Perché mi sfili dalla mia persona?
(Ovidio, Metamorfosi)
C’è chi dice che non ci sia niente di più profondo della superficie. Esposta, sensibile, suscettibile, questa pelle è un luogo aperto (Foucault, 2008), un involucro a cui si incollano edifici, abiti, automobili, immagini e messaggi (Guattari, 1989 p. 291). Ma in un preciso momento, questa pelle è stata anche ferita, squarciata e aperta per indagarne gli abissi e svelarne le più profonde verità.
Due lembi di carne si aprono come un sipario. Un interno scavato di una schiena, una gabbia di ossa e fibre. Poco sopra, illeso dalla frammentazione, un volto dallo sguardo rivolto all’indietro come a richiamare l’attenzione. L’occhio sul punto di guardare quello che non potrà vedere, l’orecchio teso ad ascoltare. Questo sipario si apre su un territorio inesplorato, una geografia inedita che tenta di essere riordinata con piccole lettere, annotate minuziosamente da un pittore, nel tentativo di reperire un ordine e delle coordinate tra vertebre e tendini.
Tagliare, dissezionare, circoscrivere, naturalizzare e infine oggettivare sono una serie di azioni che il sapere medico ha performato per l’osservazione del malato e dei sintomi delle malattie [1]. Nel XVI secolo, la dissezione anatomica si trasformò in una lezione pubblica (Djick, 2008 p. 32) spettacolare, iniziando anche ad attirare schiere di curiosi (paganti) e obbligando la scienza medica a chiedere aiuto allo spazio scenico della teatralità. I teatri anatomici si diffusero e aumentò di pari passo la richiesta di maggiore disponibilità di cadaveri, ora forniti anche dal sistema di giustizia penale. La partitura di gesti che esponeva crudelmente una serie di corpi stigmatizzati e stigmatizzabili (Goffman, 1963) va infatti collocata con la messa a punto di un sistema penale in cui la dissezione era considerata una pena aggiuntiva (Djick, 2008 pp. 34-35) [2]. Ma le donne condannate erano meno numerose, questo rendeva il loro corpo una merce ancora più preziosa e persino i piccoli reati diventavano materia legittima del banco della dissezione (Nova, 2002 p. 159; Carlino, 1994 p. XVI). La brama di sapere era apparecchiata (e giustificata) da una società in cui il corpo femminile oscillava in vita tra l’onore, la castità e la violenta sessualizzazione e, in quanto corpo senza vita, cadavere della scienza, come uno spettacolo per un pubblico prevalentemente maschile (Park, 1994 p. 13). Iconico è il frontespizio di De humani corporis fabrica (1543) di Andrea Vesalio (1514-1564), in cui il corpo aperto di una donna è circondato e assediato da una folla di uomini pronti a decretarne le “leggi di natura” e deciderne il controllo. Le tecnologie che hanno accompagnato e fabbricato la storia della (bio)medicina non sono da trattare come mere rappresentazioni di corpi e pratiche, ma come una materia viva con una precisa etica della cura, produzione di sapere e estetica, un telaio che ci parla di una sorta di sensibilità atmosferica in cui la vita e l’umano sono stati (e vengono) perennemente fatti e disfatti. A parlarci di questo sfondo, di questo partage du sensible (Ranciere, 2000), sono artisti e poeti, anche le loro parole e sermoni hanno prodotto e permesso un’architettura così fatta. Può essere d’esempio John Donne (1572-1631) che ha tracciato, nelle sue scritture pellegrinanti verso l’interiorità del corpo, il sottile bordo di una grande trasformazione dei viaggi anatomici (Sawday 1995, p. 53) [3]; ma anche il genere del blason [4], antico gioco poetico di società – in particolare i Blasons anatomiques du corps fémmin (1535-1550) di Clément Marot – improntato su una celebrazione frammentata del corpo, attenta a evocarlo sottolineandone ogni singola e separata parte (Tartarini, 2004 p. 103). Anche questi filamenti reiterano una conoscenza, un potere esclusivamente maschile, che ha fantasticato e disegnato i corpi delle donne, trattandoli come territori misteriosi da esplorare [5] (De Certeau, 2006). E questo può trascinarci lungo movimenti e mappature coeve, quelle della colonizzazione, scovando delle affinità tra i tracciati delle esplorazioni coloniali e i modi di cartografare un corpo, come se questo fosse «un paese (ancora) da scoprire», un luogo pretenzioso che chiede «abilità analoghe a quelle mostrate dagli eroici viaggiatori attraverso il globo terrestre» (Sawday, 1995). Perché ci troviamo nei meandri della brutalità del potere, negli impliciti di un sapere (scientista e illuminista) che produce il proprio dominio facendo a pezzi il resto, circoscrivendo precise porzioni e proprietà, di terre come di lembi di carne. Uno stesso filo lega le costruzioni dei saperi alle invenzioni dei corpi e delle nazioni. Un frammentare che riduce l’organica complessità di luoghi e pratiche a una continua distruzione di vite di cui raccogliamo prodigiosi scarti, vite infami. A quale prezzo si produce conoscenza?
Ma rimaniamo di fronte a questa donna, precipitando inevitabilmente nelle sue cavità. Eccoci in una scomoda relazione di intimità. Non basta seguire l’architettura di un potere che ha inciso e squartato il suo corpo, vogliamo evadere da questo tipo di intimazione. Cos’hai commesso? Un furto, un infanticidio? Oppure eri ribelle alle sorti che avevano scelto per te, riottosa a una nascita che si faceva destino? Lei, comunque, ci dà la schiena. Questa donna sconosciuta volge le spalle a chi la dipinge e a chi ancora la vuole osservare.
Più si moltiplicano le domande per lei, più aumenta un brusio, un qualcosa che sfugge alla vista e eccede le nostre stesse interrogazioni. Sei bella, mostruosamente bella. Trovandoti illustrata in una tavola, non possiamo che crederti delinquente, una schiena che sa delinquere e quindi sa restare anonima. Vogliamo seguire la scia di questa tua erranza, spostarci negli interstizi, privilegiando il percorso allo stato, «l’opaco del corpo in movimento» (De Certeau, 2001 p.191).
***
Seguendo questa traiettoria in ombra, possiamo rintracciare l’economia dei gesti che compongono questa immagine aperta (Didi-Huberman, 2014) in cui una posa tipicamente pittorica è trasgredita, facendo esistere l’anatomia fantastica (Tartarini, 2004) di un corpo che si fa soglia di un divenire. Ogni performatività gestuale, anche la più minuta, produce conoscenza e ogni conoscenza ha un prezzo, fatto di ossa e scarti, crudeltà e zavorre, ma non solo, si compone di materia, di storia e di qualcosa che eccede. La posa e lo sguardo di questa donna ci inducono a guardarla come se lei stessa volesse esporsi. Invece sappiamo che a esporla è il gesto del pittore e anatomista Jacques-Fabien Gautier D’Agoty (1711-1785). Le sue numerose tavole anatomiche, stampate a colori [6] e a grandezza naturale, tentano di ritrarre quei corpi lacerati e aperti come fossero vivi. Soprattutto le figure femminili sono rappresentate secondo pose pittoriche, i loro sguardi sono vigili, noncuranti dello smembramento cui sono state sottoposte. Disturbano, questi corpi, ci guardano, coinvolgendoci nella visione macabra del loro interno. Se lo spazio del teatro anatomico prevede una prima persona che parla (l’anatomista), una seconda persona a cui egli si rivolge (il pubblico), e una terza persona di cui si parla, ma che è morta – «un oggetto muto che serve a dimostrare l’autorità dell’anatomista» (Bleeker, 2008 p.15) – diversamente l’artificio pittorico permette di animare quel corpo immobile e freddo. Tra le pagine degli atlanti anatomici del XVII e XVIII secolo, troviamo figure disinvolte, spensierate, collocate in ambientazioni naturali o domestiche, che paiono complici dell’intento dimostrativo dell’autore. «Invece di un’anatomia eseguita sul corpo di un criminale appena giustiziato, le illustrazioni ci mostrano un cadavere che cospira con la sua stessa dimostrazione, per confessare la verità dello studio in cui è stato coinvolto» (Sawday, 1995). Questa mise en scène del cadavere è in realtà il frutto di un’altra grande cospirazione che ha come principali attori i rappresentanti del sapere medico, del potere giudiziario e della maestria artistica.
Guardando queste immagini si accede per scorci e per strati all’oltre della pelle: una donna incinta mostra un ventre dall’aspetto lunare sul quale si legge la forma di un feto; un’altra, circondata da frammenti di organi e fasci di nervi, apre il suo corpo come un armadio nel quale sembrano essere stati riposti alcuni degli strani oggetti che le svolazzano attorno; mentre un uomo solleva, come un telo dipinto, la pelle del suo addome scoprendo un paesaggio alieno fatto di budella e nervi sottili. Queste immagini, scientifiche e immaginarie assieme (Tartarini, 2004 p. 33), ci parlano di un periodo che precede, per qualche manciata di decenni, la nascita della clinica: il grande sconvolgimento che, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, ha sconvolto il potere, la pratica e l’insegnamento del sapere medico (Foucault, 2007; Sforzini, 2009 pp. 22-29). Vogliamo stare nei pressi di questo sapere ma poco prima della sua emersione, restare nel groviglio della «vecchiezza della clinica» (Foucault, 2007 pp. 66-75) quando medici e anatomisti necessitano delle competenze tecniche dei pittori e degli stampatori per illustrare le loro scoperte, e in ciò rendere leggibile e ordinato quello che nella pratica della dissezione appare come una misteriosa matassa maleodorante e sanguinolenta. D’altra parte i pittori, fin dalla prima modernità, si dedicano allo studio anatomico per accedere a quella parte non visibile che determina la superficie che vogliono raffigurare. «Come a vestire l’uomo prima si disegna ignudo, poi li circondiamo di panni, così dipingendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi così copriamo con sue carni che non sia difficile intendere ove sotto sia ciascun moscolo» (Leon Battista Alberti in Didi-Huberman, 2014 p. 36).
L’anatomia e la prospettiva, grandi invenzioni della pittura rinascimentale, condividono la comune tendenza nel preoccuparsi del volume piuttosto che della superficie (Sawday, 1995). Se la prospettiva propone uno sfondamento del piano di rappresentazione attraverso l’idea del quadro come finestra, allo stesso modo lo studio dell’anatomia non può prescindere dalla pratica macabra dell’apertura dei corpi per cogliere la coerenza plastica tra l’interno e l’esterno. Si inaugura, nel Quattrocento, una vera e propria «fenomenologia dell’apertura» (Didi-Huberman, 2014 p.37) che intreccia drasticamente la bellezza e l’armonia dei corpi dipinti alla crudeltà dell’effrazione (ibid. p. 38). Nell’intreccio di arte e medicina si afferma «il pervasivo regno dell’occhio, organo che comincia a frugare nel corpo e fa della sua analisi un’autopsia, un’esperienza diretta dei sensi» (Tartarini, 2004 p. 32).
Seguendo l’esempio dei maestri della pittura, Gautier d’Agoty considera la conoscenza anatomica essenziale per il pittore e il suo entusiasmo lo porta, dapprima, a collaborare con altri anatomisti, poi ad impugnare lui stesso il bisturi indagando le profondità di quei corpi che bramava rappresentare. Nonostante il suo desiderio di riconoscimento da parte della comunità scientifica, le riproduzioni di Gautier d’Agoty vengono criticate in quanto poco fedeli. Nel 1753 entra a far parte dell’Académie des arts, sciences et belles-lettres di Digione, dalla quale sarà escluso pubblicamente nel 1785, umiliazione che secondo la leggenda lo porterà alla morte nello stesso anno.
Pochi anni prima, a Firenze, Clemente Susini si dedica alla produzione di modelli in cera “apribili”. Il suo capolavoro è la Venere dei medici, un meraviglioso «giocattolo per uomini di scienza» (Didi-Huberman, 2014 p.89). Una giovane donna allungata su un panneggio bianco con la testa reclinata all’indietro: un’effige il cui realismo inquietante include capelli veri, peli pubici e una collana di perle, utile anche a mascherare il solco che la percorre dalla base del collo fino all’inguine. Come uno scrigno, il ventre di questa Venere si solleva permettendo di osservare la complessa realtà dei suoi organi e delle sue viscere. Anche qui un «gioco lugubre trasforma ambiguamente la verità anatomica in un fantasma perverso» (Didi-Huberman, 2014 p.89). Venere, dea della bellezza, aperta e fatta a pezzi, permette allo scienziato di scandagliare i suoi segreti. All’apertura del corpo segue il suo smembramento.
La passione per il corpo sezionato evoca ancora la moda del blasons diffusa nelle corti del XVI secolo. In questi componimenti l’elogio della bellezza femminile passa attraverso l’enumerazione dettagliata delle parti idealizzate del corpo della donna. Secondo un principio simile, gli uomini di scienza inseguono il fantasma della bellezza e della verità operando incisioni sul corpo femminile e separando e classificando le sue parti. Nella foga di conquistare sempre nuovi territori del sapere, il corpo continua ad essere “blasonato” cioè «fatto a pezzi, per far fiorire frammenti di uomini e donne come trofei» (Sawday, 1995).
Donna vista di schiena, aperta dalla nuca al sacro. Ma il punto non è solo la posa della schiena. È il gesto di darci le spalle, una sorta di torsione che annuncia un movimento. Come fosse un cadavere poco docile che sta per mettersi a danzare. Ma non è nemmeno un corpo morto, o almeno non totalmente. È di sicuro qualcosa che si trasforma, ma cosa? Dicono che André Breton vi vedesse due ali e che, per questo, questa stampa fu soprannominata dai surrealisti come L’angelo anatomico [7]. E se fossero delle pinne, braccia di una creatura marina? Non possiamo dire nulla di fondato, solo rivolgerci all’immagine e interrogarci. È infatti più semplice reperire informazioni e storie sulle sue tecniche di realizzazione e sull’artefice, che qualcosa su di lei. Ma non crediamo che questa sia la sua ennesima condanna: questa immagine, questa tavola, questa donna non parla solo dell’assoggettamento di un sapere e della violenza del patriarcato.
Dove cade il suo sguardo? È difficile tracciarne la traiettoria. Chiede di potersi guardare o di essere guardata? Vuole una parola prima proibita e recisa o farci notare l’assenza, ancora presente, di una storia, la sua? Tra questi interrogativi sembra tratteggiarsi qualcosa che non si può trascurare, le trame della sua pelle, una collezione di “segni tattili” che «comunicano in modi che non sono riducibili alla verbalizzazione» (Butler, 2006 p. 96). Possiamo considerare il filo della sua schiena come un palinsesto, una messa in immagini di un tempo (Barthes, 1980) che procede per stratificazione e profondità, ma vogliamo avvicinarci ancora, al punto da essere costrette ad allontanarcene. Perché la schiena è comunque una zona estremamente sensibile, “il punto perfetto della vulnerabilità” (Genet, 1947), e ci chiediamo come relazionarci alla sua, evitando di violarla ancora e di prendere parola al suo posto.
Questo è il nostro desiderio, come fargli prendere corpo? Come esercizio, partiamo allora da un verbo scomodo, auscultare [8], che ci riporta al 1816, un momento decisivo nella storia della medicina: René Laennec inventa lo stetoscopio. Sì, perché vogliamo ascoltare e auscultare questa schiena, esserne interpellate. Seguire un’indagine che passa da altri sensi, delinquere la grammatica della (bio)medicina per intravederne altri percorsi e coglierne una complessità che spesso viene ridotta e semplificata (Lock & Farquhar, 2007). Non per nascondere il teatro degli orrori che ha prodotto (e produce), tanto meno per aderirvi, ma per scegliere di stare lungo un crinale che non replichi la sua stessa violenza, evitando di distinguere ancora «le esperienze umane e soggettive dalle cose materiali e oggettive» (ivi, p. 11), ulteriori biforcazioni tra soggetto e oggetto, mente e corpo, tecnica e sensibilità. Ma è possibile appropriarsi di un termine medico per usarlo indisciplinatamente? Si può essere ladre rimanendo integre? Ne sentiamo la fatica, ma forse questa nostra fatica è un problema estetico, una questione di fili e telature, di tutti quei «segni materiali ed espressivi che attivano l’esercizio del pensiero, non separabili dalla fisicità e dalle operazioni che si costruiscono con essi» (Catucci, 2024 p. 14). E noi, due donne bianche occidentali, ci sentiamo fatte da quello stesso impasto che furiosamente vorremmo criticare. Ci sembra allora sensato usare lo stetoscopio come «contrario del gesto anatomico», accogliere la varietà di segni che produce e amplifica, e «che restano [comunque] da decifrare» (Venturi, 12.02.2023). Ma se auscultare significa «portare fuori l’interno organico senza ricorrere al bisturi» (ibidem), cosa succede allora ai confini e ai limiti del corpo? «Se si pensa al corpo in se stesso è impossibile delinearne i contorni» (Spivak, 1999).
Tentiamo allora di prendere corpo in questo gesto che delinque, auscultando una partitura altra per avvicinarci a questa donna, alla sua schiena, e riscriverci insieme a lei. Chi sei, creatura? Cosa chiedi? Cosa ci chiedi di guardare?
Si possono trovare storie che ti fissano in una cronologia, le peripezie e gli arnesi fabbricati per ritrarti e sfregiarti, e magari, cercando meglio, anche una tua biografia, ma noi siamo state catturate dal tuo cenno, intrappolate nel tuo movimento interrotto. Questo tuo gesto spezzato parla anche di noi, delle pretese del nostro presente, dei soggetti che tenta accanitamente di definire e costruire. Pretese che hanno iniziato a prendere una forma sempre più feroce, mentre tu eri costretta a posare per Jacque Gautier D’Agoty. Quella di un soggetto plasmato a immagine di due saperi ben intrecciati, disteso su un tavolo freddo con l’aiuto dei cavilli di un rinnovato sistema penale [9]. Ma la tua interruzione ci tocca, le tue ferite possono aprire le nostre e non vogliamo cadere nel tranello di pretendere da te una narrazione completa e lineare della tua vita. Perché, anche se la tua azione sospesa ci stordisce e disorienta, è capace di farci letteralmente divertire, di portarci altrove da te, lontano da questa tavola che ti ritrae. Più si moltiplicano le domande verso di te, più aumenta un brusio, un qualcosa che sfugge alla vista ed eccede le nostre stesse interrogazioni. Anche tu infatti ci chiedi di presentarci, ci trascini in rivoli e turbini, «perché nessun ‘io’ può iniziare a raccontare la propria storia senza chiedere e chiedersi ‘Chi sei tu?’, ‘Chi è che mi parla?’, ‘A chi parlo quando parlo con te’» (Butler, 2006 p. 177). Dobbiamo abbandonarci all’opacità che riecheggia in noi e tra noi grazie al tuo incontro. Abdicare alla trasparenza, ma anche a quella particolare relazione che definisce la posizione e la domanda di un medico di fronte a un paziente, come a quella di un anatomista verso un corpo senza vita.
Abbiamo allora deciso di esporci, di darti le spalle e mostrarti pure noi la schiena. Ti chiediamo di guardare in quei punti dove i nostri occhi non riescono ad arrivare. Così sentiamo più forte l’impossibilità di segnare i contorni e i bordi di un corpo in se stesso, così percepiamo una tensione verso una transitività reciproca, verso uno spazio in mezzo, uno spazio di traffico, di entanglements (Strathern, 1992). Ci sentiamo in soggezione e vogliamo rimanerci per accoglierti come corpo, immagine e oggetto, come singolarità che chiede, grida e desidera un’altra presenza, una scena interlocutoria per dar conto di sé (cfr. Butler, 2006 p. 68). La soggezione è legata all’esporsi, a un filo che oscilla tra un’intimità e una intimazione opposta alle relazioni messe in scena nei teatri anatomici o nei tribunali. Ha a che fare con il desiderio, con la disponibilità reciproca di essere “interpellate, reclamate, legate a qualcosa che non siamo noi, ma anche mosse, spinte ad agire, a rivolgersi altrove, fuori da sé”, non concependo il proprio corpo e/o io come “qualcosa che si possiede” (Butler, 2006 p. 179). Sarebbe troppo facile sbarazzarsi di te raccontandoti come uno dei tanti (e incalcolabili) corpi offerti e umiliati dalla scienza. La tua immagine, tua offesa e trofeo di un sapere (ma anche beffa per le sorti dell’artista-anatomista), ci chiede qualcos’altro. Stravolge la comodità di un incontro empatico che ti farebbe vittima e indifesa, stravolge la prospettiva di te come oggetto per una mera collezione di tavole anatomiche. Forse il brusio che sentiamo parla del tuo gesto interrotto, della precisione con cui mini quell’idea precisa di soggetto tondo, stabile, definito e autosufficiente. Tu ci parli dal nostro qui e ora.
Ci avviciniamo a te, alla tua schiena ferita, ritrovandoci così in uno «spazio incerto (vuoto di noi e pieno di altri)» (Butler, 2005 p. 180). Un luogo inconsueto che raccoglie una trama di relazioni fatta di tempo e storia, in bilico tra «com’erano le cose in passato […] in un futuro ignoto» e nel nostro presente (Anzaldua, 2022 p. 65). O ancora, tra un incrocio dove avviene una «lotta corpo a corpo con la storia» (ibidem), in cui vacillano tutte le posizioni, quella di un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto per esempio, a tal punto da ribaltare la situazione e farla diventare caotica. Uno spazio in mezzo dove diventiamo l’oggetto di un soggetto che ci ha interpellato, per divenire soggetti che possono parlare di sé. E così a termini invertiti. Tu ci ripeti con forza quanto siamo intrecciate e inevitabilmente ferite, segnate dalle relazioni. E non servono particolari capacità creative per accogliere questo nostro incontro, serve una certa disponibilità a modellarsi, possibile solo in una relazione e azione reciproca, «quando cioè un determinato sé mette a repentaglio ogni sua intelligibilità e riconoscibilità nel gesto di esporsi e di dar conto dei modi inumani in cui l’’umano’ continua a farsi e disfarsi» (ivi, p. 176).
Non crediamo che il darci la schiena sia un caso, troviamo che tu stia mostrando una vulnerabilità che appartiene a tutte noi. Una parola oggi troppo inflazionata che preferiamo tradurre come suscettibilità, una forte sensibilità a ciò che ci eccede e forma. Proviamo quindi a prendere corpo insieme a te, senza cercare come fulcro una teoria, ma tramite «un’estetica della connessione», una «ripetizione ostinata di esercizi pratici» (Catucci, 2024 p. 14) per accennare e sentire tutto il groviglio di relazioni che costituiscono perennemente ogni singolarità, per giocare con le luci e le ombre che formano un sapere e il suo (s)oggetto. Tu chiami un gesto che invita, con tutti i rischi, a interpellare l’altro per conoscere e poter narrare la nostra storia discontinua. Perchè questo io, questo corpo di cui si chiede di dar conto (per dimostrare una verità, per interrogare un passato, per comprendere i limiti e le fosse del proprio presente), non può esistere senza un tu che lo interpella. Parafrasando le parole di Gloria Anzaldua (2022), siamo noi quelle che scriviamo e veniamo scritte.
Note
[1] Contro la fabula storica dell’interdetto religioso sulla dissezione dei cadaveri, la maggior parte degli storici ha individuato il XV secolo come quel periodo in cui la dissezione è diventata parte necessaria alla formazione medica, anche se le prime testimonianze di tale pratica risalgono all’Italia del 1286 (Park, 1994). In particolare Foucault (2007 pp. 136-139), nell’analisi dell’emersione del sapere medico-clinico, parla di ciò nei termini di una giustificazione retrospettiva di questa stessa scienza.
[2] Il legame tra lo studio anatomico e il sistema penale è ancora d’attualità: si veda in questo senso la riflessione di José van Dijck (Djick, 2008) sul Visible Human Project (VHP), il primo database digitale di un corpo umano completo. Il cadavere sottoposto a questo complesso e innovativo sistema di digitalizzazione è quello di Joseph Paul Jernigan, un detenuto texano di 39 anni condannato a morte. Accettando di donare il suo corpo alla scienza, la sua condanna alla sedia elettrica si è convertita in morte per iniezione letale.
[3] A questo proposito il riferimento è al meraviglioso lavoro di Sawday (1995), in particolare al capitolo II.
[4] Il blasone è nell’araldica sia lo scudo, o stemma, sia la sua descrizione secondo precise regole per esaltare uno ad uno gli elementi di cui è composto. Nel 1535 Clèment Marot riprende come scherzo questa tecnica di rappresentazione con il suo componimento Blason du beau tétine, che avrà enorme successo tanto da innescare una larga produzione di componimenti che hanno come oggetto la bellezza femminile e nei quali i poeti rivaleggiano tra loro “usando immagini di corpi frammentati come moneta” (Sawday 1995).
[5] «Dopo un attimo di stupore il conquistatore si appresta a scrivere il corpo dell’altro e a tracciarvi la propria storia. Ne farà il corpo istoriato – il blasone – dei suoi lavori e dei suoi fantasmi» (De Certeau, 2006 p. 1).
[6] Gautier D’Agoty fu il primo ad utilizzare la stampa a colori nelle illustrazioni anatomiche. La tecnica della mezzatinta a colori era stata inventata nel 1719 dal suo maestro, Jaques Christophe Le Blon,e prevedeva la realizzazione di quattro impressioni separate (con inchiostro blu, giallo, rosso e nero). Per questa tecnica Gautier D’Agoty ottiene l’esclusiva del privilegio reale, che gli permette di mantenere segreto il suo processo di stampa.
[7] Sono proprio i surrealisti a rinnovare un’attenzione estetica verso le stampe di Gautier d’Agoty e a riutilizzare, in altre vesti, il genere del blason. Si veda per esempio Union Libre (1931) di André Breton.
[8] Questo suggerimento proviene dall’opera Corps étrangers (1994) di Mona Hatoum, «una video installazione che mette in mostra l’interno del corpo dell’artista […] in una sorta di teatro anatomico contemporaneo» in Venturi, il manifesto 12.02.2023 (ultima consultazione 20.08.2024).
[9] Ci riferiamo all’opera di Micheal Foucault, in particolare Foucault, 2003; ma anche a quella di Judith Butler, Donna Haraway e Marilyn Strathern.
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Arianna Colombo (1994), dottoranda presso la Scuola di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Genova, si occupa delle relazioni che intercorrono tra i concetti di care e cure nell’ambito della filosofia, dell’etnopsichiatria e dell’antropologia medica. Si è laureata in filosofia all’Università di Genova. Da tempo lavora con altre facce amiche nel tentativo di costruire altri mondi e modi di abitare il proprio presente.
Arianna Sortino (1990), scenografa, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Genova e alla HEAR di Strasburgo. Nel 2023 si laurea in Metodologie filosofiche all’Università di Genova, con una tesi di antropologia sulle tecniche sceniche e le pratiche magiche tradizionali. Collabora con diverse realtà tra cui il Suq Festival, il Teatro della Tosse e il Collectif Derrière la Montagne. Nel 2021 apre a Genova l’Antro, uno spazio di ricerca nutrito da un collettivo informale di artisti, filosofi, poeti e antropologi.