnare visibilità all’interno delle stesse organizzazioni militanti organizzate in strutture maschiliste (Wrenn, 2019) [4]. Grazie al lavoro di attiviste come per esempio Cobbe, l’Inghilterra vantava il pur moderato Cruelty to Animals Act (1876), un insieme di ordinamenti a tutela degli animali che prevedeva, fra l’altro, che gli animali usati per gli esperimenti medici fossero anestetizzati, e che venisse condotto solo un esperimento ad animale [5].
Per questo motivo, quando Louise Lind-af-Hageby e Liese Schartau, due studentesse di origine svedese iscritte alla London School of Medicine for Women di Londra furono testimoni di un esperimento eseguito da William Bayliss su un cane che mostrava già una cicatrice e che inoltre non appariva pienamente addormentato, non esitarono a scrivere a Stephen Coleridge, Lord Giudice capo della Corte d’Inghilterra e antivivisezionista gradualista, il quale, preso atto dell’accuratezza delle accuse, aiutò le studentesse a pubblicare le testimonianze raccolte nei loro diari e incriminò Bayliss, che a sua volta lo citò per diffamazione [6]. Bayliss la fece franca, ma Hageby e Coleridge, con Louisa Woodward, segretaria della Church Antivivisection League, e grazie anche al supporto della chiesa locale, riuscirono a fare approvare al sindaco laburista, sindacalista e antivivisezionista, l’erezione di una statua per commemorare l’atrocità. La statua del cane marrone, in realtà un terrier [7], realizzata in bronzo da Joseph Whitehead [8] e posta sopra una fontana in marmo, fu inaugurata al centro del Latchmere Recreation Ground, nel distretto di Battersea, il 15 settembre 1906. L’iscrizione sulla statua riportava le seguenti parole: «In memoria del Terrier marrone finito a morte nei laboratori dell’università nel Febbraio del 1903 dopo esser stato sottoposto a vivisezione per più di due mesi ed essere passato fra le mani di più vivisettori finché la morte è venuta a liberarlo. / Ma anche in memoria dei 232 cani vivisezionati in quello stesso luogo nel 1903. / Uomini e donne d’Inghilterra, quanto a lungo deve durare, ancora?»
Battersea è un distretto di Londra situato a sud del Tamigi, che prima della Rivoluzione Industriale riforniva la città di ortaggi, sementi ed erbe (famosa la lavanda), e che in seguito alla costruzione della ferrovia era divenuto un importante fulcro delle attività industriali della città, e una zona altamente sindacalizzata; a Battersea c’erano il più grande rifugio per cani di tutta l’Inghilterra, la Battersea Dogs’ Home, insieme all’Antivivisection Hospital, ma anche il Brown Animal Sanatory Institute dove si praticava la sperimentazione sugli animali e un mattatoio situato sulla Pig Hill. Il Latchmere Recreation Ground, dove fu posizionata la statua del cane marrone, era il cuore della neonata Latchmere Housing Estate, la nuova zona “residenziale” del distretto [9]. Nei mesi che seguirono l’inaugurazione, gli studenti di medicina capeggiati da William Lister organizzarono diversi raid, sia contro la statua, costantemente pattugliata [10], sia contro assemblee di suffragette e operai che, per ragioni diverse, si coalizzarono contro il nemico comune a difesa della statua, irrompendo anche nell’Antivivisection Hospital, progressivamente definanziato e screditato, infine costretto a chiudere. Nonostante anche il sindaco neoeletto sostenesse la necessità di proteggere la statua e non modificarne l’iscrizione, quando al consiglio prevalsero i moderati sostenuti dai lavoratori contribuenti (cioè votanti), a nulla valse la costituzione di un comitato di 500 persone a sua difesa, comizi e scontri a Trafalgar Square e Hyde Park, manifestazioni con i manifestanti che indossavano maschere da cane, e l’opposizione coordinata da Woodward, Despard e Hageby. Il 10 marzo del 1910 non solo la statua fu rimossa, ma a un fabbro fu ufficialmente dato incarico di fonderla, onde evitare ripensamenti. William Lister si congratulò –con macabra ironia – che le “disjecta membra dell’Università” (cit. in Lansbury, 1985, p. 21) fossero infine ricomposte.
Lo spazio rimasto vuoto dopo la rimozione continuò a essere pattugliato, essendo ancora estremamente conteso. E nonostante il fallimento, i principali oppositori della rimozione della statua considerarono la vicenda una conquista per la protesta antivivisezionista. Solo nel 1985, con il supporto della NAVS (National Anti-Vivisection Society) e della BUAV (British Union for the Abolition of Vivisection), e ancora una volta non senza proteste da parte dell’ordine dei medici, un altro cane marrone, realizzato dalla scultrice Nicola Hicks, è stato esposto in un luogo vicino al precedente: una statua esemplata sul cane di Hicks, di nome Brock, nel cui plinto è stata però inclusa la stessa iscrizione della statua originaria. La statua sembra, in effetti, più la commemorazione della statua precedente, che dei fatti per commemorare i quali è stata proposta in una nuova versione (Kean, 2009). Anche se nemmeno la precedente visualizzava in modo esplicito le torture subite dal cane marrone, il fatto che si inserisse in uno spazio urbano, in un tessuto sociale e in una costellazione di immagini contese la rendevano politicamente significativa, in particolare per quei gruppi che si sentivano più prossimi all’animale commemorato, pur se per ragioni diverse, in cui le rivendicazioni di genere e classe trovarono un terreno comune: il cane marrone funzionava in quel contesto come un totem che rimandava però a un cane realmente massacrato in un laboratorio universitario, e nel cui monumento, piuttosto che essere la civiltà a naturalizzarsi e così pacificarsi trovando una proiezione condivisa, si testimoniava, grazie soprattutto all’iscrizione, come la “natura” fosse forzatamente sottoposta ai progressi della scienza, che attingeva a piene mani ai corpi animali e animalizzati per validare le proprie verità.
Forse non vivisezionati, i poveri e i detenuti erano comunque risorse a disposizione della ricerca scientifica, che avanzava grazie alla riserva di corpi resi disponibili da schiavismo, sessismo e specismo. Era, quello, anche il periodo in cui, quando le suffragette erano arrestate a causa delle loro azioni dirette e iniziavano lo sciopero della fame in segno di protesta, venivano sottoposte a nutrizione forzata, immobilizzate, legate e nutrite di solito attraverso un sondino nasale, ovvero trattate in tutto e per tutto come cavie, come è chiaramente testimoniato dalle illustrazioni del periodo (in Denney, 2018) [11]. Il cane marrone, come dichiarò Charlotte Despard sulla Anti Vivisection Review (cit. in Kean, 2009, p. 364) divenne il loro simbolo e il loro martire.
Dopo la rimozione della statua furono aperte delle vetrine “per la causa”, secondo la moda del tempo. L’Anti Vivisection Council espose vari strumenti impiegati per le pratiche della vivisezione, foto di esperimenti realmente praticati e anche un cane tassidermizzato legato a un tavolo operatorio, che suscitò parecchio scalpore. Accanto a questa, la Research Defence Society allestiva una mostra per celebrare Pasteur, dove campeggiava la foto di una donna con un neonato in braccio accompagnata dalla scritta «Chi salveresti, un bambino o un porcellino d’india?». Come nota giustamente Lansbury (1985, p. 24), tuttavia, «l’icona della madre e del bambino e il sacrificio di un cane nascondevano un’altra immagine grottesca, quella di una donna legata a un lettino chirurgico che lotta per scappare. Il voto alle donne aveva poco in comune con la lotta anti-vivisezione, ma le due cose avevano finito per aggrovigliarsi e confondersi negli eventi del momento: l’immagine di un cane vivisezionato si confondeva e diventava un tutt’uno con la militante suffragetta nutrita a forza nelle carceri di Brixton».
Diverse sono le statue dedicate a cani famosi prima e dopo quella del cane marrone, perché eroici o fedeli, in ogni caso perché significativi per la costruzione di una precisa narrazione della storia umana. Per esempio, Kean (2009) confronta la storia del cane marrone con quella di un cane leggendario di Edimburgo: Greyfriars Bobby era il terrier che accompagnava il suo umano John Gray a mangiare ogni sera da Traill’s, e che dopo la morte di questo gli sopravvisse quattordici anni, continuando a visitarne la tomba e a recarsi a cena alla locanda, dove fu sfamato gratuitamente per tutta la vita; nel 1873, un anno dopo il suo seppellimento, fu eretta una statua in suo onore, vicino all’ingresso principale del cimitero di Greyfriars, nella città vecchia, non lontano dalla tomba di Gray. L’iscrizione ricorda molto stereotipicamente la fedele affezione del cane al padrone, ma anche la sua collocazione è significativa, perché si trova nel luogo dove era stato firmato il National Covenant nel 1638 contro l’imposizione del rito anglicano e la riforma della chiesa scozzese da parte della monarchia di Carlo I. È soprattutto questo che ha mantenuto viva, e nutrito anche in maniera leggendaria, la memoria di Bobby.
Un altro cane “monumentalizzato” è stato Balto, l’husky che nel 1925, durante l’attacco di difterite che colpì la città di Nome in Alaska, trainò la slitta che trasportava l’antitossina [12] nell’ultimo tratto del percorso, superando la neve che isolava la città. La storia ebbe un’enorme copertura mediatica grazie alle cronache romanzate del New York Times e, insieme alla statua a lui dedicata a Central Park, aggiunse un tassello mediatico al mito della frontiera (declinato in chiave nostalgica) fondativo della nazione americana; va detto che Balto, con la sua muta, fu in seguito acquistato da un circo, e morì dopo aver trascorso l’ultima parte della vita in uno zoo a Cleveland, cieco, sordo e artitrico; Il suo corpo si trova oggi al Museo di Storia Naturale di Cleveland.
A differenza di Greyfriars Bobby e di Balto, tuttavia, il cane marrone resta un cane senza nome – ragion per cui il rimpiazzo della statua con un ritratto del cane della sua scultrice convince poco. D’altronde, i cani da laboratorio difficilmente ne hanno, sia perché devono subire un processo di standardizzazione affinché possano essere impiegati come modelli, sia perché chi lavora intorno a loro sia sollevato dal peso delle relazioni interspecie che si potrebbero instaurare con animali non anonimizzati (Lynch, 1988; Birke e Smith, 1995; Birke, 2003). E per quanto sia vero che il cane marrone divenne il simbolo della protesta guidata dalle femministe antivivisezioniste e suffragette, cui si unirono anche gli operai di Battersea, egli ne fu anche l’obbiettivo principale.
«Quando gli uomini muoiono, entrano nella storia. Quando le statue muoiono, entrano nell’arte. Questa botanica della morte è ciò che chiamiamo cultura»: con queste parole ha inizio il film di Alain Resnais, Chris Marker e Ghislain Cloquet Les Statues Meurent Aussi (1953). Le statue morenti cui si fa riferimento sono le statue erose dalla forza del tempo, più che dalla mano umana. Ma sono soprattutto le immagini, i viventi, che facciamo morire perché immobilizziamo in figure etichettate e classificate in vetrine, privandola della vita che esse hanno per la cultura cui appartengono e per cui significano. «La morte non è qualcosa che si porta addosso, è anche qualcosa che si dà»: nel film, una feroce critica alle appropriazioni del colonialismo e alla museificazione dell’“arte negra”, quando si parla della relazione delle statue con la vita e con la morte, più o meno a metà, viene mostrato il cadavere (squartato) di uno scimpanzé. Dove è finita la forza che animava questo animale morto, si chiede la voce fuori campo? «Liberata, essa vaga, e tormenterà il vivente finché non avrà ripreso la sua apparenza precedente […] È questa apparenza che si imprime in simili leggendarie metamorfosi per ammansirla, finché questi volti avranno vittoriosamente riparato il tessuto del mondo». Ma lo scimpanzé non è l’unico animale ad apparire nel film. Oltre a qualche cane randagio che vaga per le strade, subito dopo una ripresa dall’alto che mostra una schiera di ordinati bungalow costruiti dai bianchi nel deserto africano per ammirare la propria capacità di civilizzazione, vediamo dei topolini da laboratorio dentro una fila di vasi di vetro trasparente: «da queste altezze, l’Africa è un meraviglioso laboratorio», dice la voce fuori campo, «dove è possibile prefabbricare parzialmente il tipo di bravo nero tanto agognato dai bravi bianchi». Infine, proprio quando il film sta per concludersi, un altro animale appare: si tratta del cadavere di un bovino di cui un gruppo di uomini (neri) sta ricomponendo e cucendo la carcassa [13]: «è sempre contro la morte che si combatte. La scienza come la magia ammette la necessità del sacrificio animale».
La liberazione animale, no. La liberazione animale vuole riparare il tessuto del mondo. Anche, perché, i cani muoiono. La morte non soltanto accade, è anche qualcosa che si dà. Quanto a lungo deve durare, ancora?
Poscritto
Ipotesi per un vandalismo a venire della statua di Indro Montanelli: accompagnare la statua di una capra alla statua del suddetto. Aggiungere la seguente iscrizione (collocazione da stabilire):
“La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli.
…
Da queste altezze, l’Italia è un meraviglioso laboratorio, dove è possibile prefabbricare parzialmente il tipo di bravo bianco tanto agognato dai bravi bianchi”.
Note
[1] Si rimanda qui alla differenza fra image e picture in Mitchell, 2008.
[2] Si pensi ad esempio all’uso che ne fa la People of Ethical Treatment of Animals (PETA), non senza controversie.
[3] Così per esempio scriveva l’attivista antivivisezionista Lady Walburga Paget in un suo articolo del 1901, cit. in Cronin, 2018, p. 68.
[4] Il panorama delle attiviste animaliste era estremamente variegato: c’erano attiviste vegetariane e antivivisezioniste, come Anna Kingsford, contraria all’estensione del voto alle donne; c’erano femministe antivivisezioniste non vegetariane, come Cobbe (che con Kingsford entrò in contrasto sulle pagine del Lady’s Own Paper), suffragiste come Millicent Fawcett a favore della vivisezione in nome del progresso scientifico, e femministe vegetariane che perlopiù si dichiaravano antivivisezioniste (Leneman, 1997). Un altro tema era quello della universal kinship tra le specie basata sui presupposti scientifici dell’evoluzionismo, invece che sulla moralità ed empatia delle donne, sostenuto per esempio da Lind-af-Hageby (Ibid.).
[5] Dopo il Martin’s Act del 1822 contro il trattamento crudele del bestiame, nacque la Society for the Prevention of Cruelty to Animals (SPCA), che poiché ebbe il patrocinio della Regina Vittoria fu rinominata Royal Society for the Prevention of Animals (RSPCA): l’approccio era riformista, e non affrontava apertamente, per esempio, questioni “intoccabili” legate alle attività delle classi più elevate, come l’abolizione della caccia o della vivisezione, suscitando il disappunto degli attivisti radicali e abolizionisti.
[6] La storia è raccontata soprattutto da Lansbury (1985) e Mason (1997). Di quest’ultimo è imminente (2021) la pubblicazione in traduzione italiana, a cura di B. Balsamo e S. Molé per i tipi di VandA.
[7] Probabilmente il fatto che vi si riferisse definendolo perlopiù “cane marrone” fu utile a canalizzare una protesta più trasversale (McHugh, 2004).
[8] Whitehead aveva già realizzato diversi pulpiti e statue religiose, nonché abbeveratoi per il bestiame voluti dalla MDFCTA, associazione per gli abbeveratoi pubblici per il bestiame. Numerose fontane venivano costruite in quel periodo anche per ragioni di decoro, cioè per tenere lontani i proletari – che non le vedevano affatto di buon occhio – dall’abuso di alcol in strada (McHugh, 2004).
[9] Un progetto guidato da John Burns, primo membro progressista del Consiglio della Contea di Londra, sindacalista socialista attivo nel famoso Dock Strike del 1889, in seguito passato a posizioni Liberali, già fortemente criticato tra gli altri, oltre che dall’amministrazione locale, da George Bernard Shaw e dalla femminista vegetariana Charlotte Despard, presidente della Women’s Freedom League (WFL) e attiva nel distretto. Si trattava di un piano di edilizia popolare nel quale fu impiegata manodopera locale per la costruzione di più di trecento abitazioni “moderne” destinate a migliorare la condizione abitativa dei lavoratori del quartiere.
[10] Cosa che scatenò un dibattito politico sullo spreco di soldi per i compensi delle guardie.
[11] Con il Prisoners (Temporary Discharge for Ill-Health) Act del 1913, comunemente noto come Cat and Mouse Act, le prigioniere molto deboli a causa dello sciopero della fame venivano temporaneamente rilasciate affinché si rimettessero e potessero tornare a scontare la loro pena.
[12] Anche se è ormai quasi certo che non sia stato effettivamente Balto quel cane.
[13] A tal proposito, si veda la prossimità indigeno-animale esplorata al cinema anche dal regista austriaco Ulrich Seidl in Safari, 2016 (vedi Tola, 2019).
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Federica Timeto insegna Sociologia delle arti all’Università Ca’ Foscari a Venezia. Si occupa di studi culturali, visualità e femminismo, nuovi media e Critical Animal Studies. Collabora con il gruppo di ricerca Technoculture Research Unit. Fa parte della redazione della rivista antispecista militante Liberazioni e della rivista accademica Studi Culturali. Ha da poco pubblicato Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (Mimesis, 2020).